Wanderlust

Wanderlust

racconto inedito di Omar Suboh

immagini di Cristiano Guitarrini

E oggi dove mi porto? Stavo pensando di passare al parco vicino casa, approfittare della luce per ripararmi sotto qualche albero, rilassarmi all’ombra con un libro (sto leggendo La montagna incantata, è il momento giusto!) e lasciare che il tempo si sospenda come dentro a un sanatorio svizzero, nel cuore di una qualche pianura desolata e sterminata. Ma appena metto piede fuori di casa ecco che la mia mente, per una qualche ragione imperscrutabile, mi fa deviare dall’intenzione originaria e mi precipita verso il lungo viale, accanto al cimitero monumentale, dove posso avere la fortuna di non incontrare nessuno per tutta la durata del suo percorso (di solito si aggira tra gli otto e i dieci minuti, con un passo non troppo spedito), e perdermi nel silenzio crepuscolare o nell’ascolto totalizzante di qualche disco che faccio partire in cuffia da una selezione di artisti scelti con cura da qualche piattaforma musicale (di solito faccio sempre qualche abbonamento mensile gratuito, di quelle offerte lampo che i cookies pubblicitari mi propinano come un credulone che accetta tutto senza discriminare). Ho letto da qualche parte che esiste un termine specifico per indicare questa condizione: Wanderlust: credo sia di origine romantica. Come sempre quei diavoli dei tedeschi trovano sempre il giusto nome per indicare le cose del pensiero, le sfumature dell’anima.

Vagavo per chissà dove, come sempre da ormai una decina di anni, rigorosamente da solo!, perdendomi tra i pensieri. Ogni tanto la mia attenzione veniva catturata da una macchia su un muro: oggi per esempio mentre attraversavo il viale, mi sono fermato a osservare un pannello in cui un tempo erano stati affissi alcuni manifesti pubblicitari, o per qualche concerto, ma che adesso era vuota e i residui di carta rimasti con l’aggiunta della ruggine esposta quotidianamente al sole, davano vita a una forma astratta, una qualche visione della mente che catturava l’invisibile, immobilizzandolo nella cornice in lamiera dei contorni. Mi compiacevo di questo pensiero. La mia sensibilità mi rendeva ciò che sono, perché mentre passeggiavo, malinconicamente e senza una meta (è l’unico sport che faccio: cammino, cammino, cammino…), formulavo l’idea che nessuno, o comunque in pochi, si sarebbero trattenuti di fronte a un ex cartellone, svuotato del suo contenuto, composto di soli residui frammentati e mangiucchiati dall’usura e il logorio del tempo.

E questa cosa mi faceva stare bene. Quante forme d’arte nascoste nelle geometrie urbane che percorriamo, convinti di attraversarle, in realtà, sono loro che ci attraversano, e noi non siamo altro che delle comparse nel grande teatro della vita. Camminai con passo felpato lungo le strade che mi si spalancavano davanti, e indeciso su quale via prendere, imboccai quella più lunga e spaziosa, nei pressi di una piazza dimenticata dall’incuria della amministrazione comunale. Dove al posto di panchine, scorgevo soltanto divisori e transenne che perimetravano lo spazio, privando chi volesse trascorrerci un pomeriggio (magari con i propri figli, per giocarci) della possibilità di godere di quell’arena. Qualche vagabondo, seduto nelle panchine rimaste, popolava la piazza, resuscitandola dal suo torpore in virtù delle loro radioline accese verso chissà quale stazione. Urla, suoni inarticolati, costituivano la grammatica fantastica delle loro conversazioni: presi da chissà quale argomento, i volumi si facevano sempre più alti, alimentando uno stato di sospensione ancora più profondo di quello in cui versava, naturalmente, la piazza. Un paesaggio dechirichiano con le rovine al centro, e qualche scultura umana ai lati nascosta da ombre estese lungo il pavimento. Sorrisi a un bambino che mi venne incontro seguendo il suo pallone, e proseguì dritto. Scorsi l’interno di alcune vetrine: un bar, un ottico, una agenzia immobiliare: il vuoto. Dentro mi sentivo già svuotato, ma la carrellata di quei locali senza anima amplificò il mio senso di solitudine all’inverosimile. Ho creduto di impazzire. Volevo scappare, ma da chi?, dove?, e soprattutto… come? Non ci pensai. Un brano di Chico Buarque dettava il ritmo del mio respiro, conferendogli le giuste note entro le quali orientarsi nel palinsesto del mondo: un caleidoscopio scintillante, ibridato dei colori dei muri scrostati che incontravo di fronte, gialli e bianchi, come le pareti del mio spazio interiore. Mi affacciai lungo le vie dello shopping, affollate di persone anche a quest’ora (in piena estate!), le vedevo rincorrersi come insetti in una gabbia, ma quel pensiero non mi gratificò. Mi stavo anestetizzando alla vita: stavo apprendendo, senza manco accorgermene, ad essere un osservatore distaccato del grande spettacolo dell’esistenza.

