Finché nella mia vita

Finché nella mia vita

racconto inedito di Stefania Marongiu

 

 

 

– Anto, ciao, sono io. So che questo messaggio lo ascolterai tra almeno due ore, ti conosco. Va bene così comunque. Mi dispiace che non siamo riuscite a beccarci nemmeno stavolta, ogni estate è così. È strano che durante l’anno siamo sempre tutte e tre insieme, poi appena si torna a casa ognuna scompare… Lo so che hai bisogno di staccare, Anto. Ma questa volta è una cosa seria. Marianna di nuovo non risponde, né ai messaggi, né alle telefonate, figuriamoci. Comunque Anto, se senti questo messaggio vieni qui, okay? Anche stasera, anche se arrivi tardi. Se il mio telefono non dovesse prendere, ti ho mandato la posizione. Spero di vederti. Ciao–.

Tre minuti e mezzo di messaggio. Non lo ascolterà mai. Al massimo lo farà stasera, quando torna dal mare, da qualche spiaggia dove non c’è campo, o da dove cazzo si sarà andata a ficcare. Mi guardo intorno. L’autobus mi ha lasciata in uno spiazzo bianco di polvere, dove l’aria sembra rimanere ferma, una coltre di umidità rovente che mi ricopre, spezzandomi il respiro. Oltre la lingua di terra battuta, piante sottili, ammassate sulla linea del cielo, dense e compatte, una massa verde invalicabile. Le indicazioni per il sentiero pendono da un palo divorato dal vento e dalla salsedine.

“Quando ero ragazzina dovevo entrare dentro i cespugli per tornare a casa. Il sentiero lo vedevi solo se sapevi che c’era. Le piante funzionavano da portone, da fossato. Eppure sono piante simili al bambù, sembrano fragili. Una volta che entravo nella fessura tra le frasche, sparivano anche i rumori delle macchine. Dopo un po’ sembrava che la città fuori manco esistesse”. La voce di Marianna mi arriva da un tempo neanche troppo lontano da questo che sto vivendo adesso, ma da una stagione e una città così diverse da poter essere un’altra vita. La rivedo infagottata in un maglione color senape, con gli sbuffi di aria fredda che le escono dalla bocca insieme al fumo della sigaretta. Ci raccontava della sua infanzia, con nostro sommo stupore, vista la sua abituale riservatezza. La città, che vedevamo dalla terrazza a cui eravamo appoggiate, le riluceva intorno, immobilizzata da un merletto di brina e neve che pareva aver imprigionato tutti, macchine, passanti, uccelli. Era dicembre.

Adesso è fine luglio e la città è un’altra, lontana da quella da cui proviene la voce della mia amica. È la città dove è cresciuta. È la città dove io sono venuta a scuola, quando ancora ero bambina e il liceo mi era sembrato una terra sconosciuta a cui approdare, dopo aver abbandonato l’isola nell’isola che è il mio paese. Trepidante, avevo gettato lo sguardo sui palazzi e sulle piazze come guardando una metropoli sconosciuta dal finestrino di un aereo, tra la vertigine e un senso di attesa elettrico. Dopo pochi anni mi ero accorta che anche quel luogo aveva uno spazio troppo limitato per la spinta della mia giovinezza, ed ero partita. Negli stessi anni, anche Marianna era partita, per ragioni imperscrutabili e delle quali non ci aveva mai messo a conoscenza, benché fossimo diventate amiche. Antonella, invece, è l’unica a non essere passata da qui come tappa intermedia della sua emancipazione. Per un capriccio da avventuriera, aveva deciso di abbandonare il suo “villaggio di bar di anziani e castelli diroccati”, come le piaceva dire, senza passare per l’immobilità rassicurante del capoluogo di provincia. Ci eravamo dunque trovate, io, lei e Marianna, tre isolane in una città del nord. Prima di allora non ci eravamo mai incontrate, nonostante venissimo dallo stesso posto.

