Il respiro è scultura. L’arte di Giuseppe Penone

 

Il respiro è scultura. L’arte di Giuseppe Penone

a cura di Ivana Margarese

 

La volontà di un rapporto paritario tra la mia persona e le cose

è l’origine del mio lavoro

Giuseppe Penone

 

 

 

” Quando sono entrato all’Accademia non avevo una formazione artistica. Solo la convinzione di non dover imitare gli altri, ma fare qualcosa di personale. Così presi ad attingere da ciò che conoscevo meglio: la natura”.

 

Questa dichiarazione, rilasciata nel corso di una intervista, può ben introdurre al percorso dello scultore e artista concettuale italiano Giuseppe Penone. La scoperta del paesaggio corrisponde alla scoperta di sé, del proprio corpo e respiro. La scultura è un adattarsi della mano alle forme delle cose e in fondo un accostarsi a quell’idea di orma che si ripete sin da milioni di anni, sin dai graffiti rupestri.

Il luogo di origine dell’artista, Garessio, un piccolo paese in provincia di Cuneo, è stato di ispirazione al suo lavoro artistico attraverso  gli elementi che gli appartenevano e che gli hanno permesso di ritornare a un concetto essenziale dell’arte della scultura. Una essenzialità che ritroviamo anche nelle parole dell’artista e che ci lascia accedere a un diverso punto di vista, facendoci entrare, tramite la scultura, nell’enigmatica organizzazione del mondo.
Giuseppe Penone è noto come uno dei fondatori del movimento dell’arte povera. La sua opera, che  vive già da alcuni anni un momento di grande riconoscimento, è incentrata sulla natura e i suoi processi di trasformazione. Le piante offrono una koinè di indagine sul rapporto ambivalente tra interno-esterno, fluido- solido, umano-vegetale, arte-natura. Tra le tecniche utilizzate dall’artista vi sono il calco e l’impronta: processi che implicano il contatto e la traccia, la memoria.
Dal 1968 ha presentato azioni, documentate fotograficamente, che intendono visualizzare e modificare i processi di crescita naturali (Alpi marittime, 1968; ciclo degli Alberi, dal 1969; serie dei Gesti vegetali, dal 1984). In queste opere i tronchi degli alberi vengono deformati da fili di rame, pietre e calchi in bronzo della mano dell’artista e i calchi del viso, delle mani e dei piedi di Penone sono stati immersi nel letto di un ruscello. Penone nel suo lavoro raccoglie delle annotazioni che gli offrono la possibilità di un ripensamento, di un ritorno. Sono riflessioni sul lavoro, che spesso vengono fatte prima di realizzare l’opera per aiutarlo a chiarire tutte le componenti e per raggiungere una forma più sintetica. Un suo testo del 1968  racconta l’esperienza con queste parole:

Sento il respiro della foresta.
Odo la crescita lenta ed inesorabile del legno.
Modello il mio respiro sul respiro del vegetale.
Avverto lo scorrere dell’albero attorno alla mia mano appoggiata al suo tronco.
Il mutato rapporto di tempo rende fluido il solido e solido il fluido. La mano affonda nel tronco dell’albero.

 

La percezione del tempo e del reale è attenta all’ascolto e alla semplicità dell’espressione, al di là delle codificazioni. Un gesto primitivo dello scolpire. Ognuno di noi ha stretto in mano, dice l’artista, un pugno di terra e così ha lasciato l’impronta della sua mano e ha fatto un gesto di scultura. C ‘è una modifica di un materiale creata dalla mano dell’uomo, in cui questo è il negativo della forma della mano. Un’opera  che narra di ancestrali “lotte” dell’uomo contro il tempo e contro la “durata”:

 

“La concezione del tempo che ha una farfalla, un fiore, un albero, un animale un uomo, una pietra, una montagna, un fiume, un mare, un continente, un atomo, produce la varietà infinita del pensiero e delle forme dell’universo”. (1972)

 

L’albero costruisce la sua forma in funzione delle luce, della gravità e di ciò che lo circonda. Ricorda all’interno della sua struttura tutti i gesti che ha compiuto. Conserva una memoria a noi invisibile della forma e questo lo rende estremamente vicino all’idea della scultura e dello scultore. Al contatto della mano Penone sostituisce l’azione di un calco in bronzo della sua mano così l’albero continuerà a crescere tranne che in quel punto. Il tempo si introduce pertanto nella scultura stessa che nasce dall’incontro e dall’azione del simulacro corpo  con l’albero. Vista da di fuori può parere un’effrazione, un’imposizione bronzea. Ma l’albero no, avvolge, ingloba, metabolizza. Anche quel gesto diventa natura.

 

L’artista viene considerato come colui che rimanda le immagini del mondo alla collettività ed è sulla base di questa considerazione che nel 1970 Penone realizza i lavori di Rovesciare i propri occhi, in cui indossa lenti a contatto specchianti su misura e si fa fotografare. Le lenti infatti privano l’artista del proprio sguardo e al contempo gli consentono di riflettere ciò che lo circonda:

 

L’idea era quella di interrompere lo sguardo e di rimandare le cose che avrei voluto vedere. Era la proiezione della mia vista. L’occhio raccoglie delle immagini. A occhi aperti il nostro cervello è pieno dello spazio che vediamo. Chiudendo gli occhi l’identità del corpo diventa comprensibile, c’è un volume preciso. Chiudevo gli occhi allo sguardo ma nello stesso tempo proiettavo all’esterno le immagini che avrei dovuto ricevere. Dalle immagini che un artista riceve a occhi aperti nasce il lavoro. In questo modo era come rimandare immediatamente il lavoro all’esterno.

