Come il silenzio, il vento

Come il silenzio, il vento

racconto inedito di Marilena Lucente

immagine in evidenza di Ciro Faraldo

 

Da bambina pensavo che nonna avesse i piedi palmati. Era così leggero e veloce il suo camminare che la ritrovavo ovunque. Di giorno. Ma di notte? Non riuscivo ad immaginarla ferma in un posto, la sua libertà era senza limiti, così per paura di perderla, provavo a inseguirla. Con il pensiero, certo, che poi sfiniva nel sonno o nel sogno, non ricordo.
Devono essere state quelle notti, quella città che io vedevo solo sotto le palpebre, perché nonna non
riuscivo a raggiungerla mai, ad avermi insegnato il passo e il coraggio per uscire di casa, in questa assenza dirumori stabilito per legge, in questa città che si è svuotata.
Il silenzio, allarga la piazza, ricopre i gigli di pietra, sampietrini incastrati nel via vai della storia, sfiora le panchine ancora ferme ad aspettare qualcuno. Mi infilo sotto i portici dove un tempo c’erano voci di uomini e scommesse, odore di giornali e militari stretti nelle divise a proteggersi dal vento.
Cammino per le strade che ancora hanno dentro le risate bugiarde dell’ultimo Capodanno, la musica, il rumore che fanno gli auguri, i vetri toccati, di baci sulla guancia tra chi era arrivato per qualche giorno e chi intanto pensava: “quando me ne andrò di qui sarà sempre troppo tardi”. Un pomeriggio come un altro, con la certezza di essere sempre padroni del tempo. A vederlo stanotte, quel momento sembra solo uno spreco di rimorsi e progetti. Nessuno riesce a stare nel tempo.
Continuano a sfiorarmi le vite di chi ho incontrato quel giorno perduto tra i fogli del calendario. Ieri
indefinito, forse non troppo lontano, se tutte quelle storie mi raschiano ancora la pelle, come fa il vento.
Entro nella Reggia come quando si ritorna a teatro a spettacolo finito. Ti è scivolata la sciarpa e chiedi se puoi andare a controllare. Il vuoto ha dilatato lo spazio e non ti orienti più, quello che c’era prima è svanito, un teatro senza anima è contronatura, e anche a te sembra di essere scivolata nel tempo, un po’ persa, come la tua sciarpa che qualcuno ha raccolto e ha portato via. Così grande, così sola, la Reggia chiusa.
Spaesata come tutti, sei guardiani appena a proteggere stanze e giardini, fontane e alberi. Tra le foglie, gemme di nostalgia, fiorire e sfiorire di camelie senza sguardi a proteggere la vita. Dalla peschiera, il rumore inquieto delle carpe a cui nessun bambino porta più da mangiare. L’acqua, nell’altra fontana, si lancia di gradino in gradino, con una specie di felicità che sembra non finire mai e invece è solo un ricordo. In alto continua, la vecchia favola di Diana e Atteone, la dea della caccia che non voleva essere vista e per questo punì Atteone, nipote di Cadmo e Armonia, che nemmeno conosceva la strada e per caso arrivò sul monte, con i suoi cinquanta cani, perché si era perso: e fu incantesimo di occhi dal quale nessuno può tornare indietro. Le ninfe di pietra, i vestiti mossi nell’aria, a domandarsi ancora e ancora se sia meglio fuggire o inseguire, correre in eterno o arrendersi e consegnarsi al primo “per sempre”. Ogni giorno, ogni ora la stessa scena – l’amore è un divieto – ma adesso, senza i turisti, e gli zaini appoggiati al bordo della vasca – l’amore è fuga perché è divieto – senza le centinaia di fotografie sparse per il mondo come coriandoli – è solo un mito schiacciato contro un cielo che non è mai stato così lontano.
Un rumore improvviso mi provoca una scarica elettrica; sento i passi di un uomo che vedo senza essere vista e mi viene una gran voglia di seguirlo, una di quelle voglie a cui non so e non posso dire di no. Fosse pure l’ultima cosa che farò questa notte. E’ già entrato nel giardino inglese e si è infilato nell’intrico dei sentieri brevi e scoscesi; si ferma, deve aver provato un brivido anche lui, perché quando riprende acamminare il passo è più incerto.
Venere, appena sfiorata dall’acqua, ha gli occhi bassi che sembrano sussurrare. Deve averla cercata da troppo tempo una donna così, è solo esitazione dettata dal buio, ma ha deciso: stanotte lo farà.
Invece, quando finalmente si avvicina, è lei, Venere Afrodite a parlargli: “Non svegliare l’acqua” gli dice quando le onde fanno silenzio. Poi aggiunge: “Sta sognando”.
L’uomo infila la mano in tasca e tira un pezzo di stoffa, una specie di fazzoletto, ma più piccolo. Lo apre e con delicatezza estrema le sfiora il viso. Dietro la nuca, sul collo nudo, stringe la coppia di nastri bianchi. Ma piano. Un bacio sulla mascherina e si allontana. Come chi non può arrivare in ritardo. Come se fosse stata la
paura, a renderlo libero. “E’ tutto questo vento”, pensa Venere, rimasta sola. “Fa impazzire gli uomini”. E’ tutto questo vento che oltre le parole mi porta pensieri non pensati da me.
Il respiro profondo del parco di notte mi accompagna sino all’uscita. Sul Corso, il tempo è quello delle sale d’attesa, tempo immobile, di timori trattenuti, tempo circolare, di un orologio senza lancette. Solo le automobili, le poche parcheggiate, sembrano invecchiate di colpo, tutte.