Se tutti avevano qualcuno accanto, un amico (o un gruppo di amici), una coppia (fidanzati, sposati, o frequentazioni istantanee), o se avevano una meta prefissata da raggiungere (fosse anche solo una commissione, o diretti in qualche negozio per approfittare dei saldi estivi), io invece non andavo da nessuna parte: mi trascinavo. Passavo accanto a un paio di librerie, ci entravo, compievo un lungo piano sequenza sugli scaffali delle novità e dei generi mischiati senza un criterio (come quella volta che entrai in una dove c’era scritto “Classici” e invece ci trovai soltanto libri di poesia… che già non se la passa così bene, se poi depisti pure l’attenzione dei suoi possibili acquirenti è fatta!), ma preso dallo sconforto per la consapevolezza di non avere abbastanza soldi per comprare qualcosa, finivo per rimettere tutto a posto e andarmene a mani vuote. In alcune occasioni trascorrevo anche delle ore in quegli spazi. Mi ricordo che una volta avevo anche comprato, ma prima di decidermi, avevo passato in rassegna tutto il settore dei romanzi della Einaudi (certo, perché in quella libreria i volumi erano accostati sulla base della casa editrice di appartenenza, oltre che al macro-genere di riferimento: narrativa, saggistica, cucina…), e forte della mia convinzione di leggere una grossa saga famigliare, la mia scelta ricadde su Grande seno, fianchi larghi di Mo Yan: ci misi svariati mesi per concluderlo. Camminavo confondendomi tra le persone, e mi immaginavo da fuori (osservatore di me stesso dall’alto), con i lineamenti deformati, i tratti di un quadro di Bacon entro la quale eravamo tutti rappresentati come mostri, con i bulbi oculari abnormi e gli zigomi pronunciati, il colorito violaceo della nostra epidermide anestetizzata, diseducata al contatto con gli altri corpi (quelli degli sconosciuti che in un tempo non troppo lontano ci capitava di accarezzare o sbatterci contro senza darci troppe preoccupazioni, come in discoteca), e in quei momenti un desiderio di normalità, di leggerezza radicale, si impossessava di me, spingendomi a rinnegare quello che ero sempre stato: una testa senza corpo, con il mondo nella testa.

