Argolide

Argolide

 

racconto di Giulio Papadia

 

 

A quel tempo erano molte le cose che non avevano nome, e i popoli faticavano a intendersi fra loro. Alle periferie del mondo i meno civilizzati si esprimevano a gesti e versi: balbuzienti, li chiamavamo barbari per come erano immuni al fascino melico della lingua degli Achei. Gli idiomi stranieri si basavano su codici semplici e sillabazioni incomplete, mentre in terra ellenica non solo si parlava, ma si narrava, così che questa storia di bocca in bocca è giunta a me, che la racconto a voi.

Abante, figlio di Linceo e Ipermestra, re d’Argo, ebbe in dono dalla benevolenza degli dèi e dal grembo fruttifero della moglie Aglea due figli nati con parto gemellare. La notizia fu salutata con sommo gaudio dal monarca, che aveva offerto in sacrificio i suoi vitelli più pingui per ingraziarsi l’Olimpo. Era lieto di avere due eredi con lo stesso diritto a subentrargli: se i capricci delle Parche lo avessero privato di uno con un inverno rigido, una pestilenza o uno scontro in battaglia, il trono sarebbe stato occupato dall’altro. Tuttavia Abante, animato dal furore giovanile che gli agitava i lombi e invogliato dalla consorte, non escludeva di ampliare ancora la sua discendenza regale. Convocò il suo segretario, riunì i massimi dignitari di corte. Ebbro di soddisfazione com’era, si rivolse a tutti con parole colme d’esaltazione: Festeggiamo fino al prossimo plenilunio, si invitino ad Argo i sovrani degli stati a cui siamo affratellati, ma anche i nemici perché voglio cancellare ogni motivo di contrasto. Un’era di prosperità è all’orizzonte!

Non poteva immaginare, Abante, che la sua progenie era permeata dello stesso spirito fratricida degli avi Egitto e Danao, i re eponimi che si erano inseguiti litigandosi ogni cosa. La zuffa fra Acrisio e Preto – così ebbero nome i due figli d’Argo – aveva avuto origine già nel grembo materno che li teneva al riparo dalle dispute terrene. I feti battagliavano feralmente, con una decisione e una forza mai viste, e la madre non di rado avvertiva dolori lancinanti che lasciavano intendere l’acrimonia che c’era fra i due. Non appena nacquero la tenzone si fece via via più aspra, sebbene i genitori vi scorgessero solo i normali dissapori tra fratelli. Quando si trovavano vicini, uniti dalla crasi di un gioco animale, uno intimava Ti farò crepare, figlio d’un cane, l’altro replicava Bastardo impostore, quando ti sgozzerò affogherai nel tuo sangue.

Quando il re morì, credeva di trasmettere loro il regno di Argo solido e indiviso, capace contenitore di genti diverse. Si era persuaso che la diarchia fosse una forma di governo eccellente, giacché prevedeva la presenza di due teste pensanti in luogo di una sola. Poiché la politica e l’arte di amministrare non sono scienze esatte e governate dal semplice gioco aritmetico, una somma non dà per forza risultato positivo e l’Argolide sprofondò rapidamente in un vortice di contrasti. I due fratelli erano sangue pazzo e pronto a tutto. In seguito alla lotta aspra che divampò, tutto il regno si scisse in due schieramenti selvatici e fedeli al rispettivo capo. Entrambi avevano la stessa presa sulle genti, entrambi muovevano le folle in maniera trasversale, ma alla fine Acrisio ebbe la meglio sul pugnace gemello. Vattene, anima disgraziata! sbraitò al culmine della rabbia.

Preto vagò in mare per nove giorni e nove notti con un equipaggio instancabile, fendendo onde altissime e domando tempeste che Poseidone stesso sembrava aver disseminato come trappole mortali per metterlo alla prova. Alla fine del lungo peregrinare giunse in Licia, dove regnava Iobate, che lo accolse in ossequio al vincolo della Xenìa. Irretito dal fascino della principessa Antea, Preto la sposò e per un breve periodo pensò di spezzare ogni legame con la madrepatria. La bella Antea, però, era ambiziosa e puntava ad accrescere i suoi domini, così convinse il padre ad allestire una flotta imponente per far tornare Preto in Argolide, a rivendicare quello che suo padre gli aveva lasciato. Riti magici e offerte al dio del mare consentirono una navigazione tranquilla, l’intercessione dei sacerdoti di Iobate propiziò la conciliazione col re d’Argo. Quando i due consanguinei si rividero, quasi pervasi da un afflato divino, non si percepivano più come nemici, l’odio non dardeggiava più dai loro occhi. Dopo lunghe discussioni e qualche ammissione di colpa, i due re misero per iscritto un patto di suddivisione che avrebbe consentito una convivenza armoniosa e ormai insperata: Argo restò nelle mani del sovrano che aveva cacciato il fratello, Preto fu ricompensato con il regno di Tirinto.

