Shamsia

 

Shamsia

 

di Brillante Massaro

 

Ho quindici, massimo venti minuti di tempo. Non c’è nessuno. Devo fare in fretta. Qualcuno potrebbe vedermi.  Arrivo davanti al muro, è ancora imbrattato di scritte e vecchi manifesti elettorali.
Sono qui a raccontare un passato recente da non dimenticare. Osservo i simboli agli angoli dei manifesti sgretolati e sorrido: una lampadina, un vaso d’acqua. La creatività è progressista, penso, aggira i limiti, attraversa le barriere. È accogliente e umana, talvolta cruda, ma non accetta distinzioni tra chi sa e chi non sa.  I simboli aiutano chi non sa leggere, sintetizzano con le immagini un programma elettorale, parlano un linguaggio immediato e globale. La lampadina per chi ha a cuore il problema dell’elettricità per rimediare ai blackout, il vaso con l’acqua per chi pensa che il problema fondamentale da risolvere sia la carenza d’acqua. E poi ci sono io.  Le mie bombolette spray e la tavolozza di colori.

Il muro è malconcio, una profonda lesione lo attraversa lasciandone intravedere l’anima. Sarà la piega di un vestito di donna a dare nuova vita a quella crepa.  Tutto ha lesioni profonde in questo paese. Anche i muri hanno occhi, orecchie e memoria. Hanno visto e udito. E non dimenticano. In un paese dove gli aquiloni non possono volare, non c’è posto per la creatività e non si riesce a immaginare un futuro.

Sistemo le bombolette, i colori e i pennelli ai piedi del muro. Lo guardo. Mi aspetta. Inizio a dipingere. Prima studio la prospettiva, poi la sagoma, i contorni che poi riempirò con lo spray. La mia donna è ora su un’altalena e si dondola sui tetti di Kabul. Ha gli occhi chiusi, si rifiuta di guardare, non c’è niente di bello da vedere.  Non ha la bocca, non ha diritto di parola.

La liberazione di Kabul non ha cambiato la nostra condizione.

“Le vostre donne sono come un seme da coltivare e quindi potete farne quello che volete”. Così recita il Corano. E noi siamo state sepolte nei burqa, private dello sguardo, del sorriso, della voce, del respiro, dell’immaginazione. Segregate nel privato abbiamo rinunciato alla vita. I primi nemici hanno il nostro stesso sangue, sono padri e fratelli. Hanno i nostri stessi occhi, le nostre stesse mani, ma non dispensano carezze. Hanno dentro una rabbia sorda ai richiami del cuore e della ragione, una rabbia antica che viene da lontano.

Marchiate a fuoco come bestie di proprietà abbiamo ancora i segni del tocco di padri, mariti, fratelli. Le cicatrici sono là, si srotolano nodose lungo i volti, i colli, i corpi. Quella pelle non ha più un respiro. Quando lo tocchi, quel tessuto fibroso, lucido e ruvido al tatto, ti ricorda che non ti appartieni.

Dipingo donne libere. Voglio che gli occhi dei passanti, tracciati dalla guerra, sostino sui loro corpi, sui colori che le illuminano, sulle linee, sui contorni che le definiscono.

Solo immaginare una donna diversa può creare una Kabul diversa.
Immaginazione. Cambiamento. C’è una linea invisibile che attraversa e lega le due parole. Senza la prima la seconda è cieca, non vede prospettive, non ha corpo.  Ma l’immaginazione ci è stata negata, è stata sconfessata. E come si può desiderare un altro mondo se non riusciamo a immaginarlo? La guerra ha distrutto la bambina che è in noi, la nostra parte più creativa, quella che ricrea la realtà. È il gioco del Facciamo che io ero, lo facevo da bambina. È dirsi: lo so che è una finta, ma fingiamo di crederci. Chi gioca sa che è un gioco, ma sa anche, che non per questo è meno reale. L’immaginazione è l’arsenale che abbiamo a disposizione per cambiare. Più ricco è, più possibilità abbiamo di sognare un mondo diverso. Se l’immaginario è scarno allora l’unico mondo che conosci, è l’unico mondo possibile.

Ho ancora dieci minuti, tra poco il buio ingoierà l’angoscia del passato e la speranza del futuro. Tutto sarà indistinto. Si confonderanno linee, colori, chimere e sogni. Ma il grosso è fatto.

Passano due uomini, si fermano un momento. Mi allarmo.Dipingo illegalmente e rischio molto. Uno mi lancia uno sguardo di disapprovazione, l’altro impreca contro di me.  Vanno via.

Il disegno è completo. Il grigio invade la città, ad ogni spruzzo nascono palazzi, si addossano gli uni agli altri, si rincorrono nelle viuzze, rimbalzano nei vicoli ciechi e accelerano negli slarghi. Passo ai colori.

Il pennello si immerge nel blu. È il mio colore preferito. Gocce di cielo cadono sull’asfalto ancora caldo del ricordo di corpi inerti, il pennello si muove lentamente, con cautela ma deciso, mentre i piccoli movimenti del polso danno vita a curve sinuose, a braccia e a gambe che si dondolano sulla città.

Le mie donne sono sagome spigolose che emergono tra le macerie e danzano, suonano, piangono; figure dallo sguardo negato che costringono a guardare oltre.

La mia arte è di tutti, e non ha bisogno di gallerie, si srotola per le strade in cerca di occhi da incuriosire, di bocche da stupire, di nuovi cammini da percorrere. La strada è il mio museo a cielo aperto: libero, accogliente, gratuito.

La mia arte è desiderio di vita altra.

Sono Shamsia Hassani sono una street artist. La mia arma è il pennello e la mia tela le mura della città.

Voglio curare le ferite della mia Kabul coi colori, voglio riempire i muri di sogni perché: L’arte cambia la mente delle persone e le persone cambiano il mondo.

 

 

Biografia

Brillante Massaro, insegnante di materie letterarie, per decenni si è occupata di formazione docenti in ambito metodologico-didattico e ha pubblicato articoli su riviste specializzate di educazione linguistica. Amante della scrittura, da oltre un decennio si è dedicata alla narrativa, ha pubblicato, con il Gruppo editoriale Raffaello, per la collana I mulini a vento, due testi di narrativa per ragazzi: Emozioni in gioco nel 2015 e A che gioco giochiamo nel 2018. Scrive per il teatro, affrontando temi legati alla differenza di genere, che porta in scena con la sua piccola compagnia tutta al femminile.

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