Troverai più nei boschi

 

Troverai più nei boschi

Dialogo con Francesco Boer

a cura di Ivana Margarese

 

 

Troverai più nei boschi (Il Saggiatore, 2021) è un libro che parla di simbologia della natura, scritto da Francesco Boer.
Esploratore, alchimista e scrittore, Boer guida il lettore attraverso un percorso narrativo capace di intrecciare il rigore dell’osservazione con la meraviglia dell’immaginazione. Il bosco diviene sentiero fisico e interiore di sguardo e ascolto del nostro essere in relazione.
Abbiamo dialogato assieme per approfondire alcuni argomenti presenti nel suo testo e muoverci fuori dal quadro guardando il paesaggio da angolazioni diverse, senza fretta di arrivare al chiuso di dogmi e certezze: “ è in prima persona che si scopre il lungo e tortuoso cammino di cui ci mostrano l’inizio. E’ una scuola più libera, e proprio per questo difficile, perché ciò comporta la responsabilità dei propri passi.

Il titolo del tuo libro riprende un celebre detto di Bernardo di Chiaravalle: «Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà». Non solo la storia, come affermava Cicerone, ma anche la natura dunque può essere Magistra Vitae, che da Rousseau alle esperienze delle scuole nel bosco testimonia l’importanza dell’autonomia e della creatività nell’apprendimento.

Rispetto all’insegnamento tradizionale, la natura – e similmente, anche la storia – offrono una difficoltà aggiuntiva, che al tempo stesso è una marcia in più. Non ci impartiscono una lezione già pronta, non impongono nozioni e morali preconfezionate. Se ci aspettiamo di imparare passivamente da simili “maestri muti”, siamo fuori strada. Non elargiscono risposte, ma al contrario suscitano domande, incessantemente. Sta a noi reagire ai loro stimoli, è in prima persona che si scopre il lungo e tortuoso cammino di cui ci mostrano l’inizio. E’ una scuola più libera, e proprio per questo difficile, perché ciò comporta la responsabilità dei propri passi. Ma non potrei mai scambiarla per una strada asfaltata di dogmi e certezze.

Nel testo compare più volte il termine “immaginazione” e un richiamo alle sue potenzialità. È un argomento che mi sta molto a cuore e vorrei chiederti una riflessione in merito.

Uso questo termine sulla scia di come l’hanno inteso ricercatori dello spirito quali William Blake, Carl Gustav Jung o Henry Corbin. Non come mero sinonimo di “fantasia”, come un gioco della mente, fine a sé stesso, buono solo per perdere tempo, o per evadere in maniera effimera dalla spiacevolezza del reale. L’immaginazione, al contrario, è un vero e proprio senso dell’anima, un mezzo per esplorare la realtà che ci circonda, oltre la sottile patina delle apparenze. E’ una strada che ricollega il mondo lì fuori a quell’universo interiore che ognuno di noi conserva in L’immaginazione è conoscenza, ma anche creatività. Serve a esplorare il senso del mondo, ma non è una ricezione passiva, quanto un dialogo, uno scambio fra realtà e mente. L’essere umano non è un’isola chiusa in sé stessa, non assorbe nozioni dall’esterno per poi tenerle imprigionate in sé. Dall’anima, l’immaginazione si riversa sulla realtà, formando un circolo di trasformazione reciproca fra queste due metà dell’esistenza.
Questo circolo, si intende, può diventare vizioso, e purtroppo è questo il segno prevalente negli ultimi secoli, riguardo il rapporto fra uomo e ambiente. Ma non per questo bisogna prenderne le distanze, anzi, è proprio su questo fulcro che bisogna agire, che occorre impegnarsi per sanare questa relazione.

La farfalla è un simbolo dai molteplici significati. La sensibilità popolare ne ha fatto un simbolo dellanima immortale o della capacità di metamorfosi; al contempo è tuttavia anche limmagine di chi non sa decidere, di chi vola di fiore in fiore, senza una volontà precisa, senza un progetto, guidata solo dal fascino immediato. Nell’ambito della storia delle immagini viene associata alla ninfa o comunque a una bellezza fugace, destinata velocemente a corrompersi. Non è forse un caso che  l’autore di Lolita (1955) avesse una vera e propria passione per le farfalle. È indubbio infine che quando cerchiamo di catturare una farfalla, rischiamo di rovinarla, di sgualcirne le ali, di ferirne il volo.