Acrisio nel frattempo aveva sposato Euridice, figlia di Lacedemone, e stava dando inizio a una sua genìa nobilissima. Aveva avuto una sola figlia, ma splendida. Danae si chiamava, e nel suo nome riecheggiava quello dell’avo che aveva dato inizio alla stirpe d’Argolide. Quel nome, per lo strano potere che le parole hanno, rimandava alle sventure che erano iniziate col loro capostipite: un oracolo aveva vaticinato che la figlia avrebbe generato un maschio, il quale una volta adulto si sarebbe macchiato dell’uccisione di Acrisio. Per tutta risposta il re fece costruire una camera sotterranea con le pareti in bronzo, incastonata in un’alta torre d’ottone, le finestre sbarrate, e lì segregò la sua adorata Danae. Fu per lui un autentico strazio, ma così era certo che nessuno l’avrebbe vista, nessuno l’avrebbe oltraggiata. Nondimeno ciò incuriosì Zeus, che non soffoca mai gli istinti quando scorge fanciulle giovani e procaci. Poiché non poteva giacere con la prigioniera, il dio dei fulmine celò le sue sembianze divine dietro una densa e magnifica pioggia d’oro, e penetrò fin nell’intimità inviolata di Danae. Quando Acrisio venne a sapere che la figlia era gravida d’un maschio di possibile ascendenza divina, attese che il nipote nascesse e poi non esitò a mettere Danae e il piccolo Perseo in una cassa che abbandonò in balìa del mare. La principessa, apostrofata come laida e sgualdrina dal suo stesso genitore, venne però trovata da Ditti sulla spiaggia di Serifo. Ancora una volta fu il sacro vincolo dell’ospitalità a salvare chi veniva scacciato dal re d’Argo.

L’infante crebbe lontano, attorniato dalle attenzioni che merita un giovane semidio in terra straniera, ma chiedendosi il perché di quel trattamento privilegiato. Quando la madre gli raccontò delle sue origini e della profezia che lo legava alla morte di Acrisio, si mostrò spocchioso e irrispettoso verso l’arte della divinazione, bestemmiò contro il destino e ostentò la sua bris. Desiderava ardentemente ricongiungersi col nonno, quasi che un robusto filo invisibile li legasse a distanza, ma Acrisio fu avvertito del pericolo incombente dal fido indovino e fuggì a Larissa, in Tessaglia. Qui il re Teutamide aveva organizzato dei giochi funebri in onore di suo padre, e la Tyche volle che gli incastri astrali vi facessero giungere proprio Perseo, il fisico affusolato e i muscoli definiti dalle attività ginniche e dal remare costante, desideroso di provarsi nelle imprese che tutti si aspettavano da lui. Non lo sapeva, il ragazzo, che nel pubblico sedeva proprio suo nonno, e non sapeva Acrisio che si trovava vicinissimo al suo assassino. Al momento del lancio del disco, un vento atroce e ultraterreno si levò, così che il vecchio re fu colpito in testa.

Acrisio moriva quindi per mano di Perseo, e così si compiva la profezia. Inutile era stato essere abbandonato in mare, destinato a morte certa, e inutile era stato tentare di fuggire. Dannoso invece era stato l’aver saputo della profezia, perché inconsciamente, inseguendo un destino da eroe e atleta, Perseo l’aveva portata a compimento. Maledisse sé stesso, la sua forza divina, le origini opache, la sua lingua lunga e lo scarso rispetto verso gli oracoli.

Poco lontano c’era uno specchio d’acqua stagnante, e riflettendovi la sua immagine ebbe l’impressione di conoscere tutto del suo avvenire, di avere in mano il fluire degli eventi futuri. In quel preciso istante realizzò che per riscattare l’osceno omicidio e ottenere la redenzione gli era necessaria una lista di imprese degna di Eracle. Fissò lo stagno e vide Medusa, e Andromeda, e la città di Micene che avrebbe fondato. Si mise i calzari e partì, consapevole che il suo destino era già stato stabilito.

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