La ragazza innominabile

La ragazza innominabile

racconto inedito di Tiziana Menegazzo

immagine in evidenza di Stefania Onidi

Mi chiamano Kore,
ma non è un vero nome, significa ragazza, ragazza e basta
sono la ragazza, la figlia della dea bionda dai capelli di grano che tutto fa
crescere e da cui tutto dipende
sono la figlia
non sono niente
vivo nel suo pensiero nel suo essermi madre;
mi piacciono i fiori, questo lo so;
mi piace giocare con le altre, anche questo lo so;
mi piace sentirmi addosso il vento che sa di sale;
mi piace respirare le viole che colorano di un profumo così intenso il prato
laggiù da stordire anche i cani che vagano disorientati e felici, ormai inutili per
i cacciatori;
loro, le altre con cui raccolgo i fiori per fare ghirlande, loro un nome ce l’hanno;
si chiamano ridendo mentre corrono felici verso il mare là in fondo; loro non si
perdono perché il nome che può essere detto le salva;
tutto intorno il grano biondo, un immenso abbraccio senza fine della madre
onnipresente che tutto nutre e tutto fa crescere
lasciami respirare ti prego
lasciami avere un nome
lasciami uscire da te
lasciami essere
ti prego
ti prego
lasciami essere chiamata
lasciami essere fuori da te;
lei mi guarda da lontano, sorridendo ;
è ovunque… a volte non capisco neanche se io esisto davvero o sono un sua
estensione;
delle volte di notte mi sembra di sognare… Busso a porte sconosciute, mi fanno
entrare, mi offrono l’acqua sacra per l’ospite e del cibo, ma al momento di
presentarmi tutto crolla rovinosamente
korekorekore…. Kore, la ragazza innominabile
che vita posso avere senza un nome?
così pensavo fino al giorno in cui, durante il gioco con le altre, che non ha
inizio e non ha fine, ho visto sbocciare un fiore che non avevo mai visto:
talmente bello che mi si è annebbiata la vista;
poi di colpo tutto è diventato vorticoso, davanti a me non c’era più niente di
conosciuto, più niente a cui aggrapparmi, neanche il grano;
solo uno sguardo dove annegare, dove più annegavo e più mi ritrovavo
è stato un lampo o l’eternità, non so dirlo;
e alla fine di quello sguardo, che sembrava senza fine, alla fine, sprofondata in
un altrove di oscurità luminosa, dove l’orizzonte non aveva più bisogno di
dichiararsi, in uno spazio che esigeva l’esserci, alla fine avevo un nome:
Persefone.

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