 

La riflessione sulla cecità e sull’ invisibile che si accompagna da sempre alle arti visuali mette in guardia  dalla natura della vista come senso ingannevole. Si guarda con gli occhi ma per avere adeguata percezione di un ambiente dobbiamo percorrerlo col corpo. Ci che si vede non sempre corrisponde al vero ed è l’azione aptica che ci lascia ridefinire la realtà e il nostro spazio:

 

«Toccando si conoscono i volumi, lo spazio, le forme. Il tatto è uno strumento di verifica della realtà più preciso della vista, perché il vedere si basa su una convenzione. Quando consideri uno spazio, puoi misurarlo con lo sguardo, ma finisci comunque con il verificarlo col corpo».

 

 

Significativi sono anche i lavori sulle impronte delle palpebre: gigantografie atte a rivelarne le mappe, le analogie con i paesaggi che quelle palpebre, sollevandosi come tende sulla realtà esterna, rivelano. Con lo sguardo l’uomo tocca il mondo e lo fa attraverso la pelle: pelle come membrana, difesa, limite. Ma anche come con-tatto, dunque il nostro strumento di dialogo con l’altro da noi. In questa macrocategoria si inseriscono tutte le opere che comprendono i calchi e soprattutto le impronte. Impronte che l’artista lascia sulle pietre, sulle foglie, soprattutto nella serie di lavori dal titolo “Svolgere la propria pelle”(1970).

 

L’importanza di una stanza tutta per sé non è tanto nel guardare, ma nell’abitare e nel condividere con ciò che si incontra e si sceglie lo spazio in cui ci muoviamo.
Mentre noi parliamo, respiriamo, emettiamo nello spazio attorno di noi un volume d’aria che si può considerare scultura perché è un volume che è alterato rispetto all’aria che ci circonda. Questa è un’idea di scultura non colta:

 

«Il pieno, presupposto per l’indagine sui vuoti, è lo scultore che con il suo strumento e con le sue mani esercita la pressione che produce i volumi. Respirare è scultura come un’impronta digitale è un’immagine pittorica»

 

A partire dal 1978, Penone si dedica alla realizzazione di una serie di opere sviluppate intorno al tema del respiro. Alla base di questo suo percorso, egli riprende dalla mitologia il concetto del soffio come atto di creazione dell’uomo e trova un modo per restituirlo al suo aspetto più materico. In Soffio di creta (1978), il primo di questo ciclo di lavori, il respiro – concepito come volume d’aria, immateriale – entra nella terracotta attraverso la mediazione del corpo dell’autore, prende consistenza fisica e la plasma, trasformandola nella più materiale delle cose: la scultura. L’anno seguente egli realizza Soffio di foglie. Questa volta la materia in cui il peso del corpo dell’artista imprime la propria traccia è un mucchio di foglie secche. Come per Soffio di creta, il pieno del corpo si fa vuoto sulle foglie. Per Penone si tratta di istituire un contatto tra il suo corpo e la materia naturale.

Nel 1999 Penone realizza Respirare l’ombra che, pur essendo cronologicamente lontano dalle altre due opere, si presenta come una visione profondamente complementare alla riflessione iniziata alla fine degli anni ‘70. Questa volta è ciò che è al di fuori del nostro corpo a dover essere introdotto in noi, sempre attraverso il respiro, o meglio attraverso gli odori. Respirare l’ombra è un’installazione costituita da una serie di pareti rivestite di foglie di alloro, su una delle quali è posizionata la riproduzione di un polmone in bronzo dorato. La percezione dell’odore di alloro consente allo spettatore di definire lo spazio in cui si trova, perché – come scrive lo stesso Penone – «la dimensione di un’opera d’arte sarà sempre a misura dei sensi. Un’opera d’arte si basa sui sensi e sulla logica che da essi ne deriva». Egli cancella così la superiorità della vista, da sempre senso privilegiato della conoscenza, per favorire un utilizzo paritario di tutti e cinque i sensi, che restituiscono l’uomo alla natura a cui appartiene.

 

In Anatomia 6 (1994-2000) nelle vene ricavate nel marmo l’artista incanala dell’acqua.  Anche il bronzo è materia vivente: si ossida e diviene verde, avvicinandosi al mondo vegetale. E proprio l’antica tecnica di fusione del bronzo prevede l’uso di di cannule e condotti, di calchi e di impronte, di caldo e di freddo.

“Le vene d’acqua che sgorgano dal terreno scorrono in rivoli che confluiscono, come i rami nel tronco nella matrice di un albero” (2000).

Le opere di Penone riflettono sull’origine fluida di tutta l’esistenza. In una delle sue annotazioni scrive “sulla punta delle dita il disegno del suono”, restituendo alla perfezione ciò che trasmette l’ascolto dei suoi lavori, capaci di oltrepassare la dimensione della forma visibile per orientare verso una percezione attenta delle tracce che ogni cosa conserva. La memoria fossile di ogni realtà, che seppure separata, respira dello stesso passaggio. Sembra un omaggio all’antico frammento di Anassimandro:

“Principio delle cose che sono è l’illimitato… donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.

Giuseppe Penone nel suo atelier di Torino

 

 

 

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