“Restare vivo”. Dialogo con Francesco Borrasso

“Restare vivo”. Dialogo con Francesco Borrasso

a cura di Giovanna Di Marco

immagini tratte da opere di Roberto Ghezzi*

Ci sono scritti che sono mappature dell’anima, paesaggi di recessi interiori per arrivare a una ricognizione. Narrare di sé e del proprio dolore è come analizzare la Natura di fronte al suo meccanismo cieco di nascita-vita-morte, acchiapparne questo non senso e rilasciarne al contempo  una disarmante bellezza. Restare vivo di Francesco Borrasso – pubblicato sulla collana Margini di Inchibboleth – ne è un esempio. Si tratta di un memoir che racconta la morte del padre e la quasi concomitante depressione dell’autore. I due argomenti camminano parallelamente nella costruzione alternata dei capitoli e la loro elaborazione è una sincera messa a nudo dell’Io narrante.  La memoria risulta una cassa di risonanza, un setaccio, un input nella selezione di immagini o ricordi pregnanti.

Attraverso l’esperienza dell’autore, infatti, la sua vita (simile a quella di tanti altri, ma diversa da tutti gli altri) si concreta nella scrittura in sé, che diventa il fatto trainante e salvifico.  Sorgono a questo punto alcuni interrogativi necessari: quanta finzione può esserci in una dimensione di scrittura di memoria, cosa si trasfigura, cosa si enfatizza o si misura in sé? Ho posto questi interrogativi all’autore di questa opera sincera, frutto di una dolorosa indagine interiore. Per questo motivo ho  immaginato il suo scritto come una sorta di paesaggio dell’anima, il più variegato possibile: dalle tempeste a una dolce bruma, dalla lava distruttrice a una consapevole e umile rinascita. Se infatti la ginestra leopardiana può apparire soccombente rispetto alla furia distruttrice della Natura, finisce poi per sprigionare sempre tutto il suo inebriante profumo.

Restare vivo è composto da capitoli che si alternano: quelli in seconda persona e rivolti a tuo padre che non c’è più, e quelli sulla tua depressione. Questi ultimi sono certamente una sorta di discesa agli Inferi dentro te stesso; gli altri, attraverso i ricordi e i continui flashback, narrano spesso di una realtà che tenti di riportare alla memoria. Ciò che mi ha particolarmente colpito è la focalizzazione degli oggetti della quotidianità, che, nella loro freddezza, rendono perfettamente l’allucinazione del vivere, l’assurdità della vita stessa. Come ti sei invece posto rispetto all’oggettivazione di te come personaggio?

 

Sinceramente non ci ho pensato. Quando ho incominciato a scrivere il memoir non mi sono sentito come un personaggio ma come parte di quel flusso di pensieri e memorie che trovavo ovunque posassi lo sguardo. Come dici tu scrivere questo libro è stato un viaggio, un percorso intimo e doloroso, soprattutto nelle riletture. Per raggiungere l’Io protagonista delle pagine ho dovuto attendere quasi undici anni dai fatti narrati. Ho avuto la necessita di poter guardare tutto da lontano per poter meglio capire, comprendere. Vivisezionare.

 

Il memoir è un genere letterario corroborato – innumerevoli i richiami, da Sant’Agostino a Casanova, fino al Novecento – e la tua opera mi ha riportato a mie recenti letture, come alcune opere di Goliarda Sapienza, che, come te ha parlato della sua depressione. Hai adottato una sorta di trasfigurazione o – come sembra evincersi in modo preponderante – ti sei basato sempre e solo sull’autenticità? E, in questo caso, come ha agito la memoria e quale cernita degli innumerevoli ricordi è avvenuta?

 

Credo che in ogni libro di fiction ci sia autobiografia, voluta o involontaria. E credo che in ogni libro di autofiction ci sia una sorta di trasfigurazione. L’autenticità all’interno del mio libro è preponderante, vulcanica. Ma proprio per via del materiale lavico di cui è composto Restare vivo, c’è stato bisogno di, appunto, trasfigurare qualcosa.