Facevo tutte queste considerazioni mentre mi perdevo guardando una coppia che si stringeva per mano, si toccava, i loro corpi mi attraevano magneticamente. Sognavo di seguirli, di essere invitato da qualche parte da sconosciuti che non avevo mai visto prima e che incrociavo lungo la strada stracolma di gente. Scorrevano film e dialoghi immaginari in cui mi figuravo possibili risvolti, come ad esempio: adesso giro l’angolo e una splendida ragazza, magari una turista venuta nella mia città per qualche settimana, incuriosita dai miei tratti mediterranei e medio orientali (la mia barba è un segno particolare), mi abbordava dicendomi: –Ehi, ciao!, sei mica di queste parti? Cercavo un posto carino dove poter bere qualcosa – e io, di rimando: Certo!, vieni c’è un pub molto interessante nei dintorni, mischiano la cucina brasiliana con quella giapponese – e lei: – Ma dai!, pazzesco. Allora direi che mi hai convinto – così, e senza pensarci due volte, ci dirigevamo nel locale e trascorrevamo tutta la notte insieme, alternando conversazioni infinite sul senso delle costellazioni e sul significato dell’ultimo film di Lars von Trier, alle scopate più spinte, selvagge, intercalate da urla di piacere e fremiti inconfessabili. Poi spegnevo il riflettore della mia mente e mi ripiegavo sugli strati di sogni, depositati come nei fondali, che nutrivano il mio cervello sconnesso e quindi escluso da tutto (come ritagliarsi il proprio posto in una epoca che ha fatto della iperconnettività il proprio paradigma dominante?, accompagnata da una competizione ogni giorno più estrema e al conseguente collasso del sistema cognitivo collettivo?), e riprendevo a camminare, senza meta. Passai accanto a un vecchio cinema della mia città, lo stesso che ero solito frequentare in notti agitate, invernali, al riparo dal rumore della città, dove venivano trasmesse rassegne dedicate alla riscoperta di classici intramontabili, per lo più restaurati. Era chiuso. Avrebbe riaperto?, e la mia memoria, intanto, rielaborava estratti di fotogrammi rimasti impressi nella mia retina, come impronte indelebili lasciate sul muro di una grotta preistorica. Intorno soltanto locali: ristoranti all’aperto, sushi bar, paninoteche, birrerie, chupiterie: una fila di ritrovi tutti uguali popolati da figure tristi e identiche. Nessuna emozione traspariva dai loro volti, sembravano di gesso, mummificati dal tempo. Non c’era bisogno di andare a Seoul, dove il tasso di iperconnessione è il più alto al mondo (come quello dei suicidi, tra l’altro: sarà un caso?) per vedere gli individui incollati agli schermi dei loro telefoni senza mai distogliere gli occhi da quei fasci luminosi emanati dagli schermi plastificati e trasparenti: ormai la dipendenza tecnologica andava oltre la coca, qui si trattava di eroina digitale, a tutti gli effetti. Cercavo i loro sguardi, rapidi momenti fugaci in cui mi tuffavo nell’acqua dei loro occhi, per aprire nuovi varchi, vie di fughe dall’ordinario della mia vita autocentrata. Grida, squilli di telefono, abbaiare di cani che si rincorrevano, amici che si salutavano schioccando le loro mani al ritmo della trap che zampillava fuori dalle casse portatili, e poi la musica degli artisti di strada (c’era sempre lo stesso signore di cinquant’anni che, con la chitarra in braccio, dava voce alle parole dei grandi del cantautorato italiano e americano: De Andrè, Guccini, Lou Reed ecc.), qualche giocoliere, un paio di venditori ambulanti africani… e così di nuovo: in un ciclo perpetuo destinato a non concludersi mai, per ricominciare, identico, il giorno dopo. Scendevo nella strada perpendicolare alla via principale della movida e ricominciavo lo stesso percorso all’indietro, ma passando per un quartiere più stretto, quello dei pescatori di un tempo, dove erano soliti distribuire i frutti del loro lavoro ai ristoranti della zona.

