Artemide a Ponticelli

Artemide a Ponticelli

Di Marilena Lucente

Immagini tratte dai lavori di Gio Pistone dedicati al mito di Diana

 

E’ che certe volte la bellezza è una maledizione. Una cosa non voluta, non cercata, che fa di te quello che non vuoi, che non sei. Avevo tre anni. “Esprimi un desiderio…” – disse mio padre – “Per te prenderei anche la luna. La luna, risposi. E immaginai la mia vita nei boschi, lontano da qui. Le corse, l’aria della notte, la libertà sfrenata. Nessuno sguardo a farti prigioniera, nessuna pupilla che si allarga di desiderio. La libertà è una conquista”, aggiunse. “E io diventerò cacciatrice, promisi. E’ così vago il futuro e spesso succede di sorridergli con incoscienza. Gli animali mi piacciono troppo e stanno sempre con me. Non ho mantenuto quella promessa.  Però ai boschi ci ho pensato sempre e mi sono iscritta a Scienze naturali. Studio le piante, perché sono creature senza occhi e tra loro posso muovermi come voglio.
Il vestito giallo, adesso tu mi dici del mio vestito giallo. Troppo corto. Quel bordo rosso avrebbe dovuto essere più lungo. Ma che razza di assistente sociale sei? E lui come era vestito? Sai dirmi il colore della t shirt di Atteone? E i suoi Jeans, quanto erano attillati? Lo sai? Li hai visti? Già! I vestiti dei maschi non fanno la differenza. Sono i nostri che ci mettono addosso provocazione e pericolo.  Quel vestito giallo era il mio preferito, l’avevo comprato a saldi da Zara, una volta che eravamo andate in centro a Napoli. Quella era la sera giusta per indossarlo, la nostra sera. Mia e delle Oceanine. Insieme avevamo una band e ci incontravamo tre volte alla settimana, dopo lo studio, per inventare le nostre coreografie. Al parco avremmo provato il nostro ultimo numero, erano mesi che ci preparavamo per un talent. Quello che ci sarebbe stato il giorno dopo. E’ un rito: nessuno deve vederci prima del debutto: ci sono occhi come un destino. E io non ho mai voluto avere a che fare con il destino.

Chissà quante vengono qui a raccontarti di sguardi pesanti, che giudicano, imprigionano, condannano. Per questo con la band ce ne andiamo nei parchi di notte: il buio ci rende più coraggiose. Anche se qui il parco è così degradato che fa più paura di giorno. Attraversiamo in fretta la strada e entriamo per un passaggio che sappiamo solo noi. Abbiamo raggiunto la fontana, quelle che leggi sui giornali “riqualificata la zona orientale della città” solo perché hanno aggiustato un rubinetto. Ci sentivamo tutte Anita Ekberg, ridevamo di niente, ebbre della musica, di quello che sarebbe accaduto il giorno dopo, di noi, dell’esibizione. Anche se non è la fontana di Trevi, quella, credimi, è, era, la nostra dolce vita.
Forse lui, Atteone, si era perso, non era del quartiere. Era solo, un fatto strano, perché i maschi di qui girano tutti in branco come cani randagi. Ci vede, stupito, non capisce. Il suo sguardo, non voluto su di noi, sui vestiti bagnati, sulle gambe luccicanti di acqua.
Uno sguardo non lo puoi mai fermare a metà, ti raggiunge e basta.
Poi mi punta: Che culo... Che bel culo che hai! Ho fatto finta di non sentire come per avvertirlo: Se ti stati zitto è meglio. Lui continua. Vieni a prendere il pesciolino da questa fontana . Pensava di poter dire tutto perché era maschio, perché eravamo ragazze. E non smetteva: nennè, nce sta pure pe vuje, venite accà”. Sembrava fosse direttamente il suo sesso a parlare. Io lo so come sono quelle come voi”. Quando parlava in italiano impostato era pure peggio, voleva fare l’uomo: Ma a me piacciono le stronze, mi viene più duro”. Con la mano si accarezza tra le gambe. Gli occhi delle mie amiche svuotati dallo spavento, le mascelle rigide, il corpo immobile. Mi è andato il sangue alla testa. E lui ancora, cantava: “Che bello culo, che bello culo nce sta stasera pe mme…”.

Ho visto sul muretto le birre lasciate da qualcuno prima di noi. Ho preso una bottiglia e l’ho colpito. E’caduto, si è tagliato da qualche parte, in un niente la faccia si è riempita di sangue e polvere. Il resto lo sai. Gli amici che lo hanno raggiunto, loro sì ubriachi veri, strafatti di fumo e cazzate della sera, avevano già provato a dare fuoco a due barboni mezz’ora primanun c’è ddoje senza tre – dicevano armeggiando con gli accendini.  Non puoi immaginare lo strazio quando hanno capito che si trattava del loro amico. Lo hanno bruciato loro, dopo hanno chiamato il 118 e hanno fatto la denuncia contro ignoti. Poi sono arrivati i filmati delle fotocamere, ci siamo noi che scappiamo, l’hanno detto al telegiornale. Allora ho saputo che Atteone era un uagllione di sedici anni, nu muccusello.
Dai Carabinieri sono venuta per dire la mia, per proteggere le Oceanine. Il Capitano mi ha portato in questo centro antiviolenza, dice che tu sai capire se sono innocente, e mi puoi aiutare. A fare cosa? Omicidio colposo. Di questo sono accusata. Non avrei voluto colpirlo, sai? Fare del male a qualcuno richiede una certa intimità. E io con uno come quello non scambierei neanche un buongiorno in ascensore. Avete raccolto le denunce dei comparelli suoi e delle mie amiche. Le avete scritte, salvato in word, messo tutto nella stessa cartella. Parole, ancora parole. Io ho orrore delle parole. Le persone si vedono dai fatti. E io vedo tutto quello che c’è da vedere, come di notte la luna nuova, quando è alta sui condomini di Ponticelli.

Biografia

Marilena Lucente, insegnante di Materie Letterarie, ha traghettato il dottorato di ricerca in pedagogia
in saggi e testi narrativi dedicati al mondo della scuola. Ha pubblicato raccolte di raccon ti e scritture
drammaturgiche. Il dialogo con il mito è incominciato con la messa in scena del suo Di un Ulisse di
una Penelope, Mutamenti, Caserta, 2017; un viaggio in barca a vela a Itaca ha preceduto la
pubblicazione di Trilogie delle donne dell’acqua. Medea, Didone, Penelope, Animamundi Edizioni,
Otranto, 2019. Adesso è in cammino nella Terra delle Sirene

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