Cronache dalla fine

 

Cronache dalla fine

Conversazione con Giovanni Agnoloni

a cura di Giorgio Galli

Immagini fotografiche di Luigi Ghirri

 

Nell’opera di Giovanni Agnoloni, l’analisi delle trasformazioni antropologiche è sempre accompagnata dall’osservazione dei cambiamenti nel paesaggio. Tali trasformazioni avvengono sempre in un luogo identificabile della geografia e in un momento preciso della storia. Così, nei romanzi distopici raccolti in Internet. Cronache dalla fine (Galaad, 2021) e nel più introspettivo e realistico Viale dei silenzi (Arkadia, 2019), lo scrittore fiorentino mostra grande attenzione alla descrizione dei luoghi e alla toponomastica delle città: un’attenzione così meticolosa che può apparire persino ossessiva, ma che è giustificata dal bisogno di sollecitare la partecipazione critica del lettore, di dirgli che quanto sta leggendo non accade “molti secoli fa, in una galassia lontana lontana”, ma in tempi e luoghi a lui vicini. Le distopie di Agnoloni non si collocano in un tempo lontano dal nostro: la seconda metà degli anni venti è il teatro della saga “della fine di Internet”, mentre Viale dei silenzi è a noi contemporaneo. Firenze, Cracovia, il Marocco sono ben riconoscibili nella tetralogia distopica; il paesaggio irlandese è chiaramente articolato nel romanzo psicologico. L’uomo dei tempi nuovi non è un uomo senza patria, ma qualcuno che mette radici in molte patrie, conoscendole, esplorandole, vivendone le atmosfere e le culture, sempre viaggiando. Il viaggio è il vero protagonista non solo dei romanzi già menzionati, ma anche del più – apparentemente – scanzonato Berreti Erasmus (Fusta, 2020), che rimodula in chiave più ironica i temi caratteristici della narrativa di Agnoloni, il viaggio, la ricerca, la scomparsa di qualcosa o di qualcuno. Così, Firenze non è una città sognata, è la vera Firenze, in cui l’autore è nato e vive, e che progressivamente perde il suo genius loci per diventare laboratorio sperimentale di un’acculturazione consumistica che rende ogni luogo simile a tutti gli altri. E Cracovia, anche se invasa da nebbie bianche e proiezioni olografiche, è la Cracovia reale e non una raffigurazione fantastica come l’America di Kafka. Il fatto è che l’autore, da gran viaggiatore qual è, parla sempre di luoghi che conosce e che ha vissuto, e dei quali ha potuto osservare le trasformazioni.

Nel tuo romanzo La casa degli anonimi i protagonisti attraversano una Versilia desolata, un paesaggio che tu rendi benissimo sulla pagina attraverso l’uso di una prosa secca e tersa. È un paesaggio abbandonato dagli umani, che hanno trasferito così tanto di sé alla vita virtuale da aver tralasciato quella reale. Nel primo romanzo della saga, invece, Sentieri di notte, la città di Cracovia è ricoperta da una strana nebbia bianca e i personaggi si aggirano all’interno di un ambiente in cui ricostruzioni olografiche perfette si sostituiscono alla realtà, rendendo di fatto indistinguibile il reale dal virtuale. In che modo pensi che la vita virtuale, e tutto ciò che ne dipende, abbiano influito non solo sulla conformazione del paesaggio, ma anche sulla sua rappresentazione, sulle coordinate psichiche oltre che su quelle geografiche?