Rimango, ancora per un attimo, di fronte al muro di fronde che sfiora il cielo sgombro. La voce di Marianna, che mi ha condotto fino a qui, ora tace. Ci abbiamo messo un po’ a capire che all’infanzia e all’adolescenza di Marianna non appartenevano le strade lunghe e dritte fino al mare, circondate dagli alberi di jacaranda, che fioriscono solo a giugno, vestendosi allora del viola abbacinante di piccoli fiori. Né il profilo dei palazzi beige arroccati sui colli come schegge di madreperla consumate da piogge di fango. Non aveva mai frequentato il porto, affollato di barche solitarie né le piazze di calcare bianco, scheggiate negli anni dai ragazzini con gli skate. A un certo punto, come colta da una specie di strana trance lucida, aveva iniziato a seminare scampoli di luoghi che aveva abitato, durante certe serate incolori, lassù, nella nostra nuova vita. – C’era lo stagno, che era un posto che mi faceva paura, di solito, ma mi aggiravo lì tutti i pomeriggi, tornata da scuola, era l’unico posto che conoscevo e poi dovevo attraversarlo per forza, per tornare a casa. Le piante mi sembravano strane, con fiori carnosi che non erano fatti di petali, perché quando li toccavo con un bastone erano duri e acquosi. Anche se c’era l’erba, tutto aveva sempre un colore marrone, credo fossero le piogge e il vento, che portavano terra–. Mari, ma dove? chiedevamo noi, sporgendoci oltre i tavoli dei bar dove eravamo sedute. Lei però, notando la nostra curiosità, si metteva a parlare d’altro. Poi scendeva la sera, magari avevamo cambiato bar, a quel punto avevamo già bevuto un po’ e allora lei, quasi parlando a se stessa, riprendeva – Del fatto che ci fosse acqua quasi te ne dimenticavi, a volte. Perché l’acqua di uno stagno praticamente non si muove, capito? Anche quando tira vento. Vedi delle ondine minuscole che non vanno da nessuna parte, vengono sollevate dall’aria, ma siccome c’è troppo sale rimangono attaccate alla superficie–. Noi allora non chiedevamo più niente per evitare che lei smettesse di raccontare – Lo stagno faceva paura perché era pieno di rumori. Questa massa d’acqua immobile, circondata dalle piante. Non erano mica alte, però lo sembravano. Io sapevo che la spiaggia era vicina, a volte il vento portava le voci della gente. Ma le piante non me la facevano vedere. C’era solo lo stagno e il cielo sopra. Si sentivano dei suoni che però non capivo mai da dove provenissero. Tipo, a volte mi arrivava questo verso lungo, poteva essere un uccello. O un bambino. Certi giorni pensavo che potesse essere veramente un bambino. Di solito erano i giorni in cui ero più nervosa. Comunque, a un certo punto ho capito che poteva essere un uccello che a volte vedevo tra i cespugli. Il collo lungo, gli occhi con l’iride bianca e la pupilla grande, scura. Io avevo paura di lui e lui di me–.

Passo una mano tra i corpi sottili e acuminati delle piante che serrano lo stagno.

Da ragazzina, ero convinta di conoscere la città a fondo. Mi ero fatta bastare quelle due piazze scalcinate che frequentavo, la strada tra la scuola e la fermata dell’autobus, la paninoteca dove andavo il sabato, incastonata da mille anni nei vicoli del quartiere del porto. Dopo aver ascoltato Marianna invece, ho iniziato a capire che mi ero solo costruita un’idea della città, che corrispondeva con i miei piccoli riti da adolescente, punti su una carta che servivano a rintracciare in che modo stavo crescendo. Tutti i posti che non percorrevo con il mio passo isterico di ragazzina, era come se non esistessero. Come lo stagno, ad esempio. Per anni sono andata alla spiaggia della quale Marianna sentiva solo i rumori, ho bevuto coca cole ghiacciate sotto gli ombrelloni dei chioschi, ho sfregato il sedere sulla sabbia terrosa, ho trattenuto il respiro sotto l’acqua, sbirciando il profilo delle colline che stringono il golfo e proiettano la loro ombra verde scuro sul mare. Nemmeno per un momento, durante quelle giornate piene sia di noia che di euforia, ho guardato lo stagno chiedendomi che storia avesse. Finché nella mia vita non è arrivata Marianna.