Quel quartiere, oggi, era vissuto per lo più da immigrati, gli stessi che lo avevano fatto rinascere, conferendogli una nuova estetica, nuovi colori: cinesi, indiani, bengalesi, kirghisi, arabi, senegalesi e pakistani popolavano come un bazar le strade strette in cui, ogni volta che passava una macchina, mi dovevo appoggiare con le spalle al muro per evitare di essere investito. Le loro botteghe erano gli ultimi negozi rimasti aperti, fatta eccezione per qualche ristorante storico o per la sede di associazioni culturali dedite a non so davvero quali attività. Anche i barbieri non c’erano più, stavano scomparendo. Nelle vie del centro si vedevano spuntare barber shop da tutti le parti, ma inoltrandosi nelle vie più nascoste era possibile, ancora, imbattersi in qualche antica insegna impolverata, dai colori spenti, che incorniciava una serranda abbassata ad aeternum, fino alla prossima riapertura (avrei scommesso in un nuovo ristorante): mi ricordai di uno in particolare, dove mio padre mi portava sempre da bambino. La vera attrazione di quel posto era una sedia con la forma di un cavallo, e se ti inclinavi assecondava il tuo movimento trascinandoti per chissà quali deserti o steppe infinite. Cavalcavo fiero, come un guerriero medioevale lanciato contro i nemici della sua patria, e mi perdevo in fantasie che non avevano un fine, ma rinascevano sostenute dai cartoni animati giapponesi che vedevo in televisione, principalmente all’ora di pranzo e nel pomeriggio. A volte, con questa scusa, rimandavo a data da destinarsi i miei compiti, ma la consapevolezza che non sarei sfuggito alla morsa delle scadenze, mi riempiva il cuore di un tedio immenso, e la stretta che sentivo sullo stomaco, l’ansia che ne scaturiva, non l’ho mai più dimenticata, me la porto addosso ancora adesso. Sarà per questo che mi bocciarono alle superiori ed ebbi problemi già alle medie, come quando mi sospesero perché mandai letteralmente affanculo la mia professoressa di scienze: – Stephen, hai studiato oggi? – e io, come da copione: – Certo… che no!, esattamente come ieri. E il fatto che lei si ostini a chiamarmi all’appello è indice della sua stupidità oltre ad una marcata volontà persecutoria nei miei confronti! – le dissi, come se fossi in tribunale, e l’arringa in mia difesa fosse pronunciata dall’unico avvocato che ho sempre avuto per ogni causa persa: me stesso. Camminavo e continuavo a incrociare i corpi di qualcuno che non avrei mai conosciuto, con cui non avrei mai condiviso un caffè, una birra, niente di niente. Ma come ogni volta in cui mi sono innamorato, una strana alchimia tra materiali diversi ma complementari, un crampo allo stomaco, seguito a un nodo alla gola e un infarto, saltavo sul posto ad ogni incrocio: la mia mente sovrapponeva al volto dei passanti il viso delle persone che avevo nella testa. L’innamoramento coincide con l’ossessione di vedere la stessa persona ovunque. Così mi capitava di confondere la persona che mi piaceva da dietro, dai capelli, in lontananza… anche se poi si girava e l’incantesimo finiva in un attimo. Il fenomeno ha incominciato a diventare invalidante quando per estensione incrociavo anche altre figure legate alla stessa persona, come un ex, o qualcuno con cui ero certo avesse avuto momenti intimi, o una amica, così amplificando la mia sensazione di essere circondato da lei, in qualunque luogo. Il punto è che spesso accadeva davvero, non era soltanto una allucinazione. Mi capitò di incrociare un ragazzo che ero certo fosse stato suo fidanzato per diversi anni, puntualmente, dopo che l’avevo conosciuta e tra noi era nato qualcosa (per poche settimane, non sia mai!), ma la cosa grave era che avevo incominciato a incontrarlo tutti i giorni… ero certo che si trattasse di una maledizione. Non c’era altra spiegazione! Facevo finta di niente, mantenevo gli occhi bassi, così ero sicuro di non dovermi fermare per salutare nessuno, e mi insinuavo nelle vie meno frequentate inseguendo l’ombra che si manifestava di fronte, nascondendomi. Rimanevo in giro per almeno due ore, tutto chiuso nella mia eccentrica solitudine, fino al tramonto. Di solito, prima di tornare a casa, passavo per il molo che si affaccia sul mare, con le sue rocce multicolori e le onde grigioargentee, e mi prendeva una malinconia fortissima: realizzavo di aver condiviso pochissimi tramonti con qualcun altro. Non volevo farne una colpa, né per me stesso né per gli altri, ma mi faceva male (e come afferma ad un certo punto Travis Bickle in Taxi Driver: “più pensi di stare male, e più stai male…”), così come il pensiero che avevo organizzato giusto un paio di feste: non mi sono mai piaciuti i compleanni. Compreso il mio.

