Bonjour Casimiro

 

Bonjour Casimiro

Conversazione con Alberto Samonà

a cura di Ivana Margarese

 

 

Se una volta a Villa Piccolo
ti dovessi imbattere in un folletto
o in una creatura che non conosci,
non avere paura: è solo uno dei suoi abitanti che viene a darti il benvenuto

 

La rivista Morel voci dall’isola continua la sua indagine su Casimiro Piccolo di Calanovella, iniziata con la conversazione sul percorso giovanile dell’artista siciliano con Giuliana Ferrara Sardo, attraverso il dialogo su un libro a lui dedicato dal titolo Bonjour Casimiro di Alberto Samonà, edito da Rubettino. Il romanzo si concentra sulla figura di Casimiro, acquerellista e fotografo, e lo racconta anche attraverso la relazione con il luogo da lui scelto per vivere con la famiglia – la madre Teresa e i fratelli Giovanna e Lucio – a partire dal 1932. Villa Piccolo è un luogo affascinante e misterioso, capace di raccontare storie e ampliare la nostra possibilità di percezione. Un viaggio nella memoria dei protagonisti, la cui vita solitaria è esempio di ricchezza di sensibilità e pensiero. La vita dei Piccolo si intreccia anche con quella del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa e con la sua sorprendente parabola letteraria. Lo scrittore ritrae le relazioni di questa singolare famiglia restituendoci al contempo una visione della storia siciliana, delle sue peculiarità e della ricchezza che la caratterizza.

Casimiro, con il suo essere un artista minore, lontano dalle scene e dai riflettori dei salotti, e con la sua pervicace e originale ricerca è una figura assai rappresentativa per la nostra rivista che intende muovere dal piccolo e marginale per creare correnti nuove.

Bonjour Casimiro è il risultato di un percorso di studi e ricerche che da molti anni ti ha portato a frequentare Villa Piccolo e la Fondazione creata da Casimiro e Giovanna a Capo d’Orlando, poco prima della loro morte. Puoi parlarci di questo tuo percorso?

Ho trascorso circa un decennio in questo luogo e ciò mi ha portato a sentire come in determinate condizioni possa avvenire ciò che in circostanze abituali non è lontanamente pensabile. La ricerca di cui parli non è avvenuta tanto sui libri, quanto proprio nella realtà di un luogo che è stato pensato in un certo modo dai Piccolo di Calanovella, a contatto con una dimensione che porta con sé un’influenza molto particolare. Questo particolare, unito ai miei approfondimenti sui temi del Sacro, soprattutto con riferimento alle sue manifestazioni nel mondo naturale, arricchito dalle tesi di Mircea Eliade mi ha portato a questa visione, che quella villa incastonata fra il mare e i Nebrodi pare incarnare in maniera evidente.

Il tuo libro mi è parso essere anche un omaggio alla Sicilia, alla sua storia e peculiarità, sottolineata come è noto dai suoi celebri visitatori, come Johann Wolfgang Goethe o Alexis de Tocqueville. La Sicilia appare come un luogo paradisiaco, legato alla natura e ai suoi elementi, al mito e capace di conservare il privilegio di ricollegarci a un altro tempo, meno frettoloso e caotico, più lento, forse sospeso.

Proprio così. La Sicilia è un’Isola paradigmatica nella quale energie antiche possono ancora essere ricercate, soprattutto nei luoghi in cui, come dicevo prima, è forte la presenza della natura o di quelle pietre che parlano di una dimensione universale. L’archeologia e lo studio della storia antica in questo ci forniscono elementi preziosi.
Il Mito, poi, ci richiama alla possibilità di ricollegarci a una prospettiva archetipica che ancora oggi è, a mio parere, assolutamente attuale, direi contemporanea, in quanto non figlia dei tempi mutevoli, ma di un tempo altro, che è circolare piuttosto che lineare: un tempo e uno spazio che vanno oltre il tempo e lo spazio stessi.

