Tacete, o maschi – Tappeti erranti della generazione poetica

Tacete, o maschi – Tappeti erranti della generazione poetica

di Bianca Battilocchi

Immagini di Simone Pellegrini

 

 

 

 

“Dicono, (come qualcuno oggi?) che devi stare a casa

anzi nell’orto (ti chiami Ortensia, dunque lì devi stare, a fare giardinaggio)

Che devi coltivare la salvia, il rosmarino – non il lauro o il mirto

e non devi pensare, – questo è il vero peccato –

ma stare con la mente intenta al tuo cucito.”

Antonella Anedda, Sonetto disubbidiente

 

 

Nell’anno che celebra i 700 anni dalla morte di Dante, con eventi a non finire, è più che legittimo ricordare anche chi invece nel canone italiano non compare, sbilanciando quest’ultimo con voci per lo più maschili. Lo si può fare grazie alla recente pubblicazione di un sorprendente volumetto per Argolibri (2020) intitolato Tacete, o maschi e dedicato all’incontro fra quattro poete del Trecento marchigiano con tre appartenenti alla nostra contemporaneità. Mariangela Gualtieri (1951) risponde con una lettera a Leonora della Genga (1360), Antonella Anedda (1955) scrive un sonetto a Ortensia di Guglielmo (1350 ca) e Franca Mancinelli (1981) realizza frammenti di immagini contenute nei sonetti di Livia da Chiavello (1380), Ortensia di Gugliemo e Elisabetta Trebbiani (1397).

“Il nostro obiettivo era quello di riproporre i testi di questo gruppo letterario sistematicamente escluso dalla nostra tradizione letteraria, composto di sole donne – e forse il più antico femminile ad oggi noto nella letteratura italiana – non solo riabilitandolo, ma permettendone una leggibilità diversa dalla lettura esclusivamente filologica, critica e accademica.” (p. 7)

Così commentano i due curatori della raccolta, Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, la loro operazione di recupero di una preziosa eredità ai più celata e la volontà di non farne un’opera per pochi ma aprirla anche ai non addetti ai lavori, e a chi, giustamente, vuole tracciare connessioni tra il nostro presente e il nostro passato per meglio comprenderlo e navigarlo:

“Più che mai oggi, infatti, una lettura “poetica”, ovvero trasversale e inventiva, intuitiva e politica (più che tecnico-scientifica), si richiede alla trasmissione del sapere poetico, il quale, discreto per natura, sta collassando sotto il peso dell’enorme quantità di linguaggi e possibilità di trasmissione. Un dialogo esclusivo e intimo tra poetesse diverse di epoche diverse circa una questione oggi fondamentale per l’intera società – la questione di genere – ci è parso così rispondere pienamente all’imperativo posto a titolo della presente raccolta. Dialogo tra epoche, tra scritture, e, appunto, tra generi.” ( P.7)

A introdurre questo materiale sono i ricercatori di scritture femminili Mercedes Arriaga Flórez (Università di Siviglia) e Daniele Cerrato (università Ateneum Gdansk) che offrono un utile contesto storico-bibliografico senza però prolungarsi in discorsi troppo tecnici e lasciando più libero spazio di investigazione al lettore.

“Le poetesse marchigiane vengono così a costituire il tassello mancante per completare il quadro letterario di questo secolo, rivelando la diffidenza femminile […] come una realtà già allora dotata di una propria espressione letteraria, in versi e in prosa, sia in ambito religioso che in quello laico.” (p. 14)

Aprono poi questo già ricco intreccio a nuovi stimoli, le opere di Simone Pellegrini (1972), realizzate su carta con tecnica mista (tra 2017 e 2020) e votati ad una fluida ricomposizione di anatomie di corpi, come a voler uscire da gabbie e stereotipi di genere; perché è di questo che si parla principalmente nei versi proposti. L’artista si immerge in uno stile che getta ponti sul passato, inteso come arcaico principio dell’umanità sulla terra, dove ancora percepire un senso di omogeneità tra figure umane, animali, vegetali.

Le scritture delle quattro poete, salvate dall’opera di cancellazione sistematica, si pongono originalmente a cospetto del contemporaneo Petrarca proponendo temi legati al sociale e alla politica e presentando figure più concrete di donne: non più in veste di angeli astratti (e comunque oggettificati), privi di desideri terreni, rancori e ambizioni, ma come persone in carne ed ossa, capaci di combattere, fare poesia alta e tutto ciò di cui l’uomo sosteneva essere l’unico detentore. Si leggano, al proposito, tre versi da Leonora della Genga (p. 23):

“Sanno le donne maneggiar le spade,

Sanno regger gl’Imperi, e sanno ancora

Trovar il cammin dritto in Elicona”

Le pagine di Tacete, o maschi ripropongono inoltre testimonianze di un dialogo tra le poete marchigiane che, come dimostrano Arriaga Flórez e Cerrato, si conoscevano, erano legate da amicizia e affinità culturali e si incoraggiavano a vicenda proprio mediante l’uso di sonetti per affermare il valore letterario e politico della loro opera. Parte di questa corrispondenza è anche il sonetto in dedica al Petrarca di Ortensia di Guglielmo che al sommo poeta si rivolge affermando le proprie aspirazioni (p. 35):

“Io vorrei pur drizzar queste mie piume

Colà, signor, dove il desio m’invita;

E dopo morte rimanere in vita.

Co’l chiaro di virtute inclito lume.”

Donne coraggiose, consapevoli delle proprie capacità e pronte a sfidare la società del tempo per rivendicare il diritto di uguaglianza nell’ambito culturale così come politico.
A questo ricalibrare gli aghi della bilancia tra uomo e donna, si unisce la visione di Gualtieri che abbraccia e completa le parole di della Genga portando questa conversazione (quasi fuori dal tempo) sul concetto di “energia femminile” (p. 29):

“Ti parlo di energia femminile, di quella forza

che genera, che partorisce, non solo figli

ma opere, pensieri, avventure, che protegge,

che ha cura, che è in dialogo con

tutto il resto, che sa che tutto il resto

ci tiene in vita.”

In sintonia con le figure in morbida contaminazione tra generi di Pellegrini, questi dialoghi tra tempi differenti – ma per certi versi molto simili – generano nel movimento continuo uno spazio nuovo, una ‘seconda nascita’ direbbe la Arendt della Vita activa, che fa tabula rasa delle categorie prima usate, dei tabù, dei preconcetti, per ripartire da capo e creare un discorso concertato in maniera più inclusiva e mai definita una volta per tutte; poiché il dialogo deve continuare in una sorta di lingua materna proteiforme, che è corpo e pensiero insieme, desiderio, creazione permanente. “I gesti ricompongono una lingua/ si allaccia al mio corpo un’armatura” scrive Franca Mancinelli (p. 55): la parola è gesto, è corpo, materia intima che si traduce all’esterno mutandolo. Non avvertire questi segni lasciati dalla poesia significa ignorare dinamiche che danno un senso alle nostre esistenze.

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