Tre centimetri e mezzo

 

Tre centimetri e mezzo

di Eva Luna Mascolino

 

Ogni anno la luna si allontana dalla terra di tre centimetri e mezzo. Più si allontana, più la terra rallenta la sua rotazione. Sta succedendo così anche a me e a Ulisse. Lui non se n’è accorto perché non accende mai la webcam quando ci sentiamo su Zoom, perché non ha capito di Anfinomo, perché a furia di lavorare vicino al mare ha appoggiato troppe volte il suo sguardo sul fondo e non l’ha più ripescato.
Ieri sera gli ho scritto un messaggio, per provare a cercare una luce oltre i discorsi sul lavoro e sulla fine della pandemia. Mi ha risposto Va bene, come a dire È tardi, lasciamo stare – ogni anno la luna si allontana dalla terra di tre centimetri e mezzo, che al giorno fanno 0,009 centimetri, lo spazio che ci vuole per scrivere Va bene.
Forse sono solo io a notare certe assenze di divinità nelle nostre giornate. Lui ha affittato una stanza che si affaccia sul Tirreno. La vita da rizzatore pendolare di questi tempi non sarebbe stata l’ideale, così sull’Adriatico sono rimasta solo io. Dice che tornerà appena sarà tutto finito, ma in realtà non so a cosa si riferisca, dato che quello che c’era fra di noi è finito già da un pezzo. Due giorni fa ho provato a parlarne con Elena, mia cugina. Come sempre, si è messa per un attimo nei miei panni e poi se li è sfilati con dolcezza. Non gliene faccio una colpa, però avrei bisogno di qualcuno a tenermi la testa fra le mani quando mi sveglio e non tocco nessuna pelle liscia oltre alla mia.
Ormai siamo solo io, la casa. E Telemaco. Dopo le ore di didattica a distanza passa i pomeriggi alla tastiera, con le cuffie collegate. Credo suoni Rachmaninov, ultimamente. Forse sarei più sollevata, se potessi sentirlo con le mie orecchie. Per lo meno saprei di che colore è la sua amarezza. Così, invece, ci vediamo quasi solo a tavola. Nel fine settimana mi dà una mano con le pulizie, mi racconta che cosa ha imparato a lezione di storia. Di solito gli faccio poche domande, ma lui ha risposte perfino per i dubbi che non sono capace di formulare. La Guerra dei Trent’anni, il destino di Giovanna la Pazza, le colonie olandesi: sa collegare i fatti come se fossero gli indizi di un’indagine. Con il passare dei mesi comincia ad annoiarsi, eppure ha ancora gli occhi accesi. Li controllo sempre prima chiuda la porta del bagno, o quella più piccola della sua bocca.
Se c’è una cosa che ho imparato, da marzo a ora, è stata custodire un luogo del pensiero in cui tornare prima di coricarmi. Uno spazio mentale recintato, dove non c’è posto per i telegiornali e le statistiche. Mi serve a restare in equilibrio tra il presente e l’eterno, a trovare la voglia di accarezzarmi tra le gambe nonostante i morti in aumento e le carote da sbucciare. Adesso sto anche provando a convincermi del fatto che la distanza sia un concetto elastico, reversibile: non mi riesce molto bene, se devo essere sincera.
In parte credo sia stata colpa mia, almeno all’inizio. Ulisse stava ancora qui, quando Anfinomo e io ci siamo incontrati per la prima volta. Mi ha offerto un caffè al bar e mi ha detto: Non c’è niente di sbagliato nel coltivare un sentimento. Ho ribattuto che non mi piacciono le generalizzazioni. Che io sono una scrittrice, combatto contro i buchi nel linguaggio. Perché?, mi ha domandato lui. Per non caderci dentro, ho improvvisato. Non me l’ero mai chiesto, prima di allora. Li cerco perché mi riesce bene, a dirla tutta. Perché ho paura delle inesattezze.
Ad ogni modo, in uno di loro ci sono caduta. Qualcosa di male c’è, nel coltivare un sentimento. C’è il peso di una scelta, la costanza di un comportamento che diventa adulto. Secondo Anfinomo non dovrei essere così severa con me stessa, perché la monogamia è un’invenzione culturale. Sarà anche così, continuo a ripetergli, però è anche un modo di stare al mondo e di spiegarci le relazioni, in particolare quando includono azioni come baciarsi i capelli, usare lo stesso spazzolino o prendersi cura di un bambino.
Dall’altra parte, però, sarei una bugiarda se negassi il doppio mare a cui sento di appartenere: Ulisse è il mio Tirreno, tutto spigoli e insenature. Sotto le nostre lenzuola si sono formati dei vulcani, pericolosi e nascosti, e il fondale della nostra comunicazione è attraversato da dorsali tormentate e ombrose. Anfinomo è il mio Adriatico, lungo e glabro in superficie – ma poco profondo, cinto da una sabbia sottile. I suoi granelli mi restano tra le dita dei piedi, dietro le orecchie, sulla punta della lingua. Perfino ora che ci incrociamo a stento quando porto fuori Argo, sento che mi si sciolgono le ginocchia appena le sue ciglia mi rivolgono un movimento.
