Steppe

Steppe

racconto inedito di Arjuna Cecchetti

Settimane prima avevamo preso un pasto al piano terra di un grande albergo sovietico del quale rimaneva aperto solo il ristorante che era una vasta sala con la moquette marrone e una porta a due ante da dove entrava e usciva una cameriera solitaria. Prima ancora avevamo mangiato ravioli al vapore sotto una tenda bianca montata sulle pendici dell’immensa Otgon, la montagna sacra.
Un’altra volta era stato lo yak a sfamarci, dei nomadi ci avevano offerto un piatto di riso bianco con l’aggiunta di un mestolo di spezzatino. Ma la maggior parte delle volte eravamo riusciti ad arrostire su piccoli fuochi di legnetti i grossi taimen che Kevin pescava negli scuri fiumi delle steppe. La capitale con i suoi ristoranti e le sue bettole era lontana anni luce.
Il fuoristrada sobbalzava da ore avanzando sempre nella stessa direzione che nessuno di noi sapeva quale fosse davvero. Io e Kevin ci passavamo la piccola scacchiera magnetica, giocavamo da giorni, da settimane, da mesi e avevo perso abbastanza e non avevo più voglia. Il paesaggio nel quale eravamo immersi era vasto e disabitato. Ci eravamo abituati a quel tipo di paesaggio e lo sguardo caracollava là fuori senza in realtà vedere la steppa, ognuno di noi tre occidentali pensava a sé stesso, al futuro che avrebbe dovuto costruirsi una volta di nuovo a casa, come in una partita a scacchi pensavamo ciascuno alla prossima mossa. Adi, l’unico asiatico fra noi, pensava, credo, alla strada e a come portare in salvo i suoi clienti. Ma c’era una cosa che ci univa tutti e quattro ed era la fame. Una fame che era cresciuta notevolmente negli ultimi tre giorni perché negli ultimi tre giorni non avevamo incontrato fiumi, non avevamo pescato e ci eravamo ingozzati come oche di noodles liofilizzati. Nel bagagliaio ne rimanevano ancora diverse confezioni impilate nella cassetta di polistirolo ma nessuno in quell’auto avrebbe alzato la mano per averne un’altra.
La verità è che stavamo cercando del cibo fresco, la mattina avevamo chiesto ad Adi di portarci
dove avremmo potuto trovare della carne ma questo non sembrava una cosa facile. Era più facile imbattersi in uno spaccio ma in uno spaccio non avremmo trovato carne, solo patate rinsecchite e forse delle gallette cinesi al gusto di banana e nessuno di noi avrebbe alzato la mano per le gallette.
Nel frattempo il cielo si era annuvolato infinitamente, quando di fianco alla pista è comparsa una tenda bianca. Conservo una foto scattata alla bambina che era uscita perché aveva sentito il rumore del motore e chissà chi sperava fossimo. Ci siamo fermati perché ai nomadi si può sempre chiedere del cibo, se ne hanno si intende. Adi ci ha intimato di non scendere per via dei cani che potevano avere la rabbia, ci stavamo avvicinando al Gobi e lì pare che ci siano cani con più rabbia che altrove. Siamo rimasti in auto e poi si è alzato il vento e col vento ha preso a volare la sabbia e così abbiamo tirato su i finestrini e poi ho pensato che la bambina sarebbe rientrata per colpa della tempesta di sabbia ma invece non è rientrata e ha solo stretto di più gli occhi e il cane bianco e nero le è rimasto accanto coprendosi anche lui gli occhi ma con la coda. Infine Adi è uscito dalla tenda con niente in mano. No proteine.
Adi ha detto che i nomadi gli avevano detto di provare più avanti. Dove? Adi allora ha detto che
avremmo potuto chiedere del cibo presso alcune case che si trovavano oltre certe rocce. Ma non
c’erano rocce in vista, c’era solo sabbia rossa che volava sulla steppa. Le rocce in questione, semmai fossero esistite, dovevano trovarsi oltre l’orizzonte.