Tra le tante figure presenti nell’immaginario dei visitatori di Villa Piccolo c’è quella del cugino dei Piccolo: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Chi visita la loro abitazione troverà una camera, quella destinata agli ospiti, dedicata allo scrittore e il frammento di una lettera da lui scritta poco prima di morire in cui auspicava di poter far ritorno a Capo d’Orlando. Desiderio che rimarrà inesaudito proprio a causa della morte. Che idea ti sei fatto tu di quest’uomo così singolare, il “Mostro”, come veniva affettuosamente chiamato dal cugino Lucio?

Di un mostro di cultura, come del resto lo era Lucio Piccolo. E allo stesso tempo, di un uomo che, al contrario dei suoi cugini, non era per nulla affascinato dall’universo esoterico. Eppure, con loro aveva un rapporto speciale, poiché erano parte della medesima famiglia e dunque, i suoi cugini lo ricollegavano a memorie felici, momenti di spensieratezza perduti. In quella lettera, infatti, risulta evidente una certa malinconia verso qualcosa che oramai appare sempre più lontano: Lampedusa la scrisse in un luogo estraneo rispetto alla sua Sicilia, mentre era ricoverato a Roma, un mese prima di morire: in quella pagina memorabile c’è come un sentimento di perdita perfettamente sovrapponibile a quello che nel Gattopardo si avverte nell’ultimo periodo di vita del Principe di Salina: lontano dai luoghi del proprio cuore, inesorabilmente consegnato a un destino altro da ciò che avrebbe desiderato per sé. I luoghi amati sempre più affidati al ricordo. Al passato che non tornerà. Inoltre, Tomasi – come del resto i Piccolo – era già per quegli anni uno scrittore inattuale, del tutto fuori tempo rispetto a un periodo storico in cui i modelli letterari che andavano prendendo piede erano ben altri. Non è un caso che da certuni Il Gattopardo venne ritenuto un romanzetto reazionario. Evidentemente non avevano compreso nulla: l’inattualità dello scrittore e di quel libro sono state, infatti, la vera arma vincente di un libro che si è rivelato un capolavoro e che, non a caso, si è conquistato un posto nel paradiso della letteratura mondiale. La sua inattualità, peraltro, non era soltanto storica o ideologica, ma legata al senso stesso della Sicilia che aveva Tomasi, alla sua peculiare diversità rispetto alle mode di quegli anni. Una Sicilia anelata quasi del tutto estranea all’attualità e al progresso, che richiamava tempi andati che però erano, forse, molto più veri della “realtà”. Ed evidentemente delle correnti neorealiste che in quegli anni prendevano piede. Diversità, peraltro, rafforzata ulteriormente dall’appartenenza aristocratica dello stesso Lampedusa.

Gli abitanti di Villa Piccolo hanno vissuto come oltrepassando la dicotomia fra vita e morte, fra al di qua e al di là. Tra i tanti segni di questo superamento c’era l’abitudine, tuttora conservata, di lasciare a tavola un posto apparecchiato per la baronessa Teresa, madre di Giovanna, Casimiro e Lucio, anche dopo la sua morte.

Sì, era questa una buona pratica che i Piccolo mantenevano e di cui ci riferisce Bent Parodi nel suo libro “Il principe mago”, nel quale descrive che un giorno, adolescente, andò per accomodarsi a tavola nel posto vuoto, ma venne categoricamente fermato da Casimiro che gli disse: “No, quello è il posto di mamàn”. Del resto, come scrivo in “Bonjour Casimiro”, vita e morte per i Piccolo non sono che dimensioni necessarie l’una all’altra, permeate l’una nell’altra, come una danza nella quale si alternano vicendevolmente, confondendosi e intrecciandosi: come il giorno si alterna alla notte e la luce al buio e all’ombra, che è tutt’altro che la fine di tutto, poiché in essa vivono molteplici vite notturne. Ecco che la vita e la morte semplicemente non esistono per come le conosciamo, poiché nella prima può essere presente (e anzi lo è) la morte e in questa vi è il senso stesso della trasformazione verso una nuova dimensione universale, una vita nuova che non è certo il “nulla” dei nichilisti.

