Intervista doppia agli autori: Mario Valentini e Nino Vetri

Intervista doppia agli autori: Mario Valentini e Nino Vetri

 

a cura di Giovanna Di Marco e Ivana Margarese 

 

Morel, voci dall’isola propone una nuova formula di intervista, una forma di dialogo con e tra gli autori: l’intervista doppia.
Gli autori, potendo rispondere alle stesse domande o ponendosi domande tra di loro,  possono parlare dell’opera dell’altro in un confronto che sia soprattutto incontro. Il mettere insieme una pluralità di voci e il dare spazio alle domande sono motivi centrali nel nostro stile di comunicazione, anche per contrapporci a una assenza di domande che sembra segnare la nostra contemporaneità portandosi dietro una certa pigrizia o rassegnazione per un mondo ereditato così com’è, con troppe risposte già pronte e disponibili.
Inauguriamo questo nuovo appuntamento intervistando due autori molto diversi tra loro. Il discorso verterà soprattutto sulle loro ultime opere. Si tratta di Mario Valentini, autore de I Vangeli nuovissimi (Quodlibet, 2021) e Nino Vetri, autore di Marcitero (ilPalindromo, 2021).
La prima opera immagina dei Vangeli apocrifi, dove le vicende di Gesù sono narrate in tono giocoso e spesso calate nella contemporaneità (si parla di sport e di supereroi) con un’ironia tagliente ma sempre simpatica, caustica nel puntellare alcune criticità millenarie, ma ancora persistenti del cristianesimo: “(Gesù) Mai una volta che consigliava la lettura di un libro o che fornisse una breve bibliografia su un argomento o che invitasse gli apostoli a fare qualche ricerca scritta”. E, del resto, seguendo la tradizione dei Vangeli apocrifi, Valentini è provocatorio, ricordandoci anche la cultura alternativa o popolare che li ha assorbiti, che si è nutrita di questi testi, spesso veicolati come Biblia pauperum per il volgo nelle chiese, perché sì, furono proprio i Vangeli apocrifi a generare una moltitudine di iconografie sacre, prima e dopo l’interdizione della Chiesa.
Marcitero di Nino Vetri parla invece di un paese immaginario dove regna il brutto e il turpe, popolato da personaggi screanzati e bizzarri. Ma, come in ogni distopia, è evidente la fotografia di un luogo troppo simile a molti luoghi, in questo caso del Meridione d’Italia, dove la bruttezza regna incontrastata come simbolo di annichilimento e risposta amara alla retorica delle ‘magnifiche sorti e progressive’, troppo spesso ostentate per promuovere e lanciare i nostri territori:

“Monte Calvo, nella ricostruzione, era diventato un’isola. La grotta dei graffiti una caverna inabissata, meta di escursioni di sub. La piazza, un porticciolo turistico. Attorno a esso: bar, baretti, pensioni e bed and breakfast… La gente guardava attonita il modello. Ma dov’è casa mia? Non c’è più casa mia! Dove è finita la mia casa? Dicevano in tanti. Ve le ricostruiamo da un’altra parte! Diceva Brillantina. Quanti piani ha la tua casa? Tre? Te la rifacciamo di quattro… cinque piani![…]E verranno i turisti? Quei rompicoglioni?”.

Mario e Nino sono diversi, quasi appartenessero a elementi differenti, eppure emerge una fratellanza al di là della forma dei loro esiti: le ambientazioni distanti, ma in qualche modo vicine e una cifra ironica, che sprona a pensare e che è sempre un piacere accogliere.

 

Giovanna Di Marco: Cosa ha ispirato la tua ultima opera? Perché ti è stato necessario scriverla?