Quando infilo la testa oltre la cortina degli arbusti, lo stagno si getta verso i miei occhi come una distesa di luce venuta fuori da una finestra aperta. Aveva ragione lei. L’acqua non si muove. Eppure, sembra gorgogliare di vita sotterranea, oltre la riga grigia che divide il sotto dal sopra. Cammino sul sentiero, non ci sono alberi, niente sembra poter fare ombra sulla terra madida e polverosa, che si spoglia e si accascia sfinita sotto il caldo. Non soffia vento, quindi dalla spiaggia non provengono i rumori festosi dei bagnanti, né il cicalìo continuo della musica nei bar. Il silenzio si gonfia e occupa tutta l’aria. Ma è un silenzio pieno di rumori, come diceva Marianna. Intanto che proseguo, attenta a non inciampare, mi accorgo che i sussurri crescono in maniera quasi impercettibile, come un coro di cicale, come un corpo che si muove su un letto, agitato da un sogno. Prima piano, poco per volta, poi tutto insieme, scosso da un fremito che chi è sveglio non può vedere. All’improvviso capisco che sono circondata da animali che non si mostrano, ma sono ovunque. Insetti e serpenti frusciano nell’erba vicino alle mie caviglie, uccelli spiccano il volo proiettando per un istante un’ombra rapida al suolo. “E io avevo sempre molta paura, perché lo stagno nascondeva tutto, pareva non esserci mai nessuno lì, ma invece se ascoltavo bene, quando smettevo di far finta di pensare ad altro, arrivavano tutti”. Lo aveva sussurrato una volta, prima di addormentarsi, forse ubriaca, nel letto accanto al mio.

Nemmeno il battito del mio cuore e il mio respiro coprono quella riunione di bestie invisibili e parlanti. Cammino sempre più veloce, il sentiero fa una curva a gomito, sembra tuffarsi nell’acqua lattiginosa e verdastra. Penso che la terra sia finita e temo di dover procedere dentro lo stagno. Invece, la strada si incunea dentro un’insenatura, che prosegue fino a una casa, appoggiata sull’argine come una cartaccia appallottolata.

Marianna non ci aveva mai raccontato niente della casa, però ora che la guardo penso che somiglia a qualcosa che avrebbe potuto raccontare. È grigia, a due piani, con le finestre spalancate e le persiane verdi. Ci sono dei cespugli che le crescono attorno, si tengono a distanza e lasciano spazio a uno sterrato bruno. La porta è aperta su un rettangolo scuro che non fa intravedere niente dell’interno. Anche se Marianna è sempre stata reticente, quest’estate, dopo che ci eravamo salutate all’aeroporto con la promessa di vederci nei giorni successivi, ho finalmente capito che tutti quei pezzi mormorati la notte, dopo aver bevuto, sono fori che lei fa sul telo della nostra vita in comune, di emigrate che gettano il sale sulla strada che le ha condotte fino a quel punto, fingendo che quanto è stato prima non abbia importanza, quasi non sia mai esistito. E se io e Anto compiamo quel rituale solo per il vezzo di sentirci immediatamente adulte, nonostante non lo siamo affatto, lei invece lo fa per dimenticare, per lanciarsi lontano rispetto alla bambina che è stata. Anche se tutto quel tagliare e dimenticare la rende zoppa, è comunque meglio. Solo che d’estate nessuna di noi sa dove andare, e quello che credevamo di aver lasciato indietro si ripresenta, immutato. Marianna è quindi tornata qui, alla casa in cui aveva vissuto prima di diplomarsi e partire, prima di conoscerci, e non è più uscita.

