Virginia Woolf: “Un disegno dietro l’ovatta”

Virginia Woolf: “Un disegno dietro l’ovatta”

 

di Ivana Margarese

 

La prospettiva di un bambino è curiosa;

vede un palloncino o una conchiglia con chiarezza estrema;

io li rivedo ancora, i palloncini, blu e viola, e le venature delle conchiglie;

ma questi frammenti galleggiano in immensi spazi vuoti.

 

Virginia  Woolf, Immagini del passato

 

 

 

Trovo che ricostruire una scena è il mio modo naturale di rendere evidente il passato. Affiora sempre qualche scena; ricomposta; rappresentativa. Questo mi riconferma un’idea istintiva – e irrazionale; non reggerebbe alle analisi – che noi siamo urne sigillate galleggianti su quella che per convenienza chiameremo la realtà; in certi momenti, senza alcun motivo, senza sforzo alcuno, si apre una fenditura nel sigillo; e la realtà ci invade; cioè una scena – e queste non sopravviverebbero intatte a così tanti rovinosi anni se non fossero fatte di una sostanza durevole; questa è la prova della loro “realtà”. È questa suscettibilità a accogliere scene l’origine del mio impulso a scrivere? Sono domande sulla realtà, sulle rappresentazioni e sul loro legame con lo scrivere per le quali non ho risposta; ne ho il tempo di formulare la domanda esattamente.

 

Negli scritti autobiografici, raccolti col titolo Moments of Being ( in italiano Momenti di essere, La Tartaruga edizioni, 1977), Virginia Woolf ricorda la sua vita.
In particolare i primi due testi, Reminiscenze, iniziato nel 1907, e Immagini del passato, scritto poco prima di suicidarsi, descrivono gli anni della sua infanzia e giovinezza e le figure per lei emotivamente significative. Virginia Woolf cerca di mettere a fuoco l’immagine della madre Julia, morta quando lei era appena tredicenne, della sorellastra Stella, morta anche lei poco dopo la loro madre, della sorella Vanessa, di tre anni maggiore di lei, del padre Leslie Stephen e di coloro che in piccola o larga parte avevano popolato quel tempo, ormai lontano.

Mettere insieme i frammenti per creare un disegno che possa restituire qualcuno è un lavoro complesso e pressoché impossibile ma è un lavoro che restituisce gioia perché permette di scoprire collegamenti precisi che conferiscono forma ai personaggi. La scrittura permette di comprendere anche quanto ci appare inafferrabile e indefinibile e si presenta, dunque, come organizzazione di significanti.

 

La vita di ciascuno è per la Woolf un mosaico di pezzi e nessun pezzo è realmente isolato. Solo attraverso il montaggio e la composizione è possibile avere accesso a momenti di rivelazione, a momenti di essere, racchiusi tuttavia in “momenti di non essere” assai più numerosi, in cui non si vive attentamente: si cammina, si vedono delle cose, si soddisfano i bisogni primari, si fanno conversazioni di circostanza.
Colpisce come la scrittrice stessa affiori, attraverso questa raccolta di riflessioni  e appunti, in un disegno quasi familiare al lettore: una figura non passiva, ma inquieta, curiosa, piena di interrogativi e malinconie, desiderosa di vita ma appartata, legata fortemente ai suoi affetti e ai riti di famiglia. Virginia Woolf si mostra al contempo scontrosa e fedele, originale ed educata al riserbo.
Queste note autobiografiche restituiscono in pieno anche la capacità espressiva e musicale dello stile. Immagini del passato, in particolare, raccoglie ricordi rievocati con straordinaria capacità sinestetica, in cui la visione è mescolata ai suoni:

E se fossi un pittore userei per queste prime impressioni il giallo pallido, l’argento, il verde […] Tutto sarebbe grande e indistinto; e ciò che si vede verrebbe nello stesso tempo udito; suoni uscirebbero dal petalo, dalla foglia: suoni indistinguibili dalle immagini. Di suoni ed immagini sembrano fatte in ugual misura queste prime impressioni.

Nella scrittura affiorano ricordi con particolari sopiti quasi “che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente” e la scrittrice altro non sia che il recipiente dove confluiscono sensazioni, apparentemente dimenticate.  Forse, ipotizza Woolf, è proprio questa capacità di ricevere scosse seguita dal desiderio di spiegarle a parole a renderla una scrittrice:

Lo sento, il colpo, ma non è più, come credevo da bambina, un colpo sferrato da un nemico nascosto dietro l’ovatta della vita quotidiana; è o diventerà la rivelazione di un altro ordine; è il segno di qualcosa di reale che si cela dietro le apparenze, e sono io che lo rendo reale esprimendolo in parole. Solo con l’esprimerlo in parole di conferisco unità; e questa unità significa che ha perduto il potere di farmi del male; mi dà una grande gioia, forse perché così facendo tengo lontano il dolore, rimettere insieme i frammenti. Questo è forse il piacere più intenso che io conosca.