M. V.: L’hanno ispirata tutte quelle ore del sabato e della domenica passate a messa o al catechismo, da bambino e da ragazzo. Una volta perfino l’attività ricreativa era monopolio della chiesa cattolica. Non so quanti siano riusciti a sottrarsi alle storie della chiesa e ai suoi formulari. Quei formulari mi si sono piantati nel cervello, a me come a molte altre persone della mia generazione. Forse a tutti. E le parabole, e i detti sapienziali, gli insegnamenti morali e le beatitudini, eccetera eccetera. A tredici anni io e i miei compagni, molti dei quali saranno diventati nel tempo atei convinti o quanto meno agnostici, facevamo a gara a chi sapeva recitare la messa tutta a memoria senza sbagliare una parola o una pausa. E ci riuscivamo bene. Si ha una memoria portentosa a quell’età, che oggi ci fa invidia. Non era solo un’espressione di vita pia e di grande adesione alla religione. Era piuttosto una forma di colonialismo della mente a cui era impossibile sfuggire. Perfino i nostri giochi ne venivano colonizzati, nel bene e nel male, nel rispetto e nel sospetto. O nel rigetto. È un po’ quello che viene raccontato in Libera nos a Malo di Meneghello, in cui la memoria orale dei precetti della cultura cattolica attraversa tutto il romanzo, a partire da quella strana e incomprensibile espressione che riecheggia all’inizio come una minaccia: attimpuri. Con gli amici del mio quartiere, per dire, avevamo una squadra di calcio. Si chiamava Cosmos come una famosa squadra americana. Ci giocava Giorgio Chinaglia. Con questa squadra di nome Cosmos partecipavamo ai tornei organizzati nel mio quartiere. Ma tutti i tornei di calcio erano organizzati dai salesiani all’interno di attività ricreative che venivano chiamate “l’oratorio”. Mi ricordo che una volta un sacerdote salesiano aveva messo una regola: poteva iscriversi al torneo di calcio solo chi il sabato o la domenica seguiva anche la messa. Era un prete simpatico, ma aveva ceduto alla tentazione del ricatto morale. Adesso forse quel sacerdote non c’è più. Chissà se è stato punito per le sue colpe di ricattatore.
Perché mi è stato necessario scrivere questo libro invece non so dirlo. Non so se chi scrive libri lo fa per una specie di necessità interiore o se semplicemente li scrive perché gli capita di farlo, punto e basta. Inizi a scrivere partendo da un’idea vaga, ci prendi gusto, quello che hai cominciato inizia a intrigarti, prende forma e sembra funzionare bene, non riesci più a fermarti, alla fine ti accorgi di avere scritto un libro. Si può chiamare necessità di scrivere? O bisogna dargli un altro nome? Però mi è venuto facile, proprio grazie ai formulari e parabole e storie e beatitudini che avevo nella memoria. Hanno funzionato come una fonte di acqua sorgiva. Pura, limpida, incorrotta. Proveniente dritta dritta dai dodici anni. Un’età strana, in cui si è ingenui ma anche un po’ maligni e provocatori. Ecco, nel libro c’è un po’ la dinamica dei dodici anni: l’acqua sorgiva ma anche la provocazione, il gusto di buttare lì qualche storia abbastanza eterodossa, anche comica e che fa ridere, per vedere di nascosto l’effetto che fa. È il meccanismo da rompiscatole professionista tipico del dodicenne.

N. V.: Volevo rappresentare il brutto che ci circonda, che ha un suo valore intrinseco.


Giovanna Di Marco: L’ambientazione in una realtà ‘altra’ è uno dei tratti comuni delle vostre ultime opere, che sviscerano molte contraddizioni del nostro tempo. Era questo il tuo intento iniziale?

