Le attrici hanno la data di scadenza

Le attrici hanno la data di scadenza

Conversazione con Emanuele Bilotta

Immagini di Leonor Fini

 

 a cura di Ivana Margarese

 

Le attrici hanno la data di scadenza di Emanuele Bilotta racconta la storia di Rita, una ragazza di trent’anni che sogna di fare l’attrice. Lo spettacolo mette in scena il conflitto interiore della protagonista, sospesa tra desiderio e realtà. Rita fa i conti con se stessa, sente di essere a un bivio tra l’essere “una che vive di sogni e non sa trovare la strada” e il diventare “una donna che ama il suo lavoro al punto da dire di non avere mai lavorato un giorno nella vita”. L’ironico titolo Le attrici hanno la data di scadenza svela la possibile minaccia di una realtà amare e riflette sulle ansie e le paure che assalgono quando, con il passare del tempo, le  aspettative e il mondo esterno iniziano a guardarci con la lente d’ingrandimento chiedendo il conto. Un teatro interno in cui le pulsioni vengono sgridate  dalla voce della coscienza e dai sensi di colpa. Un’indagine su autenticità e rappresentazione di sé in un coro di voci discordanti che solo se coraggiosamente affrontate possono condurre a espressione creativa.

Le attrici hanno la data di scadenza è l’ironico e provocatorio titolo del tuo spettacolo. Come nasce questo titolo?

Nasce una sera del 2017, dopo che ho assistito ad uno spettacolo di dubbio gusto, pregno di errori tecnici, ma interpretato da un’attrice che reputo bravissima. Vederla costretta in quella situazione è stato l’input che mi ha spinto, tornato a casa, la notte stessa, alla prima stesura di questo monologo e all’idea del titolo.

Rita, la protagonista, ha trent’anni e sogna di fare l’attrice ma al contempo teme che questo suo sogno possa rilevarsi solamente un’illusione a cui ben presto dovrà rinunciare. Sospesa tra desiderio e realtà, Rita racconta bene la situazione che si vive a trent’anni in una società che se da un lato spinge a puntare sulle tue ambizioni, a realizzare te stesso, a essere un individuo capace di performance eccezionali, dall’altro disperde l’individuo e la sua espressione più autentica nella molteplicità delle sue prestazioni. Quali sono le tue esperienze in merito?

Ho scelto di non vivere solo di arte per evitare di svendere l’arte alle dinamiche a cui il capitalismo obbliga. Non credo che la società spinga a puntare sulle ambizioni, piuttosto è una piazza pubblica in cui o si sceglie di vivere in disparte dai giochi o si devono affilare le proprie armi e combattere. Io, personalmente, forse perché sono sempre stato un po’ pigro, ho optato per la prima scelta. Faccio le mie cose con l’unica ambizione di dar voce alle mie emozioni per chi vuole fare capolino nel mio mondo ed ascoltarle. Non credo comunque che arte e capitalismo possano convivere.

Lo spettacolo è un’indagine sulle ansie e le paure che ci assalgono quando, con il passare del tempo, le nostre aspettative e quelle del mondo esterno iniziano a guardarci con la lente d’ingrandimento e a chiedere il conto. Mi piacerebbe approfondire con te questo tema.

Le nostre aspettative sono un problema che va affrontato. Possiamo avere delle passioni, dei fattori che toccano più o meno le nostre corde, ma renderli aspettative significa metterle davanti a una possibilità quasi sicura di insoddisfazione. Credo che i percorsi che intraprendiamo li possiamo gestire solo alla partenza, dopo percorrono strade che li fanno incrociare con elementi esterni da noi ed è da lì che nascono le possibilità. Costruirsi un’aspettativa prima significa precludersi altre sfumature dello stesso disegno che sono invece destinate a noi. Come dice il mio maestro Paolo Perelli “un passo dopo l’altro e poi dritto, fino alla fine”.

Vorrei farti una domanda sul teatro, che è già di per sé uno spazio per l’immaginario e il pensiero. Da cosa è nata questa tua passione? Hai alcuni autori che ti sono stati di ispirazione per il tuo lavoro?

Sicuramente amo il teatro del ‘900, gli esperimenti e le mutazioni che ha subito da Stanislavskij a oggi. Mi ispiro molto al lavoro di Sarah Kane e alla drammaturgia inglese di quel periodo e ho come punti di ispirazione inarrivabili Carmelo Bene e Antonine Artaud. Amo il teatro da quando sono bambino e sogno da sempre di vivere questo mondo. Una volta, quando avevo circa 10 anni, ho incontrato Massimo D’Apporto sul set di una fiction che stava girando e gli dico “Massimo, anche io da grande voglio fare l’attore”, lui mi guarda e mi dice “Hai più la faccia da regista”. Ecco, questa cosa mi ha segnato decisamente.

 Quali sono i tuoi prossimi progetti?

A febbraio e a marzo sarò impegnato a Catartica, il teatro che gestisco a Dragoncello, con la messa in scena di due spettacoli “American Slave”, frutto di un lavoro svolto sui testi di Eric Bogosian e “Aspettando verità” una versione tutta al femminile di Aspettando Godot, dove vengono affrontate le storie delle stragi ancora irrisolte in Italia. Ad aprile debutterò invece al teatro Stanze Segrete con uno spettacolo su Fernando Pessoa, dal titolo “Fernando e la puttana” e a maggio sarò di nuovo al teatro Trastevere con uno spettacolo dal titolo “Falliti!”.

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