Questa non è solo una bellissima domanda. È la domanda del nostro tempo. L’abuso di tecnologia ha spesso determinato un minore interesse per il paesaggio e l’arte, restringendo la vita entro i confini di uno schermo di pc o del display di un cellulare. E precisamente qui si annida il focus del grande inganno e dell’abuso della psiche e del diritto che i grandi colossi informatici, con i governi da loro in gran parte orchestrati, hanno ordito e stanno attuando, dandoci l’illusione malsana di poter fare a meno del mondo reale, dei rapporti concreti (e non solo mediati da internet) con le persone, del contatto con gli ambienti, con la natura, con le cose che si vedono, si sentono, si toccano, si odorano e si gustano (anche senza ordinarle con una app). È invece precisamente nella virtuosa combinazione del progresso, che passa anche attraverso la buona tecnologia – non quindi quella che mira al controllo della vita delle persone, anche col pretesto dei pur reali allarmi pandemici –, con la dimensione naturale e artistica, da riscoprire e valorizzare, che sta la chiave per il futuro. Il prezzo da pagare, altrimenti – e lo stiamo già vedendo – sarà lo sradicamento dell’uomo da se stesso, ovvero dal Sé, la radice dell’identità e della vocazione personale, in nome di un “essere come il potere ci dice”, perché – vedasi 1984 di George Orwell – il potere è giusto e buono, e tutto è lecito in nome di una supposta “salvezza collettiva”. Al contrario, precisamente il tempo in cui viviamo ci insegna che solo chi è radicato nel Sé, o almeno cerca di esserlo, è cosciente della propria identità e della propria strada nel mondo, a prescindere da quello che dicono o fanno gli altri. La natura, e così l’arte che ha plasmato le nostre città, per converso, non hanno colore né obiettivi, ma seguono una logica intima, armoniosa e benefica, riscoprire la quale amplia i confini della mente e lo spazio interiore, rendendo l’uomo capace di relazionarsi al meglio con se stesso e con il prossimo.
Tra l’altro, sono particolarmente felice di soffermarmi su questi aspetti, perché la Città e il ritorno alla Natura nei miei libri è precisamente l’oggetto di gran parte della tesi di Karolina Kopańska, dottoranda in Studi Letterari presso l’Università di Danzica, in Polonia, con la guida della Prof.ssa Dorota Karwacka-Pastor.

Nel 1999, si usava dire: vent’anni fa tutti immaginavano un futuro fatto di macchine volanti e di città piene di grattacieli. La rivoluzione invece è avvenuta, ma non nel mondo esterno, bensì dentro di noi, nel nostro modo di “connetterci” ad esso. Mi sembra di capire che, per te, la rivoluzione digitale ha avviato un processo che ha influito – di riflesso e negativamente – anche sul mondo esterno. Oggi si parla molto di ambiente e si dice che la tecnologia è di aiuto a un migliore rapporto con l’ambiente. Tu sembri di altro avviso. Vuoi spiegarcelo?

Senza dubbio, dentro tanti di noi, negli ultimi venti-venticinque anni, è cambiato qualcosa in conseguenza della rivoluzione digitale: soprattutto nel senso che si è pressoché definitivamente perso il contatto con la dimensione spirituale dell’esistenza – che non vuole necessariamente dire “religiosa” –, ovvero con tutto ciò che trascende la materialità del vivere, limitando gli interessi ulteriori rispetto alle necessità del mantenimento quotidiano alla fruizione degli strumenti tecnologici connessi a internet. Io, si badi bene, non vedo niente di sbagliato nella Rete (purché non diventi un mezzo per diffondere notizie false o per permettere a multinazionali senza scrupoli di condizionare la vita delle persone), ma certamente l’utilizzo che se ne fa in modo pressoché esclusivo può portare a disperdere energie creative e possibilità di conoscenza del mondo reale (nella natura e negli spazi urbani più capaci di ispirare) in tempo autenticamente buttato via gingillandosi. E ciò va contro l’esigenza insopprimibile dell’essere umano, per star bene e realizzarsi, di scoprire la propria vocazione esistenziale e attuarla. L’ambiente in cui viviamo – urbano, naturale e umano, dunque sociale – è inevitabilmente la sommatoria degli approcci individuali all’altro e al mondo. Perciò, se i singoli non riescono (più) ad avvicinarsi al centro di se stessi, al Sé, è chiaro che il mondo su cui le loro azioni vanno a impattare sarà condizionato dalle loro inclinazioni. La tecnologia può anche aiutare a migliorare la realtà, ma se il suo impiego su larga scala (ergo, nella natura e nelle città) è puramente meccanicistico e onnipervasivo, prescindendo dai territori dell’interiorità e dalle valenze più squisitamente spirituali dell’esistenza umana, non può che diventare – e senza entrare nel merito dei possibili fattori inquinanti – un modo per affermare il predominio di una visione arida della vita. Ecco perché nell’Introduzione a Internet. Cronache della fine parlo del passaggio “da una rete all’altra”. Perché vorrei un futuro in cui la tecnologia “in rete” fosse strumento utile, sì, ma non unico, e in nessun caso capace di sostituirsi alla Natura come luogo in cui l’uomo, ritrovandosi, riesce a capire chi è veramente e qual è il senso della propria strada.

