La ficcanaso zuccherina

La ficcanaso zuccherina

 

di Giusi Cracolici

Immagini di Stefania Onidi

 

Un delizioso odorino spinse la bimba, gran golosona, ad ignorare gli ammonimenti della sua cara mamma. Piedini calzati di bianco si diressero colpevoli verso la cucina.
La confettura di albicocche ribolliva in pentola, un clamore metallico riempiva la stanza, coperchi sobbalzavano assecondati dalla furia della mistura infuocata e il cuore batteva allo stesso, frenetico ritmo.

In fretta, in fretta!

Tanti bei vasetti, colmi fino all’orlo di un denso liquido ambrato, erano stati appena sigillati con cura, disposti lungo il davanzale sembravano tanti soldatini schierati in una muta e fiera disciplina.
La bambina rassicurò quella briciola di sé che restava ancora titubante, facendo più baccano di un concerto heavy metal: nessuno avrebbe mai scoperto una bazzecola come quella, un assaggino di ambrosia mandata in terra dagli dei!
Ecco che allungò la manina, pronta ad afferrare il più panciuto dei barattoli.
Il palmo era sudato per l’agitazione e il vasetto sdrucciolò dalla sua presa malferma.
Mille frammenti di vetro si dispersero tra le piastrelle del pavimento. Cullati da quel mare di nettare erano simili a delle barchette preziose, da custodire al sicuro nella più alta delle mensole!
La mamma accorse presto, sentendo lo schianto, e rimbrottò la piccola monella che aveva già divorato una fetta di crostata poco prima.
La ficcanaso zuccherina riparò subito nella sua cameretta, in lacrime.
Si sdraiò sul letto che profumava di fresco e, prima che potesse accorgersene, venne inghiottita dall’universo dei sogni.

C’era subbuglio intorno a lei, una festa inaudita. I fuochi di artificio delle sagre di paese che destavano la sua meraviglia, rapendole i sensi, non avrebbero potuto eguagliare neanche un millesimo dei giochi di colore che l’attorniavano in quel dove sconosciuto. Visi perfetti le sorridevano smaglianti, occhi curiosi la scrutavano e mani lisce più della seta le protendevano sontuosi regali. Fu a quel punto che capì.
L’Olimpo sorgeva sgargiante, i fiori che costellavano i sacri giardini venivano corteggiati da soavi cinguettii e ronzii laboriosi, la notte profonda era trapunta di stelle e tutto, da lassù, appariva straordinariamente mozzafiato per una comune mortale.
Zeus parlò, la voce potente leggermente ovattata dalla barba nivea.
Si rivolse a lei; la prima donna ad essere stata creata, la prima a cui fu concesso il privilegio di lasciarsi scottare la pelle dal sole e di respirare l’aria tremula, mentre la fluente chioma veniva carezzata dal vento.
Un vaso, ecco cosa le donò il dio delle saette.
Uno scrigno intarsiato e finemente decorato, di una bellezza disarmante, un tesoro che avrebbe dovuto portare con sé tra gli altri esseri umani. Chissà quali segreti celava, terribili verità che, a detta del padre del mondo, avrebbe dovuto tenere confinate lì dentro, evitando che fuggissero via.
Così fece per giorni. Il vaso, tuttavia, riusciva ad incatenare il suo sguardo per ore. Innumerevoli volte lo resse tra le mani, incerte sul da farsi, scuotendolo vicino alle orecchie, per stupirsi ripetutamente del fatto che non provenisse alcun rumore da quel pesante involucro di ceramica. Non un’ombra di suono.
Finché non si convinse che si trattasse di un semplice scherzo, un dispetto per darle il benvenuto nel regno dei vivi.
Il vaso era vuoto, doveva esserlo.
Silenzi di piuma erano le uniche risposte che riceveva quando vi batteva sopra, imperterrita.
Un dì la curiosità la arse da dentro, una fame di sapere che non credeva di possedere.
Le dita affusolate trafficarono un po’ con il singolare meccanismo che teneva il recipiente asserragliato, opera della sottile arte di Efesto.
Bastò soltanto aprirlo di uno spiffero.
Un vortice scuro, una nebbia sinistra, invase la casa della donna, catapultandosi poi verso l’esterno attraverso una finestra spalancata.
Quella coltre di tenebra contaminò il pianeta, rese l’esistenza degli uomini sempre più ardua, minata da diversi mali: la fame, l’invidia, l’avidità.
Spaventata, ma finalmente consapevole, la donna si affrettò a richiudere quel forziere del malaugurio.
Intrappolata sul fondo restava la speranza che, con un balzo scomposto, spiccò il volo al seguito della tempesta nera, squarciando quel buio pesto con un getto di luce verde smeraldo.

“Pandora, Pandora svegliati! Pigrona, devi andare a scuola”. La voce gentile della mamma la riportò alla realtà, eppure non riusciva a togliersi di dosso quella strana sensazione.

Come se lei, una bambina fra tante, avesse avuto in passato l’onere di ubbidire a qualcuno, a un dio. Ma la storia prese un’altra piega e lei non si limitò a seguire ciecamente gli ordini che le furono impartiti. Pandora voleva scoprire, conoscere. Ne aveva il diritto. Voleva scontrarsi col male per sconfiggerlo, voleva provare dolore per gioire pienamente e dare un senso alla sua contentezza e a quella di tutti i mortali.
Da alcuni considerata un male, la speranza ha comunque il merito di alimentare la fiducia nell’uomo, invitandolo ad affrontare le difficoltà seminate lungo il suo cammino.
La speranza è l’ultima a morire, no?
E Pandora, giovane donna, fu la prima a tramutare un apparente disastro nel segreto per raggiungere la libertà, toccarla con mano, stringerla tra le dita e le corde del cuore.
Ciò che si conosce non fa paura, vivere nell’incertezza accresce ogni angoscia.

Biografia

Ciao a tutti! Mi chiamo Giusi Cracolici, sono nata a Palermo nel 2004 e frequento il Liceo delle Scienze Umane.
Amo leggere, mi diletto buttando giù qualche riga, quando le idee si decidono a bussare alla porta della mente, e mi perdo ad osservare il sole scivolare dal cielo per tuffarsi nel mare, il che ha sempre il potere di portarmi lontano.
Non ho chissà quali sogni nel cassetto, vivo molto il presente e mi piace strappare un sorriso a chi è giù di morale, perché dona un’energia strabiliante . Sono costantemente divisa tra cuore e ragione, emozioni e logica. L’equilibrio tra le due parti è ciò che mi salva.

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