– Mari!!– strillo in direzione della finestra al piano di sopra, per scacciare via gli animali, che continuano a trascinarsi dietro di me, rumorosi ma invisibili. Si arrestano, incerti, e per un attimo il silenzio si fa vuoto, fermo. Un uccello rosa, immerso nell’acqua che lambisce appena il bordo di terra di fronte alla casa, solleva il lungo collo. Ha lo sguardo orlato d’oro e la pupilla castana. Mi fissa per un istante, non dice niente. Oltrepasso l’uscio e getto un’occhiata allo stagno, placido e silenzioso, alla piana del cielo e allo steccato di piante. Incastrati nel riquadro della porta, sono uguali a quello che Marianna raccontava, a quello che lei ha visto per anni, bambina seduta sul pavimento, quando ancora non sapeva camminare, poi, ragazzina, dritta in piedi un attimo prima di uscire, sconfortata dal timore per quello che avrebbe trovato fuori ma stanca di quello che aveva dentro casa. Nel salone c’è caldo e ombra. I divani sono due, coperti di cuscini polverosi. Sul tavolino di fronte, vecchie riviste di arredamento, accatastate in piramidi sbrindellate. Un tavolo più grande, con le gambe in legno e il piano di vetro, ha i segni circolari di piatti  e bicchieri. Poco più in là c’è la cucina, con il lavello bianco e i canovacci ammucchiati tra le stoviglie lasciate ad asciugare. I pensili sono quasi vuoti, solo barattoli e pacchi di biscotti aperti. Le scale in cotto portano al piano di sopra, non c’è la ringhiera. Seduta sui gradini, c’è Marianna. Ha i capelli castani raccolti in una crocchia disordinata, un paio di pantaloncini di jeans, una canottiera blu con gli aloni di deodorante sotto le ascelle, non ha scarpe né reggiseno. Mi guarda e sorride. Dice – Sei venuta–. Si mangia una pellicina. – Non c’era bisogno, ti preoccupi sempre–. Dalla parete gratta un po’ di intonaco. – Anto ha fatto bene a starsene al mare, qua è una merda. Sai che depressione le sarebbe venuta–. Nel dire così due lacrime le scendono sulle guance.

Io faccio un sospiro – Mari…– dico. Faccio un passo verso di lei, allora lei si stringe nelle braccia, uno scatto nervoso – Non posso venire con voi. Devo fare i bagagli, come faccio… Come faccio a uscire–. Le dico – Muoviti. Vedrai che Anto ci aspetta fuori, con la macchina–. Non so se sia vero, ma lei non può saperlo. Magari Anto ha davvero ascoltato il mio messaggio, magari davvero è là fuori, ad aspettarci. Lei intanto continua a piangere e fa su e giù con la testa. Resta in silenzio ancora un po’ e poi dice – Vuoi vedere una cosa, prima?–. Io penso che se le dico di sì è possibile che da qui non usciremo più, ma se le dico di no, probabilmente sarà lei a non venire con me. – Va bene– rispondo. Mi tende la mano e mi accompagna al piano di sopra, dove ci sono tre porte. Una è spalancata, con la luce bianca che la riempie. Il letto, con lenzuola anch’esse bianche, è rifatto, come se nessuno ci avesse mai dormito. La valigia di Marianna è sul pavimento, ancora piena. La seconda porta è chiusa. La terza è aperta su una stanza con una carta da parati a piccoli disegni floreali, verdi e rosa. C’è un letto di legno, sfatto, e un armadio basso, con le ante a specchio. Una donna, di spalle, con un vestito blu senza maniche, pieno di sbuffi di polvere, picchia ritmicamente un cucchiaio di legno sulla parete. Non si volta. Noi la guardiamo, dalla porta. Faccio per dire qualcosa, ma Marianna spalanca gli occhi, terrorizzata, e mi mette una mano sulla bocca. La donna si ferma per un attimo e lei mi guarda con rimprovero. La signora ricomincia a battere. Allora stringo il polso della mia amica e con gli occhi le indico le scale.

Corriamo sulla terra secca, vediamo lo stagno con la coda dell’occhio, che diventa solo un riflesso argentato e marrone. Le piante vibrano piano al nostro passaggio, uccelli bianchi si alzano in fretta, ora spaventati, ma non riusciamo a vederli perché non ci fermiamo. Marianna prima mi sta dietro, poi corre più veloce di me e mi tira la mano per farmi seguire il suo passo. Attraversa il muro di piante senza esitare. La strada dove l’autobus mi ha lasciata, qualche tempo prima, è bollente e le macchine ci sfrecciano sopra pigre, dirette al mare. Una di queste rallenta e si ferma davanti a noi.

 

 

Biografia

Stefania Marongiu è nata a Cagliari nel 1987. Insegna geografia nelle scuole superiori. I suoi racconti sono apparsi su Eccetera Magazine e su Racconti dal crocevia. Con il racconto intitolato “Un talento raro”, è arrivata terza al Premio Zeno 2021– Sezione Racconti lunghi.

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