Il filosofo Giambattista Vico insegna che i bambini apprendono le parole di pari passo al procedere della fantasia: l’immaginazione non è una produzione soggettiva, ma è piuttosto un filo che connette gli uomini, una memoria che ci collega al passato e al nostro essere con gli altri:

Ma non esiste nessuno Shakespeare, non esiste nessun Beethoven; sicuramente e decisamente non esiste nessun Dio; noi siamo le parole; noi siamo la musica; noi siamo la realtà. L’universo, tutto questo, quando subisco una scossa […]Perché la nostra vita non si esaurisce nel corpo e in ciò che diciamo e facciamo; in ogni momento la nostra vita si rapporta certe unità di misura nello sfondo, certi concetti. Il mio è che esiste un disegno dietro l’ovatta.

Le figure femminili, prima tra tutte la madre, campeggiano sulla scena con le loro doti, con il loro creare movimento e vita. La madre Julia è una delle sette sorelle Pattle, famose per la loro bellezza. Tra loro l’ultima Julia, sposata Cameron, diventerà una celebre fotografa. Ecco che la scrittrice descrive la madre come una donna di riconosciuta e conclamata bellezza, capace di spendersi fino alla fine per il bene degli altri, ironica e diretta, ma al contempo distante e misteriosa. La Woolf racconta di non essersi quasi mai ritrovata da sola con lei, sempre circondata dai tanti figli e dal padre. Inoltre la donna aveva una chiara preferenza per Gerald, il primo dei tre figli avuti dal primo marito, e per Adrian, il più piccolo dei figli avuti dal secondo matrimonio. Trattava invece Stella, l’unica figlia femmina avuta nel primo matrimonio, con una durezza incomprensibile persino allo stesso patrigno. A chi glielo faceva notare rispondeva che Stella era una parte di lei.

Il padre Sir Leslie Stephen era uno dei più grandi saggisti e storiografi della Londra vittoriana, intellettuale burbero, a cui andavano tutte le cure e le attenzioni. Padre, a cui, pur non occupandosi della vita della famiglia, spettava il posto d’onore ( “Non puoi fare tutto quello che fa il Babbo” ribatteva lei, comunicandomi l’idea che mio padre ne avesse licenza, perché in qualche modo non era vincolato dalle medesime leggi della gente comune); e che nonostante fosse quindici anni  più grande della madre, sopravvisse a lei e alla figlia di lei sostituendo lo spazio allegro e vitale creato dalle due donne con una dimensione più formale, in cui le figure femminili venivano mortificate e considerate rassicurante pubblico per i palcoscenici maschili. Scrive la Woolf a proposito dell’amato-odiato padre:

Aveva sempre bisogno di una donna che gli facesse pubblico; che offrisse comprensione; consolazione (“È uno di quegli uomini che non possono vivere senza di noi” mi sussurrò un giorno zia Mary. “È una bella cosa per noi che sia così”. Scendendo le scale al braccio della zia presi nota della sua osservazione riservandomi di analizzarla in seguito.) E perché aveva bisogno delle donne? Perché era conscio del proprio fallimento come filosofo. Quel fallimento lo rodeva. Ma i suoi valori, l’atteggiamento da lui adottato nei rapporti pubblici, lo costringevano a nascondere il bisogno che aveva di essere elogiato.

Le figure femminili della vita di Virginia vengono da lei descritte come dotate di semplicità e franchezza, qualità che vengono messe ancora più in risalto dai comportamenti egoisti e vanagloriosi  del padre e del fratello George. Virginia e sua sorella Vanessa peraltro furono educate in casa, a differenza dei fratelli a cui fu permesso di frequentare l’università di Cambridge.

 

In questi testi ci sono anche espliciti riferimenti alla vergogna o alla paura del corpo, e alla vanità. A soli sei anni a Virginia viene la mania di guardarsi in un piccolo specchio sull’atrio. Ma a questo desiderio, messo in atto solamente quando era sicura di essere sola, faceva eco un sentimento di colpa. Come era possibile che lei che giocava a cricket, scalava gli scogli, si arrampicava sugli alberi e non dava alcuna importanza ai vestiti, fosse colta da questa voglia di specchiarsi?

