La baracca dei tristi piaceri

di Tania Spadafora

 

 

“Fin dal primo momento capii che solo

 l’alcol mi avrebbe salvata. Nello stesso

 tempo sapevo quanto era sbagliato.

L’alcol non dovrebbe mai usare essere

usato come ancora di salvezza dalla disperazione,

ma in quel contesto sarei impazzita senza.”[1]

 

 

Si è portati a pensare che nelle circostanze in cui l’orrore, la disumanità più bieca, la ferocia più efferata si esprimono con tutta la propria pienezza, non ci sia spazio per “un peggio”, come se davanti alla brutalità più mostruosa, ogni altra fonte di odio, razzismo, egoismo si azzerasse in un livellamento privo di distinzioni, come se tanta mostruosità non contemplasse la possibilità di dare voce ad altro orrore discernibile all’interno di questo: insomma, toccato il fondo non si può andare oltre.

Ma non è così.

E che così non sia, lo testimonia il romanzo di Helga Scheneider, La baracca dei tristi piaceri, scrittrice tedesca naturalizzata italiana, raccontando una pagina di storia, ai più, poco nota: Himmler, a partire dall’anno ‘44, dispose che in tutti i principali lager fossero costruiti bordelli per incrementare il lavoro delle guardie SS e i Kapò attraverso questo incentivo. Altra motivazione addotta a giustificazione di tale progetto fu la seguente: “L’istituzione dei bordelli venne propagandata anche con la giustificazione morale che in questo modo si evitava il più possibile la “degenerata” omosessualità diffusa nei campi tra i prigionieri e non solo tra loro.”[2]

 

Per il 70% le donne impiegate come prostitute erano tedesche, le altre provenienti dai paesi occupati. Erano escluse le ebree, ritenute contaminanti per il loro sangue non ariano. Si trattava per lo più di giovani tedesche che si erano macchiate del reato di aver contaminato il proprio sangue ariano con quello di ebrei con i quali si erano fidanzate o sposate, donne politicamente non sostenitrici del regime e, in minor parte, prostitute. Per cercare di salvarsi, queste donne, accettarono di lavorare nei neoistituiti bordelli dove si aveva un letto, acqua calda e un pasto decente e, quindi, maggior possibilità di sopravvivere che nei campi di lavoro. Inoltre, queste donne ricevettero  la promessa, che non venne però mai mantenuta, della concessione della libertà dopo sei mesi di “lavoro”.  Subivano la media di 10/12 rapporti a sera, oltre che umiliazioni, violente aggressioni e, se rimanevano incinta, erano costrette ad abortire.

“Eravamo considerate carne da macello sulla quale si poteva scaricare tutto il sudiciume del mondo. […] Ci disprezzavano profondamente, con qualche rara eccezione. Eppure sapevano bene che, tranne tre o quattro, noi non eravamo prostitute!”[3]

Poiché, in quel contesto, la disfunzione erettile era molto diffusa, per raggiungere l’erezione, molti uomini dovevano dare vita a perversioni e violenze capaci di eccitarli, come ad esempio, racconta una testimone, bruciare le gambe delle donne con mozziconi, insultarle verbalmente: “Era un classico. I detenuti scaricavano l’odio, l’esasperazione e il senso di impotenza su donne in condizioni di pura impotenza, in una specie di rivalsa speculare che trasformava il male ricevuto in legittima vendetta.”[4]

Infine, orrore degli orrori, l’ennesima violenza, per alcuni versi la peggiore, si consumò conclusa la guerra, in tempo di pace, quando queste donne non vennero considerate come vittime e dovettero nascondere il loro passato come se fossero colpevoli: “I due Stati tedeschi sorti dopo la guerra si trovarono allora concordi nel negare alle donne dei Sonderbauten la loro condizione di vittime e il diritto a qualsiasi risarcimento supponendo una loro complicità e facendo propria, in un certo senso, la qualifica di “asociali” loro attribuita dalle SS dei campi.”[5]

Emerge, anche in questo contesto, la contraddizione, la natura doppia della morale nazista che da un lato ergeva la donna ad angelo del focolare, vietando e perseguitando penalmente la prostituzione e, dall’altra, istituisce una “prostituzione forzata” nei lager. E se pensiamo al, tristemente celebre, epitaffio Arbeit macht frei, trionfo di ipocrisia e meschina manipolazione, allora, comprendiamo come anche questa terribile violenza perpetrata sulle donne abbia trovato nella definizione di “lavoro sessuale”, un altrettanto meschino eufemismo. La maggior parte delle donne che vissero tale esperienza non riuscirono, una volta liberate, a vivere una vita piena, come la protagonista del romanzo, che rinunciò ad essere madre: “Non potevo!Che madre sarei stata, con quella sensazione di sentirmi sempre sporca? Come avrei potuto allattare un bambino? Ancora mi chiedo come abbia fatto a non finire in manicomio”[6]

Questo capitolo di storia s’iscrive nella più generale storia della violenza sessuale contro le donne: e se non furono poche le donne che persero la vita per le violenze subite, tutte persero se stesse.

 

Note

[1] Helga Schneider, La baracca dei tristi piaceri, Ed. Salani, 2009

[2] Idem

[3] Idem

[4] Idem

[5] Christa Schikorra, Prostitution weiblicher Häftlinge als Zwangsarbeit, Zur Situation „asozialer“ Häftlinge im Frauen-KZ Ravensbrück, in Dachauer Hefte. Dachau 2000, 16.

[6] Helga Schneider, La baracca dei tristi piaceri, Ed. Salani, 2009

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