Diana al bagno

 

Diana al bagno

 

di Ivana Margarese

Immagine in copertina di Nico Vigenti

 

Ma il decreto è questo

delle leggi di Crono: chiunque scorga

uno degli immortali, quando il dio

non lo sceglie di persona, a grande prezzo

paghi il vederlo.

  Callimaco, Inni

 

Dal gorgo tranquillo

la najade un riso gorgoglia,

e sembra una rana che voglia

dir cose da fremere al grillo,

al grillo, che da lontana

le driadi sparse diletta,

ed uggia la bianca Dïana

che nuda tra gli alberi aspetta

Giovanni Pascoli

 

Artemide, Diana nell’Antica Roma, nell’Iliade è chiamata Pòtnia theron, “Signora degli animali”, ed è incarnazione della natura nutritiva e distruttrice. Nell’Odissea viene nominata da Omero come figura di paragone per delineare il profilo della vergine Nausicaa:

“Come Artemide saettatrice va su per i monti, o per il Taigeto dal lungo crinale o per l’Erimanto, godendo dei cinghiali o delle cervi veloci e insieme con lei giocano le Ninfe abitatrici dei campi, figlie di Zeus egìoco – ne gioisce Latona nel cuore – e lei tutte sopravanza con il capo e la fronte, e ben si distingue e tutte son belle; così lei fra le ancelle spiccava, la vergine intatta”. 

Artemide, dea sfuggente della natura selvaggia, come tutti gli dei è una divinità ambigua, signora degli animali e della caccia, vergine e dea del parto: invocata nei momenti di più acuto dolore, ricopre il compito di assistere le gestanti e recar loro conforto. Col tempo fu identificata anche come dea della luna.

Gli episodi mitici, incentrati sulla sua figura, manifestano il divino nella forma naturale e corporea, la cui essenza non si lascia captare dalla ragione umana. E proprio a questo aspetto si lega la celebre vicenda di Diana e di Atteone, della quale esistono differenti versioni.
Secondo Euripide, il cacciatore venne condannato a morte per hybris: si era vantato di essere superiore alla dea Artemide nell’arte della caccia.
A questa tradizione arcaico-classica fa riferimento una metopa del V sec. a.C. del frontone proveniente dal tempio dorico di Selinunte, conservata al Museo Archeologico di Palermo, che rappresenta Artemide accanto a Atteone, che lotta per difendersi dai suoi stessi cani. La dea appare imperturbabile in contrasto con il movimento dell’uomo che cerca di liberarsi dall’assalto dei suoi animali. Il tempo immobile e eterno degli dei abita accanto al tragico divenire della condizione umana.

Nella variante del mito narrata dal poeta Callimaco negli Inni, e da Ovidio nelle Metamorfosi,  riecheggia con più forza il valore iniziatico dell’incontro tra divini e mortali nel racconto della punizione di Atteone che sorprende Artemide mentre fa il bagno. Questa versione ha goduto di una grande fortuna e si è tramandata attraverso l’arte e la letteratura del Medioevo e del Rinascimento, dove lo ritroviamo in veste allegorica. Petrarca, nei suoi Rerum vulgarium fragmenta, la riprende accentuando il verso melanconico: travolto dal fascino della donna amata, il poeta, identificato con il cacciatore Atteone, viene rapito e spiritualmente trasformato:

I’ seguì tanto avanti il mio desire / ch’un dì cacciando sì com’io solea / mi mossi; e quella fera bella e cruda / in una fonte ignuda / si stava, quando ‘l sol più forte ardea. / Io, perché d’altra vista non m’appago, / stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna; / e per farne vendetta, o per celarse, / l’acqua nel viso co le man’ mi sparse. / Vero dirò (forse e’ parrà menzogna) / ch’i’ sentì’ trarmi de la propria imago, / et in un cervo solitario et vago / di selva in selva ratto mi trasformo: / et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo.

La dea nuda davanti all’uomo cervo.
Teofania che riguarda non soltanto ciò che viene svelato ma anche quell’impulso perturbante che spinge a andare oltre le serene certezze.
La dea, sorpresa al bagno, si difende dallo sguardo e dal desiderio mortali gettando dell’acqua addosso al cacciatore che lo trasforma in un cervo che di lì a poco sarà dilaniato dai suoi stessi cani.
Il mito è un mito della distanza. Il gesto di Diana è tra i due l’unico contatto.
Questa vicinanza tramite l’acqua tuttavia è un gesto battesimale che non accoglie Atteone in una comunità di fedeli, ma al contrario lo lascia solo, non riconosciuto nemmeno dai suoi cani.
Diana è una divinità casta e seducente, prorompente e al contempo letale. Questa duplice natura è riconosciuta anche dalla presenza di alcune fonti che legano il mito di Diana/Artemide a quello della sposa di Ade: Persefone. Oltre alla versione omerica che la vuole nata insieme a Apollo a Delo, da Latona e Zeus, ve ne sono anche altre che la vedono sorella di Persefone o la identificano con Persefone stessa, indicandola anche come madre di Eros.
Giordano Bruno riprende questa tradizione, nel suo Degli Eroici Furori,  facendo di Atteone l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprensione della beltà divina. Secondo Bruno, la tensione verso la conoscenza conduce l’uomo a procedere oltre le aporie e le ombre anche a costo della trasformazione e della morte:

I’ allargo i miei pensieri

Ad alta preda, ed essi a me rivolti

Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.