Nelle pagine autobiografiche su trova un ambiguo episodio messo in atto dal fratellastro, in cui la Woolf parla, spostando l’attenzione dal gesto del ragazzo al suo vissuto, anche di un senso istintivo di vergogna legato al proprio corpo femminile:

C’era una mensola di pietra fuori dalla porta della sala da pranzo, per metterci i piatti. Una volta quando ero molto piccola Gerald Duckworth mi sollevò e mi ci mise a sedere, incominciò a esplorare il mio corpo. Ricordo ancora la sensazione della sua mano che scivolava sotto i vestiti; che scendeva sicura e inesorabile sempre più giù. Ricordo con quanto fervore pregavo dentro di me che la smettesse; come mi irrigidii e cercai di spostarmi mentre la sua mano si avvicinava le mie parti intime. Ma lui non smetteva. La sua mano esplorò anche le mie parti intime. Ricordo l’offesa il fastidio – quale parola può rendere un sentimento così in articolato e ambiguo?  Deve essere stato intenso se ancora lo ricordo. Questo sembra dimostrare che i nostri sentimenti su certe parti del corpo; come non vadano toccate; come sia male lasciarsele toccare; devono essere istintivi. Dimostra che Virginia Stephen non è nata il 25 gennaio del 1882, è nata migliaia di anni fa, e ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con istinti già acquisiti da migliaia di antenati nel passato.

Un esplicito riferimento al corpo, come ragione di vanità e vergogna, si trova anche in un altro scritto raccolto in Momenti di essere, del 1936/37, dal titolo “Sono una snob?”:

Detesto vestire male; ma detesto comprare vestiti. In particolare detesto comperare il reggicalze. Deve essere perché, se si vuole acquistare un reggicalze, più privato nel cuore stesso del negozio; bisogna starsene lì in sottoveste. Donne lucide di raso nero ti spiano ridendo sotto i baffi. Qualunque cosa riveli questa confessione, temo sia qualcosa di disonorevole, ma il fatto che mi vergogno a farmi vedere dal mio sesso, se mi trovo in sottoveste.

Anche queste parole mostrano come, sin da piccola, a causa dell’educazione ricevuta dalla famiglia all’interno della casa, avesse interiorizzato un sostanziale rifiuto del suo essere donna. Cosa che appare esplicitamente in Una stanza tutta per sé, scritta in occasione di due conferenze organizzate a Cambridge, nei collegi femminili di Newnham e Girton, incentrate sul rapporto delle donne con la scrittura. Al centro della sua riflessione, la scrittrice individuava due motivi principali che spiegavano l’assenza delle donne dal mondo letterario: la dipendenza economica dai mariti e l’impossibilità di condurre una vita autonoma, essendo sempre impegnate esclusivamente in ambito domestico. L’esiguità della tradizione femminile produce un circolo vizioso: le donne che desiderano diventare scrittrici non trovano nella tradizione maschile dei punti di riferimento utili per loro. Tuttavia, attraverso gli appunti personali della Woolf, si rivela con chiarezza come al di là della condizione economica e sociale si sia verificato un lento introiettare da parte delle donne di una dicotomia tra le proprie ambizioni espressive e intellettuali e il corpo, diviso tra vanità e vergogna. Nel descrivere Ashton Dilke, loro vicina di casa a Hyde Park Gate, è impegnata nella lotta per i diritti delle donne, Virginia Woolf scrive:

C’era un’ombra sulla signora Biddulph Martin, attinente forse ai diritti delle donne. Implicata per certo nei diritti delle donne era la signora Ashton Dilke, la vicina della casa accanto. Un uomo anzi le scagliò una pietra durante un comizio; e mia madre, che aveva sottoscritto una petizione antisuffragio, convinta che le donne avessero abbastanza da fare in casa loro senza pensare al voto, si informò gentilmente sul suo stato tramite noi, presso la governante dei Dilke. Ma la signora Dilke, a parte la sua eccentricità, era il fior fiore dell’eleganza; una donna molto carina e così ben vestita che noi notavamo ogni suo abito nuovo e dicevamo “La signora Dilke ha molte più cose nuove di te“ alla mamma, che non comprava mai vestiti nuovi e indossava sempre, mi pare, un semplicissimo abito nero cucito da qualche sartina.

E ancora nello scritto “Sono una snob?” Virginia Woolf definisce snob il desiderio di far colpo sugli altri, il rassicurarsi da parte di chi non è convinto che è anche lui una persona importante, e indica se stessa come “non soltanto una snob da blasoni; ma anche una snob da salotti pieni di luci; una snob da festini del bel mondo”.

Immaginare la Woolf rapita da salotti pieni di luci mette in risalto un lato umano e festosamente infantile della scrittrice e la sua perenne ricerca, al di là di ogni posa, dell’autenticità rispetto a se stessa. Il corpo, che le suscita sentimenti discordanti, è mezzo di autentica comunicazione, è possibilità di contatto in cui finalmente lasciarsi andare:

«Le poggiai la mano nuda sulla sua mano nuda, pensando: “Questo è autentico. Non ci si può sbagliare».

La nostra vera personalità, per Virginia Woolf, oscilla tra ricerca intellettuale e istinti e “non è né questa né quella, né qui né là, ma qualcosa di così vario e vagabondo che soltanto quando diamo libero sfogo ai suoi desideri e le permettiamo di fare ciò che vuole senza alcun freno” ci lascia essere finalmente noi stessi.

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