Avevamo varcato mille altre volte la linea dell’orizzonte. C’era stata quella volta che superata una sella fra due colline brulle ci era comparsa davanti la lunga palizzata di una linea telefonica con i pali di legno a decine di metri uno dall’altro e con il filo che andava da un palo a quello dopo formando esili parabole che attraversavano la steppa. In Italia su quel filo mi sarei aspettato di trovarci sopra rumorosi tordi intenti a scambiarsi di posto, invece laggiù c’era un avvoltoio enorme che appena ha visto spuntare il nostro fuoristrada ha spiccato il volo con le immense ali nere. Il paesaggio di Karakorum era invece composto dal fiume d’argento serpeggiante fra l’erba smeraldina. Un’altra volta era spuntato il villaggio di Tseserleg, fatto di baite e pini silvestri e dove un ostello anglosassone ci aveva servito croissant francesi. Una volta sopra l’orizzonte era comparsa la luna e intorno a noi le rocce erano come diventate di iridio e diffondevano un chiarore fosforescente che aveva inquietato le nostre anime. Tante cose c’erano state nei paesaggi che avevamo attraversato ma quella sera noi quattro desideravamo un paesaggio fatto di proteine. Avremmo barattato tutto il bello che avevamo visto e sniffato nelle steppe per un hamburger di pessima qualità. Poi improvvisamente abbiamo girato attorno ad alti pinnacoli di pietra grigia e nera. Grigio e nero erano anche i colori del cielo sopra di noi con gocce di pioggia che cadevano sul parabrezza ma almeno il vento era scemato e la sabbia non volava più. Oltre quei pinnacoli sono comparse delle case di cemento, né più né meno di volumi rettangolari con gli infissi azzurri e tetti verniciati di marrone. Un villaggio costruito durante il periodo sovietico con lo scopo di inserire i nomadi nel sistema produttivo socialista, un esperimento fallito. L’ennesimo. Ma a noi in quel momento del Socialismo importava meno che zero perché a noi importava trovare un macellaio. Adi ha fermato il fuoristrada ed è sceso per bussare a una porta poi è risalito e poi ha guidato inoltrandosi ancora più dentro al villaggio e infine ha frenato ed è sceso nuovamente. Credo fosse molto agitato per non essere riuscito a trovarci del cibo ma poi finalmente ci ha fatto cenno di seguirlo e siamo scesi e quando è entrato in una di quelle case siamo entrati anche noi. Avrebbe dovuto trattarsi di una macelleria e c’erano due o tre tavoli di altezze diverse coperti con tovaglie di
plastica con fantasie di cavalli, ci sono sempre i cavalli nelle steppe. Sopra i tavoli però regnava il vuoto e delle mosche appiccicose ronzavano da una cavallino stampato all’altro.
Il macellaio, un uomo di almeno trent’anni, coi capelli neri pettinati da un lato e un maglione blu con un cavallo sul davanti sembrava un’ anima innocente e pura ma inutile. Adi ha detto qualcosa con quel misto di parole gutturali e acute che è quella lingua sconosciuta. Il macellaio ci ha preceduto fuori in strada e noi lo abbiamo seguito e lui è andato verso casa sua e noi siamo entrati dietro a lui. In casa c’era la moglie, scura di capelli, probabilmente bellissima ma non così tanto da farci dimenticare la fame, forse c’erano dei figli. Poi abbiamo cambiato stanza che forse era il soggiorno o forse no. C’erano un divano e un tappeto e delle sedie ma la cosa importante era che c’era una botola sul pavimento. Noi tutti tenevamo gli occhi sulla botola. Il macellaio l’ha aperta e dalla buca è uscita aria fredda che sapeva di terra. Ci siamo avvicinati alla buca. Una corda era calata dentro e il macellaio ha cominciato a recuperarla. Di sicuro qualcosa di pesante era appeso all’ estremità che stava risalendo su dal profondo della buca.
La scena non deve essere durata molto e infatti una manciata di secondi dopo il macellaio aveva
questa coscia di capra che penzolava dalla corda. La nostra coscia di capra congelata in una buca che raggiungeva il permafrost otto o nove metri più in basso.
