RITORNO

Ritorno

di Marina Mongiovì

Immagini di Stefania Onidi

 

Una goccia in bilico, sull’orlo del rubinetto. Si allunga e cade giù. Risuona. Poi un’altra, e un’altra ancora. Uno sgocciolio che, istante dopo istante, diventa logorio. La goccia che scolpisce la roccia, l’acqua che si infiltra fino a raggiungere il cuore della terra, un ticchettio umido di orologio. Dopo il caffè, ho spento il telefono; con un giro di chiave ho chiuso la porta alle mie spalle. Lasciando il letto sfatto e oggetti rimorti. Quel suono d’acqua, invece, rimbomba fin dentro la tromba delle scale e accompagna il suono dei miei passi e le pulsazioni automatiche del petto. È un conto alla rovescia. È tempo di andare. Di lasciare il tempo misurato e sezionato; le ore dentro un elenco con le spunte a pallini; il brusio incessante; tutta questa gente che si affretta, che tribola. Per me è tempo di tornare alle radici, è tempo di immergersi laddove siamo stati generati.
L’acqua scava la roccia nera. Discende verso valle ma prima, tortuosa, si insinua e scroscia. Precipita. Ed io con lei. Un battito d’ali, tra le fronde ingiallite, e sul fiume si alternano i chiaroscuri. Il sole filtra tra i rami, canyon di rocce grigie creano ombre profonde. Questa terra è avida d’acqua che, qui, corre voluttuosa. E io con lei: voglio scendere, voglio sprofondare e poi riemergere limpida. Un’apnea che dalla montagna porta alla piana. Il fiume costeggia deserti di sassi e ciottoli. Alle pendici lo attende una distesa di agrumeti, ulivi e fichi d’india. Là, dove l’acqua scivola placida e sinuosa, disseta una terra arsa dal sole meridiano. Cicaleggio e gracidare si alternano al canto degli uccelli. Migrano, vengono da Sud. Hanno le piume sottili e candide, nel fiume trovano quel che cercano. Qui, in questa vallata, puoi sentire il vento e il mormorio delle foglie. Ogni tanto un pescatore, lo scampanellio di un gregge di pecore. Sulla provinciale passano trattori e autotreni e ci stanno le puttane, sedute su seggiole di plastica, che si portano gli ombrelli per proteggersi dal sole.
Il mare lo sento ancor prima di arrivare. In mezzo alle distese di sanguinelli e limoni, l’acqua è silenziosa, ha i riflessi verdi delle foglie che vibrano alla brezza del pomeriggio. Acqua che nutre, che accoglie, che nasconde. Acqua dolce che presto si farà salmastra per poi perdersi. E si perde in un abbraccio. È un rimescolio, un incontro, una scoperta.
Un aereo vola a bassa quota: un’ombra sulle increspature blu e il rombo dei motori. Passa sulla mia testa e si perde all’orizzonte. Ora l’acqua ha il suono dello sciabordio che ascoltano i marinai e le creature del mare. Il cielo è color pastello e la montagna, vista da qui, è una grande pietra nera. Ai suoi piedi, distese di favi in cemento, dove sciamano le vite degli uomini. E quel sottofondo di frizioni e freni; l’eco della terra ferma che non mi appartiene più. Il blu, profondo, sarà utero dentro cui guizzare. Come un fruscio d’ali, uno sguisciare di nervi e muscoli che, nell’acqua, troveranno nuova energia. Mi immergo. È bastato un attimo e non sono più nel mondo degli uomini. In acqua i miei capelli formano ombre sconosciute, sono leggera come un uccello in volo. È tutto così lontano, filtra l’ultima luce del giorno e ascolto le onde come da dentro una conchiglia. Il mio corpo si sta adattando agli abissi. Squame rilucono e proteggono la mia pelle, troppo fragile per l’immensità.

Biografia

Marina Mongiovì è originaria di Catania ma vive a Palermo. Ha la passione per la scrittura e la fotografia. Ha di recente pubblicato un racconto, con reportage fotografico,  apparso sulla rivista Cariddi della Rossomalpelo Edizioni di Catania.

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