Nel libro racconti di come Casimiro indossasse spesso un paio di guanti bianchi o altre volte spessi guanti da motociclista. È un elemento interessante per entrare nel mondo di Casimiro e comprenderlo meglio. Puoi dire qualcosa in merito?

Nel libro ho scritto che i guanti servivano “come a mantenere un solco tra se stesso, in uno con le leggi dell’assoluto che indagava, e il mondo del divenire”. I guanti di Casimiro Piccolo probabilmente erano il modo che egli escogitò per preservare le proprie mani di artista della materia (e dello spirito) dalle influenze più grossolane. Non toccando gli oggetti con le mani nude, queste si sarebbero mantenute pure, pulite. Candide. E sarebbero rimaste ricettacolo di arte e bellezza. In “Bonjour Casimiro”, inoltre, scrivo che i suoi guanti “erano anche un simbolo di quella distanza dal piano materiale che poteva essere comunque mantenuta pur vivendo in quella stessa dimensione”. Come a dire, riportando un vecchio detto tradizionale: “nel mondo ma non del mondo”.

“Ecco perché più che di cimitero dovrebbe, forse, parlarsi di dimora: una casa nuova per i cani e i gatti dei Piccolo, che ricorda a tutti quel vincolo inscindibile ed eterno tra la vita terrena, il piano della manifestazione e il mondo sottile, ovvero quell’universo da sempre indagato dai Piccolo di Calanovella. […] Ciascun cane e ciascun gatto vissuto a Villa Piccolo qui ha la propria sepoltura”.
Il cimitero dei cani ( e dei gatti) è all’interno di Villa Piccolo uno dei luoghi più celebri. Colpisce anche per l’estrema vicinanza alla sensibilità contemporanea e alla maggiore attenzione che si pone oggi al nostro legame con la natura e gli altri organismi viventi.

Colpisce sì, ma non dobbiamo credere alla prima impressione secondo cui il cimitero dei cani sia il frutto di una qualche compassione animalista. La sensibilità dei Piccolo, infatti, c’è eccome, ma è sempre legata al dominio dell’invisibile e infatti, il cimitero dei cani fu fatto costruire proprio per favorire la trasmigrazione verso altre dimensioni delle anime custodite nel corpo degli animali della villa. Ancora una volta, alla base di ciò vi è l’idea di un luogo di passaggio tra la dimensione fenomenica e il mondo sottile, quello dove risiedono le essenze più volatili e rarefatte.

Nel libro fai riferimento anche a Montalbano Elicona e all’Argimusco, un luogo ricco di storia e di incanto, che andrebbe maggiormente conosciuto e che è un esempio di come percezione reale e immaginaria si intreccino nelle nostre esperienze, nonostante lo sforzo di delimitare o definire in modo univoco ciò che conosciamo.
Uno dei personaggi del libro dice: “Non bisogna credere soltanto a ciò che si vede, amico mio, sappiate che la realtà è sotto ai nostri occhi, ma il più delle volte preferiamo non vedere, credendo di doverla conquistare con difficili prove”.

L’Argimusco è un altopiano di grande suggestione. La prima volta che lo visitai molti anni fa ne rimasi letteralmente incantato. Sentivo che la presenza umana e quella degli elementi naturali là si era perfettamente integrata. La mano dell’uomo, quella della terra e quella dei venti, in questo luogo parlano la stessa lingua, richiamando una dimensione di Assoluto. Qui il Sacro ha le sembianze della forza degli elementi che ne ricevono un soffio antico. Non bisogna credere soltanto a ciò che si vede e poi, spesso, ciò che si vede non è quel che sembra. Battiato stesso – che frequentò l’Argimusco – intitolò un suo bel film e un suo brano “Niente è come sembra”. E io sono molto d’accordo con questa impostazione.

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