La Kore di Sicilia

La Kore di Sicilia

 

racconto inedito di Elisa Di Dio

 

Immagini di Giorgio Casu

 

In Sicilia, a Enna, si narra la storia di Kore, che in un tempo lontano abitava quelle contrade con sua madre, Demetra, dea della terra e dell’agricoltura. La ragazza fu rapita da Ade, figlio di Rea e Qualcuno dice che ancora oggi, nelle giornate di vento, sia possibile sentire la mia voce.
Forse. Forse è solo vento. Forse sono altrove e solo il mio pensiero cammina fra quelle contrade. Io sono una storia; il racconto del dolore, le lacrime, la rabbia, la ricerca senza fine di mia madre. Di me si è detto tutto attraverso i suoi gesti e i suoi pensieri. È ora che io parli. Anche solo per un lampo di cielo, una corsa di nuvole, un volo di stormi pronti ad affrontare il viaggio verso le calure africane.
Mi basta.
La mia storia nasce da un’eco, una chiamata, un nome ripetuto tante volte da una parete all’altra del tempio e della campagna. Il mio nome è rimbalzato sulla roccia e poi è precipitato giù nella valle. Nel fondo oscuro, di pietra e fango, nelle fosse nascoste dall’erba alta, fra i canneti piumati e il bosco.
La prima a vedermi fu mia madre. Le madri hanno occhi che sono mani. Sorreggono come braccia i loro sguardi. Fanno a pugni col mondo, sbarrano i passi ai cattivi pensieri e alle intenzioni dei malvagi.
Mia madre era un nome di sole nella campagna gialla di grano. È il nome della terra, del seme e del grembo, del cielo di giugno e della falce. È nome di tutte le madri.
Eppure a me, che strano, non seppe dare un nome. Perché per le madri siamo estensione del loro corpo, mai veramente staccati, noi figli. Kore, carusa,  occhio, pupilla, pelle e respiro. Ecco, quello ero io. Che se ne fanno di un nome le madri, quando noi siamo loro, in uno spazio e in un tempo futuro?
Mi chiamava tutto il giorno perché mi sapeva irrequieta, nell’età dei sogni annuvolati dei quindici anni, al colmo della scoperta del vivere. Il mio corpo adolescente sentiva salire dalla valle gli odori del mondo. E li seguiva. Ero tutta narici, e la mia pelle, tutta naso. Catturata in ogni atomo dall’orda selvatica di aromi che lambivano la nuda parete di pietra, dalla scala del tempio dove io e la madre vivevamo, ogni mattina fremevo per lanciarmi nella corsa. Scendevo a valle e giocavo a rincorrere quelle essenze: mi rivestivo di profumi, polvere di pollini e spore vegetali che si appiccicavano, umide e collose, sulle braccia bruciate dal sole. Mi rotolavo nell’erba con le compagne , riempivamo i canestri di fiori. Mia madre chiamava. Io rispondevo. Rispondevo sempre al suo richiamo. A lei bastava sussurrare il mio nome e subito le fronde degli alberi si gonfiavano di un vento con dentro la mia voce. E ritornavo.
Calpestavo gli steli teneri, cercando nei nidi la vita pulsante degli ultimi nati, il becco appuntito delle alzavole e quello degli aironi dalle ali di cenere, il piccolo cuore palpitante sotto le piume delle querule garzette d’acqua. Un giorno, mentre ero ubriaca di luce e di gioco, sentii un’altra voce. Non la conoscevo. Aveva il suono dell’ombra, con dentro il silenzio, il sonno di arche sepolte e i gemiti di tutta l’umanità passata. Ma questo lo avrei capito dopo. Che ne potevo sapere io? Quella voce fu così potente da sigillare le mie risposte dentro un muro di immobilità. E mi prese. Il dio della morte, il dio dei brividi che regala la sera quando si scioglie nel mare di pietra d’agosto, il dio che raccoglie ossa, le accumula e ne fa monumenti alle pretese di eternità degli stolti, il signore di un mondo rovesciato e gelido, era lì, a un passo da me.
All’inizio fu solo un vuoto di luce, senza un corpo. Poi l’ombra si fece parola. Ero scesa sulle rive del lago con le mie compagne. Corolle dall’afrore selvatico stordivano i sensi: gigli, asfodeli, crochi, viole, amaranti, giacinti. Era un fiorire di vita come su tombe fresche di sepoltura. Ma ancora, davvero, nulla sapevo. Fu un narciso dai petali teneri come pelle di bambino che rapì il mio sguardo. Da quello sguardo tutto nacque e tutto morì; lo specchio della natura si frantumò: dalle acque affiorò leggero e continuo un lamento quasi d’amore. Io non immaginavo cosa fosse il desiderio. Per me l’erba che solletica i talloni, il vento che accarezza la nuca, il velo fra i seni, il gioco, la danza dei giorni, la corsa del carretto sbilenco sul fianco della collina era tutta la vita che conoscevo. Quel mattino mi rivelò la notte, quel fiore d’insolente bellezza mi regalò alla morte. La mia immagine rimase impigliata fra i rami del giardino e la frescura del portico. E si ruppe. Il mio alito appannò tutti i vetri e gli specchi della casa. Passavo e sparivo facendomi buio. Tra me e lui fu prima, solo un incastro di parole, una schermaglia di suoni amplificati dal vuoto di stanze dagli altissimi tetti a volta. Lontano, nella campagna fiaccata del sole meridiano, sul cerchio di altopiani abitati dalle cicale gialle, si udirono colpi secchi e cadenzati rimbalzare su timpani di pelle di pecora. Fu il segnale. Risposero, ancora più lontano, nella vigna, cembali e sistri picchiati sul dorso delle testuggini centenarie. I crotali lignei infittirono i battiti nelle forre abitate dagli scorsoni acquatici, lunghi, neri e viscidi, con gli occhi a fessura, che guizzarono lesti fuori dal limo. La campagna tutta celebrava l’unione in forma di crimine, l’ora del crepuscolo gridava, con ululati misti a vagiti e a tintinnii d’argento e terrore. Non sono mai fuggita da lui. Cadevo inverginata e sacra fra le spire del dio. Prima che le sue braccia mi disfacessero i fianchi ci fu uno scambio di sguardi, quasi sorrisi, misti a rossore; non mi avvedevo della rete di inganni che avviluppava le caviglie, legava i polpacci, s’irramava fra inguine e femore, mi bloccava le anche, tendeva la trappola. Avrei compreso tutto dopo: mille volte avrei maledetto il suo nome, mille altre volte lo avrei sussurrato stupefatta al culmine di ogni piacere.
