Fare poesia è scoprire

 

Fare poesia è scoprire

Intervista a Pietro Edoardo Mallegni

a cura di Emanuela Mannino

Immagini fotografiche di Suzanne Saroff

Pietro Edoardo Mallegni, nato a Carrara nel 1995, è un giovane poeta che ha all’attivo quattro pubblicazioni: “Il Nulla” (Europa, 2020); Neurocidio (Limina Mentis, 2020); “Il Dio Dada”(Del Bucchia, 2015) e la prima raccolta poetica “Il dedalo in me” (Del Bucchia, 2013) pubblicata a diciotto anni che gli è valso il settimo posto al premio “Michele Mazzella: per un teatro giovane” con “Geshua e il crollo dell’io”.
Fin da bambino ha coltivato diverse passioni: cucina, musica, scrittura. Cuoco di professione, ha iniziato a lavorare a quindici anni, nel suo territorio locale, quindi a Venezia, Trieste e in InghilterraPadre di un bimbo di quattro anni, Pietro si dedica molto a comporre poesie e suona in alcuni locali. Scrittore sin dall’età di tredici anni, ha ricevuto una menzione speciale al Premio Internazionale Dostoevskij e ha raggiunto la fase finale del concorso internazionale di poesia “Il Federiciano”. In preparazione una quinta raccolta poetica.

La tua storia personale è molto interessante per la varietà di esperienze umane e sociali che si intrecciano con la tua predisposizione artistica. Così giovane, hai già pubblicato varie raccolte e hai ricevuto attenzioni speciali dalla critica letteraria. Come hai scoperto di avere la passione per la poesia e cos’è per te la poesia?

Ho scoperto di avere la passione per la poesia da molto giovane. Semplicemente mi dedicavo a dei piccoli scritti, raccogliendo ogni giorno qualche frase o qualche pensiero all’interno di alcuni quaderni. Ovviamente, erano testi molto immediati e privi di una reale critica verso il sé. Dopo alcuni mesi, proponevo questi testi ai miei genitori e alle mie professoresse ed erano proprio loro a incoraggiarmi, così con estrema semplicità è nato questo piccolo amore, che poi negli anni si è evoluto grazie alle letture dei classici e dei poeti contemporanei. La poesia è una confessione che, talvolta, racchiude nel suo essere qualcosa di impossibile o di orribile da dire e da dirsi. E’ un costrutto meraviglioso per svelare qualcosa. Nei concetti di ispirazione e fermentazione, sta allo scrittore, o meglio al confessore interiore, trovare quante più possibili figure, immagini, suoni e parole per dire qualcosa che fino a quel momento sembrava impossibile dire.

Trovi delle analogie tra la tua musica, la tua poesia e l’invenzione di ricette culinarie? Quali emozioni provi quando ti dedichi ad esse, quali somiglianze e quali differenze?

Musica e poesia sono due forme d’arte che possono tranquillamente camminare mano nella mano; per quanto riguarda la cucina, ovviamente vi sono delle analogie tra le tre cose, ma mentre musica e poesia si dedicano alla parte più evoluta del nostro essere, all’introspezione, alla catarsi, all’ispirazione e alla fermentazione, la cucina è direttamente collegata con una parte più ancestrale e primitiva, che si ricollega con un “IO” più antico, più “animale” se vogliamo dire. Ovviamente vi sono delle analogie nel “Modus Operandi” degli scrittori, di musicisti e cuochi: scelte di parole e note, possono essere paragonate alla scelta di ingredienti per un piatto; accostamenti di suoni a combinazioni di sapori e spezie di paesi lontani; un menù degustazione si può tranquillamente paragonare a un Climax Ascendente. Possiamo ben dire che come vi sono i classici in musica e letteratura, esistono anche i classici in cucina che rappresentano le grandi basi di una cultura culinaria, ma seppur vi siano molti aspetti comuni, rimango dell’idea che l’atto del cucinare e la cucina in sé, anche intesa come forma d’arte, rimanga un atto di carattere istintivo e viscerale. A livello emozionale, devo dire che adrenalina, ansia, eccitazione sono molto simili, se paragoniamo un concerto musicale al servizio di cucina di un matrimonio. Al contempo, fare poesia è uno scoprirsi e, spesso, scoprire un nuovo sentimento o una nuova emozione, come fare l’elenco di tutti i colori del mondo e capire in fondo che ne mancava uno.

Hai aderito al Dinaminismo, movimento poetico-artistico fondato da Zairo Ferrante. In che modo esso influenza il tuo pensiero poetico?

L’adesione al “Dinanimismo” e soprattutto il confronto con Zairo Ferrante e i suoi collaboratori, sono stati e rimangono oggi, per me, grandi fonti d’ispirazione. Vivendo nel mondo della cucina, dove spesso e volentieri vi è poco dialogo riguardo letteratura e poesia, il “Dinanimismo” è stato e rimane il mio approdo al mondo della poesia e dell’arte. Sotto il punto di vista del manifesto del movimento, è stato come guardarsi in uno specchio, dove non ti accorgi che esso in realtà è un dipinto, con la firma di un altro ed in cui ritrovi parti significative di te stesso. Il concetto di movimento dell’anima, di ritorno a “Essere” e non “Apparire”, poesia e arte intese come forma di salvezza e resistenza all’ignoranza e velleità contemporanee, sono principi che condivido a pieno, che mi hanno portato a rileggermi e a criticarmi con un senso di maggiore responsabilità.