M. V.: Ho fatto nei Vangeli nuovissimi quello che hanno fatto moltissimi cristiani per secoli e secoli. Soprattutto gli artisti cristiani. I piccoli e grandi maestri dell’arte cristiana. Gli “antichi maestri”, come li chiamava Thomas Bernhard. “Secoli e secoli di arte cattolica di Stato” diceva Bernhard in Antichi maestri con evidente fastidio. Ho ambientato le storie del mio libro, che poi sono le storie di Gesù, di un Gesù ampiamente travisato, in una Galilea e in una Giudea che è da sempre mitica e dunque falsificabile. Perché il mito è così: è una storia che si presta a continue rivisitazioni, aggiornamenti, riscritture. E anche i vangeli da venti secoli e passa si comportano come ogni storia mitologica. Vedi le opere degli antichi maestri cattolici e ti accorgi di queste continue riscritture, di questi travisamenti. Tutti gli antichi maestri contaminavano l’ambiente mitico delle storie evangeliche con ciò che apparteneva al proprio tempo e al proprio ambiente, creando un ambiente del tutto “altro” (come dici tu), che non è quello del Nuovo Testamento ma non è nemmeno quello del proprio tempo. Basta prendere, del tutto a caso, alcune opere. Che so: la Vergine delle rocce di Leonardo o lo Sposalizio della Vergine di Raffaello o mille altre. Raffaello è Raffaello, ma anche io nel mio piccolo invece di ambientare le storie del vangelo in una città razionalista quattro-cinquecentesca, con la fissazione per lo studio della prospettiva che avevano a quel tempo, con la passione per le pavimentazioni lastricate che avevano in quel periodo e le architetture spiccatamente geometriche, ci ho messo dei campi di calcio, ho detto che Gerusalemme era una città inquinata e piena di miasmi, che era una metropoli in mano a gang violente, eccetera eccetera. Che poi, insomma, anche nei vangeli Gerusalemme è un po’ così. Quando Gesù arriva a Gerusalemme la sua predicazione diventa aggressiva, si abbandona allo scontro frontale con gli scribi, con i sacerdoti e i farisei, perché Gerusalemme a quel tempo era una città esposta alla violenza, al confronto esasperato tra le diverse fazioni, al regime violento dell’Impero romano e dei suoi alleati ebraici. Ma comunque sia, questo della verità storica è anche secondario. Quello che conta è riscrivere il mito. Riattraversarlo per parlare un po’ di lui e un po’ di noi. Ma farlo non come fanno i cattolici, che dicono di parlare in nome della verità cristiana e intanto parlano solo di loro stessi. Farlo sapendo di mentire. Sapendo di inventare e di fantasticare. Farlo avendo l’onestà intellettuale di dire che stai raccontando favole.

N. V.: Il cinema che diventa bingo è in armonia con i nostri tempi. Altro che contraddizioni! L’altro è la normalità.

 Giovanna Di Marco: Quanto sei vicino al narratore della tua opera?

M. V.: Io mi sento un vero evangelista. Forse un po’ comico. Ma un vero evangelista apocrifo, fino al midollo. Non c’è molto da aggiungere.

N. V.: Il brutto che avanza.

Ivana Margarese: Questo numero di Morel, voci dall’isola è dedicato al paesaggio, inteso anche in senso più ampio come luogo e ambiente. Quanto ha contato il ‘tuo’ paesaggio per la creazione della tua opera?

M. V.: In Giudea e Galilea ci sono stato. Ho in mente cosa siano quei posti. Ci sono andato ormai diversi anni fa ma sono posti che mi sono rimasti molto impressi: l’oasi di En Gedi (che ha ispirato l’intero Cantico dei Cantici), Gerusalemme, Nazaret, Gerico, il deserto, il Mar Morto (che ha ispirato tutta la gran storia terribile della dannazione di Sodoma e Gomorra), la fortezza di Masada, l’altopiano del Sinai. Sono tutti posti che ho visitato e li ho visitati accostandoli, da lettore perfettamente inesperto e quindi molto stupito, ai passi della Bibbia che lì vengono ambientati. Insomma, ho inventato, pasticciato, contaminato, e molto, ma su una base di conoscenza diretta, per quanto superficiale e veloce, da turista, dei luoghi a cui mi riferivo. Il paesaggio dei vangeli, quello vero, anche se visto a distanza di duemila anni, lo avevo in mente.