Abbiamo stabilito un prezzo che non ricordo e poi ho preso le banconote verdi e rosa che tenevo accartocciate dentro la tasca della camicia e poi ci siamo salutati. Adi ci ha detto che quello è il punto più a Sud dove arriva il permafrost, più avanti ci aspettava il deserto del Gobi.
La sera eravamo accampati fra due boschetti di arbusti bassi e verdi che ci potevano dare la legna secca che ci serviva per il fuoco, tutt’intorno cresceva erba rada ma verde brillante, a terra fra un ciuffo d’erba e l’altro spuntava la sabbia gialla del Gobi. Siccome io ero il cuoco mi era stata affidata solennemente la coscia gelata della capra. Ho messo a bollire l’acqua e mentre il sole scendeva lento io tagliavo via striscioline di carne dalla parte superiore dell’arto e le gettavo su una padella per cuocerle a parte. Nell’acqua ho lessato il riso che poi ho mischiato alla capra. Abbiamo mangiato in piedi perché cadeva un po’ di pioggia e dovevamo coprire i piatti con i nostri poncho. Improvvisamente poi il cielo si è aperto e la luce dorata del sole si è sparsa in quella radura mentre un piccolo branco di caprette da cashmere è comparso zampettando fra noi. In quel momento tutti e quattro gli orizzonti erano visibili. A Nord il cielo era già blu come un oceano profondo. A Sud era un giorno luminoso e ancora attraversato dal basso arcobaleno dell’ultima pioggia. Ad Est invece era notte. Da Ovest proveniva la luce fatta d’oro. Mi sono incamminato verso Ovest. Anche Kevin ed Andreas si stavano disperdendo nella steppa camminando lentamente e fotografando qua e là. Io invece avevo un bastone in mano e ho camminato per un po’ fino ad avere i piedi nella sabbia di una bassa duna. Cosa credevo di fare?
Niente. Non c’era speranza di compiere il viaggio che avevo sognato di compiere. Gli Altai non si potevano raggiungere. Il sole lontano tramontava dietro l’azzurra catena montuosa, potevo scorgere i picchi innevati. Sembrava la schiena di un drago. I Monti Altai erano lontani e ci sarebbero voluti giorni e giorni di fuoristrada per raggiungerli e noi avevamo già la schiena spezzata da due mesi di quell’auto. I miei compagni di viaggio non mi avrebbero seguito e fra l’altro io stesso non avevo tutto quel tempo a disposizione. Per farcela sarei dovuto tornare nella capitale e prendere un Tupolev ad elica e attraversare la Mongolia con un volo interno. Era un’idea, ma il nodo alla gola che stava crescendo dentro la trachea all’altezza dei bronchi suggeriva chiaramente che non sarei mai stato negli Altai, mai.
Credevo davvero di essere così speciale da poter fare di quell’immenso paese un giocattolo?
Credevo davvero di essere parte di quella terra come se fosse la mia per diritto di nascita?
Credevo davvero che il Gobi e gli Altai fossero lì per rendermi felice come un principe?
Avevo messo da parte due mensilità per sparire in Asia Centrale e non c’era nemmeno riuscito.
Pensavo questo e piangevo che non lo sapevo nemmeno perché. Poi ho notato il bastone che stavo tenendo in mano e con quel bastone ho scritto tre nomi propri di persona sulla sabbia del Gobi, solo uno di quei nomi contava. Il suono di quel nome era il suono del vento che stava attraversando il deserto. Ecco cosa ero venuto a fare in Mongolia, ero venuto per tornare con quel nome dentro. Avevo raccolto quel nome nel punto più a sud dove il permafrost tocca il deserto, nel punto in cui gli Altai assomigliano alla schiena di un drago, nel luogo in cui i quattro punti cardinali si vedono tutti contemporaneamente, e fino a lì c’ero arrivato inseguendo una coscia di capra.

 

Biografia

Arjuna Cecchetti, archeologo preistorico, scrittore e poeta.
Ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Non Pensarci due Volte con DALIA; il romanzo è stato segnalato dal Comitato Lettori del Premio Italo Calvino 2020.
Abita in Appennino, ha vissuto e lavora in UK, Irlanda e Italia.
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