Gli uccelli esistono in volo

Gli uccelli esistono in volo

di Maria Teresa Rovitto

Immagini di Stefania Onidi

 

 

 

Devo scrivere una storia al posto di qualcun altro. Ho trovato un foglio bianco con dei ghirigori blu cobalto che girano ai margini, come una nota fuori posto o una svista di inchiostro, poi celata con una minuscola e vagante decorazione.
Saprei da dove cominciare, ma avrei bisogno di un prestito. Di parole.
Confesso che non sono libera di narrare quel che mi pare. Temo di non somigliare a nessuno: le parole che mi appartenevano sono forse cadute in disuso e non sento richiami. Al contrario, Belinda è sollecitata di continuo da fantasie e pensieri, passa nei corpi e li abita nello spazio breve della memoria.
Sto parlando della donna dalle forme morbide come il burro quando fa le onde. Si è mostrata disponibile a prestarmi un’intera espressione:

                                                       Non       c’è

                                                                                                                       tempo

Non ho il coraggio di accettare: non avrei pace al pensiero che lei perderebbe un’occasione. Belinda vanta una ricca collezione di frasi: non sa più se derivino da esperienze o da illusioni, ma le ripete all’infinito come se avesse un destino e potesse cambiarlo. Quando lei parla, tutto il mio corpo vibra come una foglia al vento e della mia solitudine non so più che farne.
È per questo che finora è entrata in più di mille vite. Quando succede, vuol dire che è stata una morte gloriosa.

…amar perdona,

Il suono di un verso spezzato mi riportò in vita per la prima volta. Mi ritrovai dalle parti di altipiani, su per le rocce attraversate da fiumi di neve che pulivano l’aria. Quella donna doveva somigliarmi: mi richiamò con la violenza delle prede.

I passaggi nei corpi viventi non sono semplici. Quel gioco di comunanza richiede intenzione e nella contiguità delle vite si tesse un’esistenza espansa.
Non basta usare le parole pronunciate chissà quando da uno di noi, è necessaria la stessa forza; come quella dei muli che decidono di immobilizzarsi diventando i padroni del tempo. Questo anche Belinda lo sa, ma ama giocare come se ci fossero ancora cose da imparare. Si diverte a mettermi in guardia esigendo rispetto, convinta di aver avuto nobili ascendenze. Io con discrezione annuisco, ma penso che non abbia le movenze di una figura reggente.
Non c’è vanità o vergogna nei nostri gesti e nella nostra andatura: non abbiamo ricordi. Se non dei nostri passaggi. È lì che apprendiamo fugacemente delle cose del mondo e nessuna biografia piega la nostra quiete.
I nostri piedi sono costantemente immersi in flussi di acque limpide dove, senza radici, crescono fiori turchini e bianchi nelle cui corolle ci piace nascondere il capo quando vogliamo il buio.
Le sfere dei mondi ondeggiano sopra e sotto di noi e gli uccelli sono le uniche creature che migrano da una parte all’altra.

Il giovane sposo non ne voleva sapere di lei persa nella danza dell’amore carnale che stordiva la tradizione, disconosceva il sangue e invitava in cerchio i demoni notturni.
La donna mi richiamò in lui alla ricerca del loro punto intermedio. Io in quell’uomo, somigliando alla sposa, ero chiamata a capire: per evitare che lei partisse con il suo diritto alla sopravvivenza e iniziasse a collezionare giorni rotti muovendosi ai margini.

Invocano sé stessi nell’altro queste creature fraterne.

Non sappiamo come tutto sia iniziato, non c’è in noi la stanchezza dei ricordi. Non rischiamo di annoiare qualcuno con i racconti delle nostre vite dal principio. Nessuna emozione si annida per sempre dentro di noi; esiste solo nella ripetizione.
Il volo degli uccelli da una sfera all’altra è un asse e solo in apparenza un filo di seta.

L’ultimo passaggio di Belinda cambiò il suo sguardo e da allora va cercando un mio parere sulla giustizia.
Fu richiamata da una lunga dichiarazione:

Non c’è niente di cui vergognarsi,

                                 se si riverisce chi è nato dalle stesse

viscere.

Si tormenta ancora nel tentativo di ricordare in quale occasione l’abbia pronunciata. Vedendo le sue condizioni penso che proprio questa sia un’ingiustizia: essere ancora volontà senza memoria. Raccontò di essersi ritrovata nel mezzo di un processo. L’aula ermeticamente chiusa aveva pareti zigrinate interrotte da vetri scuriti, la cui superficie veniva ammaccata dalla pioggia che fuori cadeva.  Quando uno dei presenti parlava non emetteva alcun suono: era l’immagine del suo volto a propagarsi sonoramente verso gli altri. La comunicazione così avveniva lentamente.
«I tre testimoni hanno dichiarato di averla vista scrivere quell’epitaffio. Cosa vuole dire in sua difesa?».
L’imputato congiunse le mani traslucide e nodose davanti a sé e iniziò a pregare.
«Era mio fratello».
«Sa bene che scrivere è vietato. Per gli epitaffi le pene sono raddoppiate. Non si lasciano tracce di sé, né tantomeno dei defunti».
Belinda doveva emettere una sentenza: era il giudice in un tempo in cui l’articolo uno di ogni codice proibiva la scrittura.
Come sempre, veniamo richiamati da un conflitto; quella volta aveva a sua disposizione calcoli matematici per risolverlo e una semplice operazione di sussunzione del caso in una fattispecie ben definita. Ma lei riusciva a sentire che la voce dell’imputato stonava con quell’ordine esatto al quale non si era abituato. Era stato lui a richiamarla: si somigliavano.
«Non c’è niente di cui vergognarsi, se si riverisce chi è nato dalle stesse viscere, signor giudice».
«La legge non giudica i sentimenti. La legge ha stabilito che non ci devono essere segni di cose, ma solo la realtà. Nessuno vuole essere ingannato qui. Lei?».
«Tutti costoro ammetterebbero di apprezzare quello che ho fatto se la paura non sigillasse la loro lingua».
Le tragedie erano ricordi di infanzia senza carta.

Si dice che quando non veniamo richiamati per lunghi periodi, quello è il tempo delle nuove parole. Tempo di grazia. Spreco per i padri che le avrebbero risparmiate attingendo alle voci del passato. Solo alcune delle parole dei figli si sarebbero sedimentate e sarebbero servite ai passaggi futuri. In un tempo in cui sarebbero stati loroi padri.
A volte sembra che gli uccelli sprechino il tempo volando, ma è solo così che ci accorgiamo di loro.  Io aspetto con il foglio in mano. Scrivo le vite degli altri dopo averle attraversate: è così che si è compiuto il miracolo di distrarci da noi stessi. Per ora non devo fare nulla, se non ascoltare. Essere morti significa anche questo.

Biografia

Ha conseguito un dottorato in Filosofia del diritto e ha curato diverse pubblicazioni accademiche nell’ambito degli studi di Diritto e Letteratura.
Ha fatto parte della redazione (prima versione) della rivista online Critica Letteraria. Un suo racconto è uscito sul numero 66 della rivista “Storie. All write – Leconte editore”. Ha collaborato alla drammaturgia di uno spettacolo teatrale liberamente tratto dall’opera dello scrittore sloveno Ivan Cankar, Il servo Jernej e il suo diritto, andato in scena al Napoli Teatro Festival del 2015.
Attualmente lavora nell’ambito della protezione internazionale.

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