La ultima raccolta poetica porge movimenti interiori densi in più dimensioni temporali. Si avvertono energie proiettate in un futuro in parte ignoto, anelato, osservato ed a tratti abbracciato nel suo essere sfuggente. E’ una metamorfosi incessante di stato, un setaccio di emozioni, in cui il Nulla diviene l’interlocutore esistenziale principale ed intorno al quale ruotano elementi naturali e richiami divini che si sovrappongono, si rincorrono ed in cui l’Uomo-poeta trova ristoro e molteplici voci per risolversi oltre se stesso.

*

A te: il mondo

 

Si dissetano le secche

dei fiumi, tra le tue fauci,

ove angoli di paradiso

si nascondono all’orrore

del mondo restante.

Si accarezzano le vette

più belle sulla tua

schiena e le arie

più alte, dei cieli tersi

si librano tra i cirri,

dei tuoi occhi.

A te, che si inchini

la luna, si disperi

per una tua carezza,

si spenga il sole,

incapace del somigliarti,

si gualciscano l’acque

calme degli oceani

rabbrividisca il cuore

della terra, se per un attimo,

nello starti accanto,

non ho paura della tua mancanza.

In questa pregevole poesia, tratta dalla raccolta “Il nulla” sembra di scorgere un’apparente dicotomia interiore tra l’amore di sé e l’amore per il mondo. Nonostante lo sguardo sugli orrori del mondo ricada dove più senti di amare, nonostante gli angoli di paradiso nascosti, che valgono la pena di vivere una vita intera, si avverte una forza intrinseca che si autoregge, nel non attaccamento imperituro alla vita stessa. Persino la Natura nella sua personificazione,si arrende all’Uomo consapevole del proprio equilibrio esistenziale, cautamente sospeso tra la bellezza del mondo e il dolore della perdita di essa. Ed il mondo-altrove- è, nonostante tutto, è spettatore impotente che resta, nel suo fluire e andare oltre, nella sua immanenza imperfetta in cui sembra che il poeta si rifletta. Nella poesia “2217”, tratta dalla stessa raccolta, nella chiusa in particolare, dici “(…) passano i miei giorni/non esiste che si riesca a contarli/solo si può dire che sono passati”. Che rapporto hai con l’attaccamento e con la perdita dei tuoi oggetti d’amore?

Ho viaggiato molto, ho conosciuto molte persone che ho amato. Negli anni ho imparato che la regola fondamentale per fare in modo che ricordi e oggetti non diventino linfe vitali esclusive, è concedere il distacco nell’attimo in cui viene richiesto, trasferendocon la giusta importanza nei ricordi, quelle singole felicità, che nel divenire del tempo, non si sono comprovate come tali, o meglio non si sono comprovate come possibili o futuribili. Nell’ideologia di materialità, credo che sia la memoria del singolo a dare reale valore agli oggetti e prego che nell’invecchiare non vadano mai a sbiadirsi. Ovviamente, in una vita c’è uno spazio limitato anche per i ricordi e non tutto può rimanere eterno, anche se solo nella nostra mente.

*

Lamento

 

Si vive d’un istantaneo dolore;

a ricercar il prezzo delle idee:

incubo prende vita.

Si arranca negli anni,

calciando a piedi nudi

i cocci, dei sogni infranti.


In questa breve poesia, tratta dalla stessa raccolta, sembra di sentire il respiro del dolore universale nella difficoltà ad esistere di idee proprie tra le avversità del mondo, fragili, malinconici e un po’ dispersi tra i cocci dei sogni infranti. In che modo pensi ti abbia segnato l’esperienza del dolore? Hai mai rimesso insieme dei cocci un po’ come l’arte giapponese del kintsugi
 riscoprendo un valore aggiunto al tuo cammino di uomo e poeta? Se sì, puoi dirci di più?

Il dolore ha segnato sicuramente una cicatrice profonda nel mio animo; non solo per il senso di perdita o di mancanza nei riguardi del passato, ma nell’asfissiante condizione del presente che, come un crampo sordo, pone nel mio sguardo una sensazione di sofferenza, una consapevolezza escatologica che pone in essere il concetto che siamo destinati a soffrire. Mentre i sogni, le ambizioni e i desideri si sgretolano davanti, il dolore come consapevolezza reale diventa il compromesso per garantirci la sopravvivenza, in quanto aiuta a sperimentare i propri limiti. Volendo essere totalmente sincero, non ho mai provato a riunire i cocci di un dolore, piuttosto ho trovato un utilizzo più profondo e consapevole. Alla fine ogni dolore è umano e allo stesso tempo lo sono le sue cause e le sue conseguenze; la riconciliazione con esso pur nella sua “impossibile accettazione” sono e rimangono parte integrante dei miei scritti e delle mie ispirazioni.