La conoscenza è un atto d’amore, ma anche di distruzione. La mente scompone la realtà, la seziona in minuscole porzioni di osservazioni, dati, misurazioni, che poi riordina in categorie del pensiero. Così si riduce una complessità vivente, che di fatto non sarebbe comprensibile nella sua interezza, a una struttura concettuale fissa e astratta. Una tassidermia del pensiero, se vogliamo. Che nella pratica, si traduce poi in una effettiva scomposizione del vivente, a scopo di studio: un fiore viene sezionato per osservarne i componenti, magari per studiarne l’ovario, o gli stami; oppure viene seccato in un erbario, per studi futuri. In maniera simile, gli insetti vengono spillati nelle collezioni museali, per fornire una base di dati e di comparazione tassonomica.
E’ vero che la vita è fugacità, è fatta di attimi irripetibili, mentre la scienza sperimentale si basa sulla ripetibilità delle osservazioni: c’è in questo un’incompatibilità di base fra le due, che è stata comunque riconosciuta e affrontata in passato da diversi scienziati e pensatori.
Con ciò non voglio dire che l’approccio scientifico non possa avvicinarsi al mistero della vita, né che sia di per sé dannoso nei suoi confronti. Al contrario, è un passo necessario, seppur a volte doloroso, per comprendere il mondo in cui viviamo, e il mondo che noi stessi siamo. Ma a questo, secondo me, va affiancato l’approccio empatico del simbolo: una partecipazione emotiva ed estetica, quasi un’immedesimazione che abolisce per un attimo il confine fra il soggetto e l’oggetto dell’osservazione.

Sottolinei a più riprese l’arroganza e l’ossessione produttiva degli uomini, spesso lontana da un’estetica e da un’etica della partecipazione e a un certo punto del  scrivi:

“Danno ecologico e bruttezza spesso vanno a braccetto. Il mostro grigio non è solo un duro giogo sul fiume, ma è anche un ripugnante sfregio sul volto delle montagne. Lestetica può sembrare un problema di secondo piano, di fronte allaspetto ambientale, ma si tratta in realtà di un sintomo dello stesso male profondo: uno squilibrio nellanima umana, che si trasmette in ondate devastanti sul mondo che ci circonda”.

Quale rapporto esiste tra bellezza e rispetto dell’ambiente?

Bruttezza e devastazione sono correlate. Non si tratta di un rapporto causale, quanto di una sincronicità di ordine simbolico. Ma gli effetti di questa connessione sono palesi, sono sotto i nostri occhi.
È il circolo vizioso, a cui accennavo prima. Unumanità dal cuore malato riversa il proprio squilibrio sull’ambiente in cui vive. Non si potrebbe spiegare altrimenti la furia dissennata che ci spinge a radere al suolo foreste, a edificare in maniera incessante, ad avvelenare le acque. È il segno di una potente e irrisolta pulsione autodistruttiva, che dal cuore umano tracima e inonda di grigio l’ambiente. Ma vale anche il rapporto l’inverso: un bimbo che nasce e cresce in una periferia di cemento, respirando i fiumi tossici di una ferriera, come potrà sperare di non alimentare dentro di sé questo stesso demone parassitico e demolitore? La devastazione rovina la bellezza, la bruttezza inquina l’anima, e nuovamente l’anima intossicata torna ad accanirsi su di sé e sul mondo, scagliandosi ciecamente ma chirurgicamente contro la meraviglia della vita. In tutto questo, la bellezza passa in secondo piano, come se fosse un vezzo per poeti e sognatori, come se non fosse realmente importante. Secondo me, invece, è proprio lì la chiave di volta che può ribaltare questa spirale. Spesso, per proteggere un ambiente, o una specie a rischio, si ricorre a studi che ne evidenziano l’utilità, il ruolo ecologico, le ricadute sulla salute umana. Tratti importantissimi, certo. A mio avviso, però, non bisognerebbe vergognarsi anche di voler semplicemente preservare la natura anche semplicemente perché è bella. Voglio che questo prato rimanga così com’è, invece di diventare una nuova villetta a schiera: perché è un luogo incantevole, perché ci giocavo da piccolo e mi ricorda gli anni dell’infanzia, o perché è qui che vengo a passeggiare per rilassarmi. O ancora, voglio che il fiordaliso non scompaia dai campi di grano, sotto il bombardamento dei diserbanti selettivi: non solo perché serve agli insetti impollinatori, ma semplicemente perché il suo colore è una poesia inestimabile. La bellezza non è un lusso per gente viziata, ma una primaria necessità, ed è ora di rivalutarne l’importanza nella nostra vita: ne gioverà anche il rapporto fra la civiltà e l’ambiente.