Uno dei tuoi ultimi romanzi, Viale dei silenzi, è ambientato fra Toscana e Irlanda, e dà molta importanza ai paesaggi entro cui la vicenda si svolge. La tua attenzione al paesaggio è così costante che mi viene da chiederti: secondo te, c’è bisogno di una educazione – anche scolastica – al paesaggio? Il grande fotografo Ghirri diceva che, nel nostro tempo, un fotografo deve prima di tutto pulirsi lo sguardo. Dovremmo estendere questa raccomandazione anche alle persone comuni?

La “pulizia dello sguardo” rientra precisamente nel percorso di discesa nel Sé a cui alludevo nella precedente risposta. È, mutatis mutandis, quello che Tolkien sosteneva nel saggio Sulle fiabe, quando diceva: «Dovremmo guardare ancora il verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall’azzurro, dal giallo, dal rosso; dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors’anche all’improvviso scorgere, al pari degli antichi pastori, pecore, cani, cavalli – e beninteso lupi» (J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, ed. Rusconi, 1976, pag. 72). L’autore de Il Signore degli Anelli parlava dell’esperienza subcreativa di immersione in un mondo altro, quello di un racconto fantastico ben costruito, che ci fa momentaneamente dimenticare il nostro, per permetterci poi di rientrarvi con lo sguardo depurato e capace di cogliere le cose nella loro verità (e si badi bene, la loro “verità”, come il saggio di Carlo Rovelli Helgoland mette bene in evidenza, è sempre il risultato di un’interazione con lo sguardo dell’osservatore, che quindi, a maggior ragione, dovrà opportunamente essere “pulito”). Ma il suggerimento di Tolkien equivale proprio a quel contatto sensibile con la Natura al quale facevo riferimento in precedenza. La Natura, come del resto l’Arte in tutte le sue manifestazioni (dunque anche in quelle che decorano e abbelliscono le nostre città), è per l’appunto un agente spirituale, perché concilia la presa di coscienza da parte dell’uomo della propria identità più profonda, sfrondando tutti gli orpelli inutili ed eliminando tutti i condizionamenti imprigionanti di una visione puramente materialistica della vita. E così ci riporta all’essenza delle cose. Forse è per questo che in Viale dei silenzi e anche negli altri miei libri i luoghi sono per me così importanti, tanto che li considero dei veri e propri personaggi. Ognuno di essi, infatti, ha una sua energia particolare, che è la risultante del suo paesaggio naturale e del carattere-cultura della sua popolazione, e perciò ognuno, con le sue atmosfere e le sue caratteristiche sollecitazioni emotive e intellettuali, può dare un diverso e irripetibile contributo alla centratura e all’evoluzione interiore di chi lo attraversa. ​

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976), è uno scrittore, traduttore letterario e blogger. Autore del romanzo di viaggio Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa (Fusta, 2020), del romanzo psicologico Viale dei silenzi (Arkadia, 2019) e della quadrilogia di romanzi distopici raccolti nel volume Internet. Cronache dalla fine (Galaad, 2021), ha scritto, curato e tradotto vari libri sulle opere di J.R.R. Tolkien, e tradotto libri su William Shakespeare e Roberto Bolaño e opere di Jorge Mario Bergoglio, Joe Biden, Kamala Harris, Arsène Wenger, Amir Valle e Peter Straub. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.

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