«Felice è il giorno che ti culla, ragazza.»
«Chi sei?»
«Ti dirò il mio nome, ma non adesso. Tu sei la ragazza dai capelli colore della spiga»
«Anche tu non sai darmi un nome?»
«Non ne hai bisogno, sei così bella.»
« Lasciami andare adesso. Abbiamo parlato già troppo. Mia madre mi chiama.»
« Dove vai? Tu, invece, non vuoi sapere chi sono?»
« Non ha importanza adesso. É veramente tardi. Il sole sta ultimando il suo giro.»
« Che il sole compia la sua corsa nel cielo. Anche lui mi è compagno. Non dovevi rispondermi. Adesso sei mia.»
«Che dici? Io sono la figlia del grano, del prato, della zolla. Lasciami, ho da raggiungere mia madre.»
«Tua madre sa che ciascuno di noi è di nessuno. Per questo ti tiene nascosta. Ho chiesto a tuo padre di farti mia sposa.»
«Mia madre non ha mai pronunciato il nome di mio padre. Lei mi ha sgravato nel cuore della roccia. Sono nata dal suo desiderio. Mio padre è un dio potente ma lontano. Tu racconti bugie per stordirmi e confondermi. Lasciami andare. »
«Ci sono segreti fra gli dei e gli umani che è bene non svelare. Non ti basta il mio amore? Ti dono un regno. »
«Chi sei? Hai nel volto una bellezza oscura che mi ricorda un sogno sognato mille anni fa. Lasciami. Non vedi che rabbrividisco al tocco della tua mano? Che vuoi fare? Dove mi porti?»
« Dove la luce muore e nasce il nulla, il migliore dei mondi sognati, il labirinto senza porte, dove non si sceglie nulla, perché tutto è già successo. Una meraviglia. La terra più popolosa e pacifica che esista. Mai nessuna rivoluzione dalle mie parti, Kore mia.»
Fu a quel punto che mi accorsi della trasformazione. Diventavo altro da me.
Il cuore fiorì in forma di mandorla nel petto. Si sbriciolò ed esalò profumo. Le mani si confusero con gli steli dei boccioli raccolti; il petalo raggrinzì, il gambo si intrecciò agli altri e rete si fece che mi strinse. La schiena si inarcò: era altura mossa di frumento che sprofondava nel solco delle sue braccia. Le mie labbra furono polle macchiate di un miele viscoso, gli occhi si sciolsero in pozze di acque remote, il seno si colorò di papaveri, la pancia si incavò come un cesto traboccante di grappoli sfiniti dal sole, mosto futuro e frizzante che inondava il mio velo di una cupa tinta violacea. Presa da lui, vivevo di tutte le vite possibili. Che mi succedeva? A che gli servivano le metamorfosi continue del mio corpo nel regno freddo e buio nel quale mi vedevo sprofondare dalla crepa netta, inferta dal suo passaggio? Lo supplicai di lasciarmi andare. Lui ancora oggi giura che dalla mia bocca, allora, non uscì alcun suono.
« Basta poco e tutto ciò che vive, cambia. » – mi disse. «Entrerai nel moto delle trasformazioni universali, ti farai luce oscura, l’irriducibile paradosso che regna nel mio mondo. Creatura che respira accolta nel porto salvifico della morte.»
« Che succede alla mia voce? Le parole si fanno soffio di vento, non arrivano più al cuore di mia madre. Perché? Lo stupro attraversa da parte a parte il cosmo e non rispetta nessuno: nemmeno una dea, progenie di dei. Gli uomini ti malediranno quando arriverai col tuo corteo di neri cavalli e il tuo corpo immenso e oscuro che ruba il fiato ai viventi»
« Ti ricrederai. Ti innamorerai dell’ombra. Non resistermi, ragazza. Non vedi che già sono pazzo d’amore per te? Adesso posso dirti chi sono: mi chiamo Ade, l’invisibile, il sempre temuto, l’amato e l’odiato, l’invocato»
Poi più nulla si udì.
Ritorno sui miei passi a ogni primavera. Il mio piede germina tempeste e nostalgie. Ricevo le carezze di Demetra come un malato di sanatorio beve la cura del sole da sotto le coltri sudate di male. Quando sono sotto terra penso a lei, quando ritorno sull’orizzonte curvo, ho voglia solo delle seduzioni malate del mio compagno. Mi manca il nostro letto d’ossa e cera rappresa di cripte, le sue seduzioni pigre e morbose, il suo sussurrarmi all’orecchio il mio nuovo nome di signora del labirinto estremo: Persefone, Persefone, oscura e splendente. Spietata. Giro dall’altro lato la faccia. Ho timore che mia madre legga nel mio sguardo ciò che penso. La guardo. É invecchiata, incredibile a dirsi: una dea che accoglie gli oltraggi del tempo. A lei non so come dire di acquietarsi. Da quando Ade ha accostato alle mie labbra il melograno tutto è cambiato. Lei si illude che io germogli, che io sia una storia da raccontare, quella del trionfo della vita sulla morte, la ciclicità che allontana la paura del nulla. Io non so dire chi sono. So solo che l’amore trasforma i persempre cui aspiriamo, in una notte senza inizio né fine. So adesso che l’amore ammala e squassa. Trafigge. Forse abbiamo il vizio di raccontare storie per paura che la morte ci anticipi e pronunci una verità che non accettiamo. Ma adesso non voglio pensarci. Lei mi abbraccia e sono felice. La amo. Beviamolo tutto il raggio di sole che ci accarezza e muore.
Domani ritornerò da lui.