Anche se è passata la mezzanotte ci sono ancora finestre accese, gli occhi insonni della città. Chi crederà alle cronache di questi giorni, di pomeriggi di megafoni sulle macchine della protezione civile che raccomandano di restare in casa, di sere consumate nella conta dei ricoverati, bollettini ufficiali accompagnati dal volo di mani di chi traduce a beneficio dei sordomuti che nella loro testa compileranno altri ragionamenti di tutto questo vivere e morire, morire con un dolore nuovo che non può concedersi nemmeno ad un abbraccio. Muto, lui sì, adesso, il dolore.
Chi mi crederà quando racconterò del pomeriggio in cui sono passata davanti alla porta di una chiesa, una chiesa chiusa, vuota, ma prima qualcuno aveva allineato i banchi e pulito il pavimento, e ho sentito distintamente l’organo che suonava Fratelli d’Italia e quelle note si rincorrevano sul piazzale come una volta i palloni dei ragazzini che tiravano calci all’infanzia per accelerare l’arrivo della adolescenza. Scomparsi, adesso, dalle strade, i bambini, i ragazzi che si facevano uomini, le ragazze col passo veloce ed è solo un camminare di cani con gli occhi neri e lucidi.
Per vecchia abitudine che non so togliere, leggo le targhe delle strade, conosco appena la metà dei nomi a cui sono intitolate. Le strade, ora vuote, sanno cosa ci è successo? Hanno un angolo, un nascondiglio dietro qualche grondaia, un nido, sotto un balcone, dove conservare i nomi di chi ha vissuto, camminato, lasciato un graffito, un pezzo di vita? Si ricordano di noi, adesso che le attraversiamo di fretta, come mia nonna quando ero bambina. Saprebbero riconoscere il rumore dei passi che mille e mille volte le hanno attraversate?
La voce del maestro di tango mi raggiunge da una sala da ballo oramai chiusa e dimenticata tra i vicoli della città vecchia. “Guardate gli occhi”. Il suo incessante imperativo.
“Guardatevi negli occhi”. E già ci rimproverava, per non sentirsi sconfitto. Diceva che non lo sapevamo fare, eravamo solo viziati, perché parlavamo nascondendoci dietro i vestiti, i capelli, gli orecchini e il colore dello smalto. “Pensate alle donne arabe, con i loro occhi dicono tutto. Immaginate di avere il viso coperto, e di essere fatti di sguardi”. Da quella privazione della bocca sarebbe arrivato un nuovo linguaggio. Così avremmo imparato a ballare. Non con il compagno di una serata. Per quello sono buoni tutti. A ballare col mondo. Così diceva, ma era retorica di un insegnante un po’sopra le righe, che troppo assimilava il tango alla vita. Una mascherina, qualche mese fa, lui nemmeno l’aveva mai vista da vicino. Nemmeno io.
Adesso quella lezione mi tornava utile: avevo tutto un alfabeto da imparare. La scuola di tango però, come quasi tutte le scuole del mondo, era chiusa. Scuole di ballo, di parrucchieri, università, scuole elementari, scuole di specializzazione, scuole di cucina, tutte chiuse. Aule deserte, corridoi ammutoliti, uffici desolati.
Continuo a inseguire l’uomo del giardino inglese. I suoi passi mi conducono dove la città sfinisce, e di fronte l’ospedale già si affaccia un’alba striata, viola e rosa, della primavera che continua ad arrivare con quella ostinazione tutta sua. Lo vedo mentre rivolge un saluto di consuetudine al vetro della guardiola e tira dritto e attraversa la folla di parenti sulla rampa del pronto soccorso. I pazienti entrano e le maniglie antipanico serrano fuori preghiere e raccomandazioni. Dentro solo i malati, le loro pantofole di gomma, lo spazzolino da denti e il cellulare.
“Dottore… “, una donna che lo ha riconosciuto lo chiama con affanno e gli affida il nome di suo figlio. Altre persone lo raggiungono, inutile ricordare loro la necessità della distanza. Gli si accalcano intorno per necessità e speranza.
Di nuovo solo, si sfrega le mani con più energia del necessario, indossa la tuta che sembra fatta di velo e lo fa assomigliare ad una nuvola ammaccata, nasconde i capelli sotto la cuffietta verde. L’ultimo pensiero, mentre abbassa la visiera, è per lei. Un mezzo sorriso si disegna sotto la mascherina. Le ha giurato di tornare, lo farà. Anche lei gli ha consegnato una promessa: sarebbero usciti tutti migliori, specchiandosi in quei sogni sognati dall’acqua, il ritorno sarebbe stato come la prima volta, ma una prima volta piena di passato. Non la prima volta in cui ti prende l’ebbrezza e resta un senso di stordimento, una prima volta nuova, rispettosa di ogni domani e di ogni incertezza. Quando entra nel reparto, il mio dottore sembra camminare sulla luna.
Per le strade, solo uomini e donne in fila. Qualcuno mantiene la separazione assegnata, un metro, non un centimetro in meno, qualcuno si protegge aumentando la lontananza. Come merli, arrivavano le donne trascinandosi i carrelli, le mani ricoperte di lattice; il vento ha lasciato una scia di silenzio che è già abitudine, una polvere leggera sulle cose e sulle persone. Nel disegno dei passi mi sembra di riconoscere un’impronta di piedi palmati, ma forse è solo impressione. I sogni, al risveglio, si dimenticano presto.

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