N. V.: Tutto. Ciò che vedo racconto.

Giovanna Di Marco: Chi è per te lo scrittore?

M. V.: Manganelli diceva (più o meno) che si dà sempre l’attributo di scrittore a qualcuno che è morto. E al quale dunque, alla fine dei suoi giorni, si affibbia, come una specie di medaglia al merito, la patente di scrittore. Di Manganelli mi fido e ne deduco che finché, per sua enorme fortuna, qualcuno è ancora vivo, non gli si fa un buon servizio a chiamarlo scrittore. Suona un po’ menagramo. Come chiamarlo, allora, uno che scrive libri, lo scrivente? Lo scrivente sarebbe uno che scrive con una certa regolarità, lo dice il participio presente stesso. Poi può scrivere libri belli o libri brutti, libri intensi o libri scialbi, libri divertenti o noiosi, libri bene informati e approfonditi o sciatti, libri dal ritmo serrato e appassionante o libri sfilacciati e dispersivi, eccetera eccetera. Gli scriventi insomma sono tutti coloro che scrivono libri, sia che scrivano bene sia che scrivano male. E dunque, per conseguenza logica, si dirà di uno che scrive bei libri che è uno scrivente molto bravo e di uno che scrive libri così così che è uno scrivente così così. Poi, quando sarà morto, ci sarà qualcuno che dirà di lui che ha fatto lo scrittore. Ma fino ad allora a quello scrivente non glielo auguro di essere chiamato scrittore. Sarebbe come dirgli che è quasi morto. Così mi hanno insegnato a considerare questa faccenda nelle scuole che ho fatto e che ho seguito, dove Manganelli veniva considerato uno dei principali professori da cui imparare.

N. V.: Colui che vede ciò che altri non vedono.

Giovanna Di Marco e Ivana Margarese: Parlateci a parti incrociate di Marcitero di Nino Vetri e di Vangeli nuovissimi di Mario Valentini.

M.V: Oltre a Marcitero ho letto tutti i libri di Nino Vetri. E non ce n’è uno che non mi sia piaciuto, molto o moltissimo. Marcitero è un paese che forse non è in nessun posto o forse è proprio vicino a casa nostra. Ci è lontano e ci riguarda. È abitato da gente umorale e incollerita. I suoi abitanti tanto sono simpatici quanto insopportabili. È un piccolo centro che potrebbe essere un paese di montagna ma forse anche i quartieri delle città in cui abitiamo. Si trova in una piccola valle ma i suoi abitanti è come se si considerassero una nazione indipendente. Sono autarchici e incorregibili. Violenti e sanguigni. Ci sono dei dettagli secondo me che rivelano quanto un libro sia giusto. In Marcitero secondo me sono i nomi (o soprannomi) dei personaggi. Non ce n’è uno sbagliato o forzato. Sono nomi naturali, esatti, precisi che già al solo pronunciarli raccontano storie.

N.V: Il libro di Mario mi fa pensare al detto: “L’uomo pensa e Dio ride”. Detto ebraico.


Biografie

Mario Valentini (Messina, 1971) ha studiato a Bologna e vive a Palermo, dove insegna, scrive vangeli e altri libri di narrativa. I suoi primi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Il semplice. Ha pubblicato Voglia di lavorare poca (Portofranco, 2001), In certi quartieri (Mesogea, 2008), Come un sillabario (Mesogea, 2015), Così cominciano i serial killer (Mesogea, 2018), La minuscola (Exòrma, 2018), Vangeli nuovissimi (Quodlibet, 2021).

 Nino Vetri (Palermo, 1964), libraio, suona nel gruppo folk punk La banda di Palermo. Ha pubblicato: Le ultime ore dei miei occhiali (2007), Lume Lume (2010), Sufficit (2012), Il Michelangelo (2015), tutti editi dalla casa editrice Sellerio; Suite per quarti di vacca (2018) e Marcitero (2021) per ilPalindromo.

No Comments

Post A Comment