“E noi umani, questa paura, labbiamo interiorizzata. Non c’è gioia della vita che non susciti nel nostro animo unombra. Senso di colpa, paura, rimorso. La farfalla di certo non prova queste emozioni, mentre si avvicina al fiore. Ma noi, quando osserviamo la crudele caccia del ragno granchio, non possiamo fare a meno di soffrire al posto dellignara vittima”. La paura è un tema sul quale non ci si dovrebbe mai stancare di riflettere perché l’osservazione e il riconoscimento di questa emozione sono necessari alla capacità di trasformarci e generare qualcosa di nuovo.


Si è troppo sbrigativi, a volte, nel liquidare una sensazione come se fosse un semplice errore. È necessario riconoscerle, se serve bisogna pure affrontarle: capire se distorcono il nostro modo di essere, di percepire e di pensare, o se sono la risposta concreta a una situazione effettiva, reale e diffusa. Negare l’esistenza e l’importanza di certi nodi dell’anima, a mio avviso, è una reazione troppo facile. È quasi una via di fuga dalle proprie responsabilità di esseri umani. Lo stesso vale per il senso di colpa, ombra che a volte ci assale quando incontriamo lo splendore della natura vivente. Spesso viene derubricato con faciloneria: “è solo una struttura culturale”, oppure “è solamente una convenzione sociale”, – come se la cultura e la società fossero cose di poco conto, e non aspetti fondamentali, tratti che costituiscono la nostra essenza, che lo vogliamo o no. Il confronto con l’ambiente può suscitare in noi certe emozioni oscure, evoca blocchi e ritrosie: possiamo rispondere chiudendo gli occhi di fronte a queste spinose realtà dell’anima, o cogliere l’occasione per riflessioni che scavano più in profondità nel nostro cuore.

Il fiume è anche un confine, una soglia. La parola «rivale» nasce proprio dal latino rivus, che significa ruscello. Colui che sta sullaltra riva: un nemico, un alter ego, il riflesso della nostra ombra. La riva opposta, dici, è anche laldilà, il mondo dei morti. Il lato in ombra della valle, un regno parallelo e simmetrico al nostro. E tuttavia non è laltra riva a spaventarci, ma il guado stesso.

Attraversare significa confrontarsi, aprirsi all’altroa volte anche scontrarsi, con un mondo che è radicalmente diverso dal nostro. Questo contatto mette in discussione le nostre certezze, il modello ideale che credevamo fosse la nostra essenza, e che invece rischia di dimostrarsi un’illusione. Il dubbio si fa strada, le fondamenta su cui abbiamo costruito per una vita intera si dimostrano non così sicure.
Quello con l’altra riva è l’incontro che per eccellenza evoca paura, perché demolisce una falsa sicurezza, e prospetta la fatica di una lunga e continua ricostruzione di sé. È per questo che tanti si rifiutano di avventurarsi in questa terra incognita, e anzi pur di non affrontarla si prefiggono di distruggerla, o persino di negarne l’esistenza. Una chiusura sterile, un archetipo meschino che si riverbera in diversi piani: nel rapporto fra i popoli, nelle realtà sociali e in quelle spirituali, e perfino nel confronto fra la civiltà e la natura.

Parlando degli alberi fai riferimento alla questione della singolarità e al contempo della fratellanza.

I rami di un albero sono tantissimi, spinti verso il cielo in ogni direzione. Lo stesso vale per le radici, che affondano la loro fitta rete nel terreno. Il tronco a cui entrambi sono legati, tuttavia, è unico. In questo segno mi piace cogliere la speranza di poter risolvere l’annoso dissidio fra individuo e società, fra libertà e bene comune, e ancora fra l’unicità di ciascuno e il senso di appartenenza a un gruppo. Essere legati allo stesso tronco non nega l’importanza dei singoli rami, delle radici anche più fini, delle foglie. Allo stesso modo, l’unità che rinsalda una comunità non deve per forza essere uniformità, omologazione che schiaccia le diversità individuali; ma può essere una fratellanza, il senso di appartenere a una grande rete vivente. E questo non vale solo nelle comunità umane, ma si può esprimere anche e soprattutto nei nostri rapporti con la natura.
Tornando all’analogia alberi, lo stesso vale a un livello superiore: ogni albero è una forma di vita autonoma, eppure è anche intrecciato alla grande rete di relazioni che è il bosco. La foresta diventa così una sorta di super-organismo, una grande realtà vivente composta dalle specie vegetali e dagli animali che vi abitano, dal suolo, dal microclima, da funghi e insetti, e tanto altro ancora. Una grande unità, composta da una molteplicità. Un simbolo – per tornare alla massima di Bernardo di Chiaravalle che oggi più che mai ha molto da insegnarci.

No Comments

Post A Comment