La fatica di darsi da fare per organizzare, chiamare i locali, fissare gli appuntamenti, sentire gli amici, o la fidanzata (per chi ce l’aveva), non sono mai state cose per me. Ma è come se arrivato a questo punto non fossi più sicuro di quello che credevo, più semplicemente stavo scegliendo chi diventare, senza avere fatto i conti prima con un altro quesito da non trascurare: e se fosse troppo tardi per diventarlo?, se avessi capito che cosa è giusto per me, o era, ma fosse ormai impossibile da attuare a pieno? Sarebbe un problema, e non da poco. Percorrevo il molo passando prima dal porto, dove centinaia di barche, yacht, navi crociera, militari e di ogni altro tipo possibile, erano attraccate per la stagione, perdendomi mentre scrutavo gli interni e fantasticavo su come trascorressero il tempo qui, nella nostra isola. Alcune erano lussuose, scintillanti, vertiginose, altissime, insomma ce n’erano di tutti i tipi e per tutti i gusti!, anche se ho sempre odiato chi ha una barca, così come chi ha un camper: sono tutti contrassegni di un tipo di persona che non mi piace, da cui rifuggo generalmente. Non perché abbia qualcosa in contrario con chi possiede quei mezzi, ma perché sono sempre stato, per indole e per carattere, tendenzialmente immobile e statico, mentre provavo una forte irritazione per chi non riesce mai a stare fermo un minuto, nel proprio posto, con le formiche nel culo, sempre in movimento che sembra che qualcuno gli stia accendendo una fiamma sotto il fondoschiena. Dovremmo fermarci tutti. Saldi. Con gli occhi rivolti al cielo, e le narici dilatate mentre aspiriamo il profumo del mare che si innalza a noi in questa terra desolata, devastata. E mentre formulavo tra me e me tutto questo, decisi di passare dalla teoria alla prassi, colmando uno scarto tra pensiero e azione e sedermi su di una roccia vicino alla spiaggetta che si affaccia su uno spiazzo dove un gruppo di pescatori era solito darsi appuntamento in quelle ore della giornata, al tramonto. Il sole era più grande del normale, i suoi riflessi viola sfumavano in un pianoforte di raggi scintillanti e variopinti, come schegge taglienti che frammentavano il cielo in migliaia di pezzettini simili alle tessere di un mosaico prezioso. Il cielo era diventato il tempio più sacro della terra.

Col naso all’insù, guardavo la volta celeste perdendomi nei miei pensieri, rincorrendo sinestesie di immagini prodotte da un senso interno, nascosto, ma se stimolato nel modo giusto, in grado di risvegliare arcobaleni interiori multicolori. Mi soffermavo sul suono del mare, delle onde che si infrangevano sulle rocce dove mi ero seduto, o sulla riva, dissolvendosi in un lento attenuarsi che generava nuove onde in arrivo: era il perenne rinnovarsi di tutte le cose. Assorto in quella pace incontaminata ero certo che sarei potuto diventare una unica cosa con quell’azzurro trasparente, cristallino, fondendomi come in simbiosi con il resto degli esseri viventi che popolavano il mondo sotterraneo degli oceani. L’acqua, come la musica di una orchestra di percussioni silenziosa, con il suo lento dissiparsi, mi invitava a tuffarmi, a seguire la corrente, a lasciarmi tutto dietro, a chiudere con l’eterno presente. Mi alzai, nell’angoscia della mia posizione eretta, mi soffermai ancora un momento su quella distesa infuocata, e pensai: – Chi si è visto si è visto.

No Comments

Post A Comment