Ho la fortuna di avere una buona memoria, se mi spingo nel passato riesco a ritrovare eventi di quando avevo cinque, sei anni. Ma la memoria fa anche un altro gioco, cerca di nasconderti alcune cose, cerca di proteggerti dal dolore. Per recuperare la voce di mio padre, che avevo completamente perduto, ho dovuto mettere una videocassetta della mia prima comunione. Ho lasciato che le cose che più mi hanno segnato diventassero di carta.

 

Il titolo Restare vivo non è solo ciò che apparentemente sembra. Nel testo, la frase viene ripetuta due volte: una, riferita a tuo padre. Spieghi infatti che, se fosse rimasto vivo, probabilmente non avresti scritto; la seconda, come possibilità contemplata solo con il supporto della scrittura. Parlane ai nostri lettori.

 

Spesso restare vivi non è una nostra scelta. Andare via da qualcosa, da qualcuno è un movimento che compiamo noi, tranne nel momento della morte. Io sono sopravvissuto perché ho avuto i libri, le letture e soprattutto perché sentivo che scrivere era come uscire per qualche ora dalla stanza piena di mostri che era diventata la mia mente. Se oggi sono qui e sono quest’uomo è grazie alla letteratura e all’amore delle persone care, un amore, quest’ultimo, che spesso è retroattivo. Un amore di cui ci rendiamo conto dopo, perché durante la tempesta non sentiamo niente.

Il libro ci parla anche della genesi del tuo primo romanzo, La bambina celeste. Ecco, in questa prima opera hai traslato il tuo dolore riportandolo in una storia che non hai mai vissuto. Da scrittore, qual è il meccanismo creativo che permette di parlare di te attraverso la vita degli altri?

 

Nel romanzo La bambina celeste parlo della morte di mio padre parlando d’altro. È stata una sfida impegnativa, ma credo riuscita. Non so dirti quale meccanismo si mette in moto nel momento in cui decido di scrivere una storia, ma posso dirti che qualsiasi cosa io scriva è sempre di me che sto parlando.

 

Qual è il libro interrotto che in Restare vivo tua sorella ti consiglia di riprendere e che poi è in qualche modo l’input che consente alla via della letteratura di essere per te quella della salvezza?

 

Si tratta di L’ombra del vento di Zafon. È stata la mia lampadina, questo romanzo. La fune calata dall’alto mentre annaspavo nella grotta senza riuscire a capire come risalire in superficie.

 

“Qui, dopo questi anni affollati, stiamo tutti bene”, è la frase finale della tua opera. Adesso che la tua vita è una anabasi dopo la catabasi, qual è la materia da cui attingi per la tua scrittura? Quali sono i tuoi progetti futuri?

 

Il mio tema principe è sempre lo stesso: la morte. In tutto quello che scrivo parlo della morte, anche se non sempre lo faccio in maniera diretta. Spesso è una sottotraccia, o semplicemente un suono lontanissimo e quasi impercettibile, ma sempre presente.

Ho un nuovo romanzo pronto che ho affidato al mio agente. Siamo in attesa di avere riscontri dalle case editrici.

 

Biografia

Francesco Borrasso (Caserta, 1983), si è diplomato in regia cinematografica alla scuola di cinema Pigrecoemme. Ha esordito con il romanzo La bambina celeste (Ad est dell’equatore, 2016). Ha poi pubblicato la raccolta di racconti Storia dei miei fantasmi (Caffèorchidea, 2017). Ha curato due raccolte di racconti. Collabora con Nazione Indiana ed è editor per due case editrici.

 

 

 

*Le immagini delle opere di Roberto Ghezzi che illustrano l’articolo sono naturografie del Porto di Tieste, del Canale Anfora e del Lago Trasimeno

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