*

Apprezzamento

 

Il demone delle mie idee,

si prostra a me come una meretrice,

fame in un momento sbrana.

Oggi giorno anche la sofferenza è puttana.

Ancora da “Il nulla”, una poesia stavolta con un movimento differente. Sembra di sentire il poeta prendersi un po’ in giro per non prendersi troppo sul serio. Difendersi dal rischio di essere vittima delle proprie elucubrazioni, dei propri segmenti irrisolti e al contempo non permettere a se stessi di precipitare nell’autocompiacimento. Insomma, sia dato spazio alla sofferenza senza restarne avvinti in una zona di non ritorno. In che modo la poesia può contribuire a elaborare la sofferenza e se la poesia è anche sofferenza riesci sempre ad ascoltarla mettendo insieme tutti “gli ingredienti” delle tue voci interiori?

La poesia dona significato alla sofferenza e allo stesso tempo la esorcizza. Mettere nero su bianco, dona vita reale a ciò che si pensa e allo stesso modo ne concretizza la distanza; ogni parola una volta scritta, come per un bambino crescendo, trova il suo spazio nell’universo, che sarebbe il libro di cui fa parte. In questo credo che vi sia un senso di paternale accompagnamento al mio scrivere, ma anche di giusto distacco nel divenire dei testi. Di fatto, credo che tutte le sfaccettature della mia persona, pian piano, abbiano tatuato qualche ricordo in ogni mio libro, spesso anche trovandomi in disaccordo con me stesso o critico verso i miei scritti e le mie idee.
In questo, ovviamente,  confluiscono nello scrivere diverse voci, come da te esplicitato, ma credo che vi sia una pagina bianca per ognuna di loro, o almeno lo spero, quindi lascio che cantino da soliste, anziché in corale; ovviamente, in me vi è il desiderio di comporre poesie che esplichino le mie emozioni e contraddizioni di padre, compagno, uomo, lavoratore e figlio ma, seppur molto differenti tra loro, non sono concetti che non possano coesistere e come un buon maestro d’orchestra, ogni tanto cerco di comporre brani “all’unisono”.

La muffa sulla parete

(….)

Vedrai un giorno,

anche se non spero,

il male che mi inghiotte,

e riderai di quanto stupido

fosse tuo padre,

che per inganno della natura

la felicità, non si è mai concesso.

Nella poesia sopra riportata, si avverte il tuo sentirti rammaricato di non essere come avresti voluto essere, ed un “padre incompiuto” da biasimare.  

A mio figlio

(….)

E forse un giorno,

capirai le idiozie di quest’uomo,

buono a nulla, fallito.

Incapace, persino, d’amarsi

ma che, in una scatola di cartone Ikea,

insieme a tua madre,

ha chiuso il suo cuore

e per quanto marcio,

non lo vuole più,

ma lo dona a te.

Anche nella poesia “A mio figlio” tracci una visione di paternità sospesa tra l’onirico e il reale, tra il desiderio di essere e apparire forte e l’autocondanna dell’immagine di sé; traspaiono amarezza e timore nel non poter afferrare pienamente il futuro di tuo figlio, nel potergli chiedere se sarà mai fiero del padre che la vita gli avrà lasciato in eredità. Una poesia futurista radicata in un presente-carcere doloroso. Eppure non hai che da offrire con la madre di tuo figlio un cuore trattenuto dalla contingenza del vivere sino a divenire marcio. Ma per quanto marcio lo vuoi donare a tuo figlio. Quasi uno slancio ad accettare il vuoto che non può essere visto ma che ha una sua pienezza da vivere, altrove. Ed in questo slancio metafisico ed insieme pragmatico la consegna del proprio cuore marcio che diverrà, magari, un cuore migliore. Se tu fossi tuo figlio e leggessi questi versi, cosa risponderesti a tuo padre uomo e poeta?

Beh, direi di stare tranquillo, che seppur non abbastanza, non c’è altro cuore che vorrei vedermi donato perché è quello di mio padre, che non c’è nulla al di là del tempo trascorso con lui che vorrei come regalo nella mia vita; che tutto questo darsi pena e ammorbarsi, in fondo, non serviva perché tempo e spazio pian piano aggiustano tutto e che so, ma non so (perché non lo sapevo neppure io, Pietro figlio nei confronti dei miei genitori) che cosa significa essere padre. Anche se nei miei scritti ci fosse stata la nera ombra del mondo che inondava la mia mente, quel che contava era essere lì, solo noi, senza macchie e senza rumori. Perdonerei tutti quei grandi piccoli dolori che un padre fa al figlio, perché in un senso di infantile egoismo, non c’è cosa che un padre non farebbe per un figlio, anche quando il momento sembra essere doloroso: da qualche parte mi aspetterei un risvolto positivo. Sempre.

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