Biografia

Elisa Di Dio è insegnante di Lettere nella scuola secondaria di Secondo grado, proviene da una famiglia di antica tradizione teatrale. Si occupa di teatro da tanti anni, come attrice, drammaturga, animatrice di laboratori rivolti soprattutto ai ragazzi e ai giovani. Ha fondato, nel 1988, La compagnia dell’Arpa insieme al fratello, la sorella e a degli amici. Sono attivi in tutta la Sicilia e sul territorio nazionale; hanno aderito alla Rete per la Drammaturgia contemporanea Latitudini, di cui è presidente il messinese  Gigi Spedale, rete che in questi giorni compie dieci anni e a cui fanno riferimento nomi significativi della Scena siciliana, da Mimmo Cuticchio a Lucia Sardo, da Turi Zinna a Tino Caspanello. Ha scritto un libro, Teatro al Centro, (Maurizio Vetri Editore ) che raccoglie i miei testi andati in scena nel corso dei nostri trent’anni di attività. Sono in procinto di pubblicarne un altro, destinato a un pubblico di adolescenti, sul tema del Mito e del Sacro, partendo proprio da Kore. Attualmente in scena con un testo di Lina Prosa, Didon now, oltre che con l’Orchestra Eco. Questo testo, in forma di partitura per voce, accompagnerà l’esecuzione del poema sinfonico composto dal Maestro Marco Monitto, con l’orchestra Eco, nei Teatri di Pietra siciliani, in questa estate 2021.

1 Comment
  • Corrado
    Posted at 16:24h, 13 Settembre Rispondi

    Un racconto bellissimo. Ricco di immagini e metafore, di suggestioni e di sofferte introspezioni che, magistralmente offerte al lettore, ne scandagliano l’esperienza fino a farne silenzioso compogno di viaggio. Grazie per questo breve ma intenso dono.

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