Noi siamo il mare

Noi siamo il mare

racconto inedito di Noemi De Lisi

immagine in evidenza di Stefania Onidi

 

Scilla e Cariddi, prima di essere i terrificanti mostri abissali che spaventano i marinai dello Stretto, erano due ninfe. Sono state punite per la loro bellezza (Scilla) e per la fame (Cariddi), caratteri che ancora oggi, se appartenenti al genere femminile, vengono tradotti subito con accezioni negative. Troppa bellezza e voracità non possono essere conciliate con l’immaginario occidentale della donna-madre-angelo del focolare. Il testo racconta il loro incontro nelle grotte dello Stretto. Qui Scilla e Cariddi trovano conforto e forza l’un l’altra e decidono di fare della loro punizione una virtù, sprigionando il loro immenso potere nel mare.

Nuotavo per scappare, ma più mi allontanavo da Zancle e più i cani erano vicini, al mio fianco, abbaiavano. Mi aggrappai a uno scoglio, tossivo acqua. Le onde mi spingevano, nuda, contro il ruvido della pietra, e mi tiravano di nuovo giù dove c’erano i cani e la mia fuga. Graffiai lo scoglio, unghie scorticate, le affondai nelle tane dei granchi. Finalmente mi sollevai sul vertice della roccia e tornai donna. Sotto di me il mare di onde abbaiava. Davanti a me una grotta. Dal fondo di ombra salmastra veniva una voce. Era una lingua simile alla mia, ma non era la mia. Continuai ad arrampicarmi per il sentiero di scogli e caddi all’entrata della grotta.

«Chi c’è?»

Dal buio umido venne una ragazza. Gli occhi di lava, i capelli neri incrostati di alghe e salsedine, la pelle olivastra. Stringeva i denti mentre mi guardava, erano appuntiti. Mi rialzai, le ginocchia arrossate di sangue.

«Scilla.»

«E perché vieni nella mia casa?»

«Sono scappata, il mare mi ha trascinato.»

«Chi ti insegue?»

Idda si mette a chianciri, ma cosa c’ha fari io? È biunna, chiara, una straniera. Non ha niente ri spaittiri cu mia. ’A lingua però cia capisco, è come la mia, però ’unn è ’a mia. La fame mi mancia l’ùocchi. Non pozzu perdere altro tempo cà cu idda. M’hai a buttare a mare. Sulu ’u mare mi sazia.

Smetto di piangere. La ragazza fa avanti e indietro all’ingresso della grotta. Si gratta la testa, si preme la pancia con una mano, sputa per terra. Fa avanti e indietro e guarda il mare, strizza ancora i denti.

«Tu chi sei? Perché ti agiti?»

«Sono l’Affamata, Cariddi. Zeus mi ha punita per questo, adesso solo il mare può saziarmi.»

Mentre parlava si è morsa, un filo di sangue le cola dal labbro. Si mette a correre fra gli scogli. Mi alzo, faccio per seguirla ma si tuffa nelle onde prima che io possa raggiungerla.

Il mare, ’a fami rintra, il sangue. Io sugnu ’u mostro. Io sugnu vuriedda e fame.

Mi sporgo da uno scoglio, la chiamo. Cariddi è sparita nelle onde. La chiamo ancora, le dico: «Aiutami». Sotto lo scoglio, in lontananza, si apre un vortice di acqua nera nel punto dove lei ha bucato la superficie. È il mare che risucchia e vomita se stesso. Fra la spuma agitata dal vento, in fondo, i denti affilati di Cariddi moltiplicati. La bocca gigante morde il mare. Si inghiotte.

Sugnu un gigante, tuttu ’u mari rintra. Idda sopra ca mi talia, e io sotto, nuda, un mostro di vuriedda. Il mare mi sazia, io sugnu ’u mari.

Cariddi risale dalle onde e torna a essere di nuovo una donna, i capelli le grondano addosso, mi sorride, denti aguzzi. Lo stesso mio male, lo stesso mostro. Solo che io non ho fame; ho i cani che mi seguono, e i tentacoli che crescono, questo impulso dentro di me. I cani e i tentacoli sono il mio nuovo corpo. Cado ancora a terra, mi spacco le gambe sulla roccia e mi copro la faccia con le mani: «Perché, perché…». Sento le sue braccia umide attorno alle mie spalle, l’odore di salsedine.

«Chi è stato?»

«Ho rifiutato Glauco, che voleva amarmi. Circe mi ha punita per gelosia. Mi sono immersa nel mare e sono diventata un mostro.»

Eravamo fimmine e ora semu mostri. P’ ’i masculi e fimmine ora semu mostri. P’ ’a fame e p’ ’a bellezza semu state punite.

Cariddi mi stringe, mi afferra i polsi e mi toglie le mani dalla faccia. I suoi occhi neri di scoglio e lava contro i miei chiari di acqua. Io le do uno schiaffo, grido: «Perché non rimani sulla terra? È il mare che ti trasforma! Dobbiamo stare lontane dal mare, siamo state punite. Voglio rimanere donna.». Lei sorride ancora con i denti aguzzi lucidi di saliva, mi rimanda lo schiaffo: «La punizione è il nostro potere. Siamo sempre donne. E loro, gli uomini e le donne per gli uomini, ci hanno fatto un dono!». Si alza, apre le braccia, respira, socchiude gli occhi piegando la testa all’indietro. Muove le labbra veloci, un filo di voce, una preghiera che non capisco. Un’onda più alta delle altre si butta contro lo scoglio e si frantuma, le gocce di spuma le bagnano la faccia. Si passa la lingua ai lati della bocca. Torna a guardarmi: «Loro credevano di punirci, di legarci, di maledirci per sempre. Ma noi siamo giganti, non abbiamo più paura. Il mare è nostro adesso, noi siamo il mare».

’Un chianciri, Scilla. Noi avemu la fame e la bellezza perché semu fimmine libere. ’Un ce la fanno contro nuàutri perché iddi hannu paura del mostro. Si scantanu della fame e della bellezza sulu se ce l’hannu ’i fimmine.

Le onde si calmano, una striscia di luce bagna Cariddi che mi stringe le mani e mi tira su. Sento le teste di cane abbaiare dentro di me, i tentacoli pulsano nelle vene, ma non ho paura. Le mie vene sono i tentacoli e la mia gola ringhia. Sorrido: «Nessuno passerà dalla nostra casa».

Stringo più forte la mano di Cariddi, le affondo le unghie nel palmo. Lei si mette a ridere, mi bacia il dorso della mano e poi lo mordicchia. Le spine dei suoi denti. Ha di nuovo fame. Ci mettiamo a correre sugli scogli, ci trasciniamo a vicenda. Saltiamo nello stesso momento. Non appena i nostri corpi nudi toccano l’acqua, ci trasformiamo.

Eravamo fimmine e ora semu il mare.

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