L’unica maniera che mi è rimasta per salvarmi dalle ossessioni è creare un cerchio infrangibile. Fingere di rimandare una decisione che ho già preso, e che lascerò alla vita il compito di apparecchiare per me. Appena finirò di scrivere il romanzo, ho promesso ad Anfinomo che avremo una stanza per noi, in un punto del mondo scordato dalle cartine. Intanto, però, de La tela ho scritto i primi capitoli l’anno scorso, dopodiché mi sono bloccata: non si può costruire la storia di due estranei mentre un decreto ti chiede di sotterrare la tua. C’è un mare che mi aspetta dietro la finestra, e io ho i capelli secchi da tutto l’inverno. C’è un altro mare, laggiù, che mi ha dimenticata, e se gli mostro i miei capelli sullo schermo non vede altro che pixel – più la luna si allontana, più la terra rallenta la sua rotazione, così io ho il passo sempre più corto, ho le gambe sempre più fiacche.
Ho tempo fino a luglio per consegnare la prima metà del manoscritto, per allora Ulisse sarà tornato e avrà pronto un canto di addio per le nostre fedi nuziali. A quel punto, magari, avrò la forza di scrivere di Circe, oppure di Calipso. Ora sospetto perfino di una certa Nausicaa, che fa la banconista nella trattoria in cui vanno a pranzo fra colleghi. Per lui le donne sono gusci del desiderio, banchi su cui appoggiarsi dopo una tempesta. Non le ha mai pensate come sassi da tirare sul pelo dell’acqua per vederne i cerchi: solo come pietre preziose da portare al dito. Le nasconde male e le colleziona bene. Non è nemmeno così difficile, se non parli a lungo e riesci a cambiare riva appena frena il vento. Quando ti chiedono spiegazioni, o inventano oracoli per il vostro cammino insieme, basta scrivere Va bene e premere Invia.
Non vedo perché l’uomo delle briciole debba rimanere un marito da venerare, quando io apro la porta ai miei sensi di colpa ogni mattina e lascio che mi ballino sulla schiena fino a quando non torno fra le braccia di Morfeo. Un suo amico, che ora si è ammazzato, ripeteva sempre: Ulisse è il più furbo. A volte, invece: Ulisse è il più saggio. A Telemaco si allargava lo spazio fra le orecchie, a sentirlo. Io annuivo con lo sguardo obliquo verso l’orizzonte, a cercare nel padrone di casa e nel padre la voce cristallina del compagno di bevute. Sono passati quasi dieci anni e non l’ho ancora sentita.
Dall’esterno potrei sembrare ferma – un bersaglio facile per la spada di Damocle. Invece, da bravo satellite, mi sposto di uno spicchio ogni giorno. La terra è così lontana che sto smettendo di usare i possessivi, quando parlo di lei. Sto cambiando nome e zone chiare, e dove c’erano rocce ora arrivano onde sismiche e asteroidi rotondi come uno zero. Credo sia il segno evidente che io e Ulisse abbiamo rotto i nostri patti come se fossero stati dei piatti, con una i in più, magari di quelli buoni. Siamo esseri umani, d’altronde. Mica dèi.
Oggi ho pensato che a volte, però, si recepiscono solo i gesti più eclatanti. La sabbia nella clessidra si nota solo quando è a mucchietti. Allora ho deciso di andare incontro al cambiamento e ho optato per una rivoluzione solare: compirò un giro diverso e cambierò stella di riferimento. Per cominciare ho preso il ritratto di quell’artista di strada greco, me lo aveva regalato Ulisse durante il nostro viaggio di nozze. Ci ho passato sopra una spatola e ho tolto la tempera prima dai miei occhi, poi dai capelli, infine dal naso. È rimasto un ovale con i denti scoperti, ma sfregherò via anche loro. Ogni volta che muovo il polso mi sembra di giocare a un gratta e vinci per il quale l’unico premio rimasto è la forma del mio nome.
La seconda tappa è stata il letto. Un Vandve che avevamo scelto da Ikea fra decine di modelli, quando qui da noi c’erano ancora i muratori. Appena hanno finito di ristrutturare abbiamo portato le posate, una culla e interi scatoli di lastre di legno, con chiodi, squadre e pomelli da avvitare. Stamattina ho tolto le coperte e le federe, mi sono inginocchiata sopra il materasso e l’ho tagliato con un temperino. Ho levato tutta l’imbottitura, staccando le molle dalla stoffa. L’ho raccolta dentro un sacco e poi sono passata alle sponde. Con un martello piantato nel punto giusto, si sono aperte come gusci di noce. La pediera è stata semplice, ora manca la testiera. Vorrei finire prima che Telemaco si tolga le cuffie, portare giù la spazzatura e passare l’aspirapolvere. Dopodiché gonfierò il letto che avevamo comprato per gli ospiti e dormirò lì i miei sogni futuri. In campo neutro.
Mentre ho già ripreso in mano il maglio, squilla il cellulare. Prima di cena Ulisse non telefona mai, ha altri nodi per le mani. Sarà successo qualcosa. O forse è meno lontano di quanto credessi. Ignoro la chiamata e lascio scivolare lo smartphone dietro il comodino. Ulisse ci riprova, lo capisco dalle vibrazioni del parquet. Ho le dita turbate, le ossa che esitano per la coincidenza. Provo a dirmi che basterebbe un Va bene di 0,009 centimetri per convincere il mio ago della bilancia. All’occorrenza potrei fabbricarlo io stessa.
Un terzo movimento però riaccende il display, e qualunque mia scelta potrebbe essere l’ultima.

– Pronto?

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