Bruno, sviluppando il proprio discorso filosofico tramite l’allegoria del mito di Diana e Atteone, accentua ancora di più sia l’elemento spirituale, in quanto si tratta del rapporto tra divino e umano, sia quello corporale e quasi erotico, appartenente a Diana-Artemide, nonostante la sua verginità. Fra l’uomo e Dio c’è una sproporzione profonda; l’uomo sta all’ombra di colui che “desidera” vedere, ovvero la Divina Beltà. Il cammino che il filosofo intende percorrere è impersonato da Atteone, il quale da predatore diventa preda, da “gran cacciator dovenne caccia”, fino ad essere compreso dalla “universale intelligenza”.
Bruno afferma che la nostra mente è, come “gli occhi degli uccelli notturni al sole”, offuscata da un velo che non ci permette di vedere la verità.
Agli uomini è possibile scrutare l’ombra e le vesti di Diana, poiché siamo esseri mortali e viviamo in una grotta dalla luce opaca.
Vedere Diana nuda significa contemplare la luce del mondo superiore.
Bruno afferma: “i filosofi sono gli occhi della società”. Lontano dall’essere considerata una punizione, la sorte di Atteone è dunque percepita dal filosofo  come un’ascesa dell’uomo verso il divino.
Questa alternanza fra luce e ombra è protagonista del dipinto del 1560 circa, realizzato da un pittore a lui contemporaneo, Paolo Caliari, detto il Veronese: Atteone è infatti posto in ombra, come a sottolinearne la condizione tragica e Diana, al contrario, è rappresentata in piena luce, segno della sua ieraticità e natura divina. I due sembrano quasi accennare una danza attraverso i gesti delle braccia e delle mani, esiste tra loro una intimità accennata e a distanza.

Nel Settecento è Giambattista Vico a riprendere questo mito nella Scienza Nuova facendo di Atteone l’espressione stessa del desiderio umano di andare al di là dei propri limiti:

d’Atteone, il quale, veduta Diana ignuda (la fontana viva), dalla dea spruzzato d’acqua (per dire che la dea gli gittò sopra il suo grande spavento), divenne cervo (lo più timido degli animali) e fu sbranato dai propri cani (da’ rimorsi della propria coscienza per la religion violata).

Pierre Klossowski dedica a questa epifania paradossale del divino un breve saggio intitolato Le bain de Diane, edito nel 1956:

Vorrei parlarvi di Diana e Atteone: due nomi che evocano, nella mente del lettore, poche o molte cose: una situazione, delle posture, delle forme, il soggetto di un quadro, ormai quasi solo leggendario, poiché l’immagine e il racconto, divulgati dalle enciclopedie, hanno ridotto alla semplice visione di un gruppo di donne sorprese al bagno da un intruso questi due nomi, il primo dei quali è solo uno tra i mille con cui la divinità fu conosciuta da un’umanità scomparsa (…) Se il lettore non è del tutto privo di memoria, e di ricordi trasmessi da altri ricordi, questi due nomi possono improvvisamente rifulgere come un’esplosione di splendori e di emozioni.

Affascinato dal mistero di questo mito Klossowski si interroga sul suo senso riposto: Atteone è il primo dei veggenti, in quella sua illusoria speranza che ciò che inafferrabile si lasci cogliere. Egli, al pari di ogni iniziato, non riesce a credere alla verità di una divinità semplice: come può Diana essere protettrice delle partorienti e mantenersi casta e inaccessibile?  Atteone sa che i cani abbaiano alla luna. La cinegetica si eleva fino alla trascendenza e l’astro lunare “acconsente in tutta umiltà a discendere al livello del Cane che, dal canto suo, attinge la sublimità degli astri”.

Klossowski sottolinea la desiderabilità misteriosa e raffinata di Diana che al contrario di Afrodite che sorge madida dalle acque per offrirsi agli sguardi dei mortali, si rivela e al contempo ferisce chi la guarda:

Ma quanto valgono le certezze di Afrodite, a petto dell’amarezza in cui ci lascia Artemide immersa nelle acque?

Diana è volubile come tutte le dee. Avrebbe potuto scegliere altre forme visibili per terrorizzare Atteone e tenerlo a distanza. Avrebbe potuto mostrarsi per esempio con le sembianze di orsa e non di donna, invece si insinua in lei la smania di essere vista, una smania contro cui subito lei stessa combatte. È possibile immaginare che il desiderio, la tensione di una impossibile vicinanza abbia unito la dea al mortale?
Tra i due accade qualcosa che non può essere detto: «E adesso che mi hai vista senza veli, raccontalo in giro – Se ti riesce, fallo pure!» («Nunc tibi me posito visam velamine narres, / si poteris narrare, licet»).
Scrive Maria Zambrano in Chiari del bosco (il bosco è sempre stato anche un luogo di passaggio verso un altrove) che “la voce del destino si ode molto di più di quanto non si veda la sua figura”. In quest’opera la filosofa spagnola dedica alcune pagine alla dea Artemide, la Luna, “sorella divergente di Apollo” la quale rispecchia la smania di essere amata “fino all’alienazione, fino all’assorbimento, fino all’estasi”, indecisa tra l’occultamento di sé e la ribellione verso l’occultamento, tra il pudore e il desiderio di attrarre a spese dell’essere che la guarda:

E la vista che i chiari del bosco offrono, sembrano promettere, più che una visione nuova, un mezzo di visibilità in cui l’immagine sia reale e il pensiero e il sentire si identifichino (…) una visibilità nuova, luogo di conoscenza e di vita senza distinzione.

Il mito dell’incontro proibito tra Diana e Atteone non smette di affascinare perché su molteplici piani racconta una storia che potremmo conoscere, un gioco di accostamenti, distanze e trasformazioni. Diana è l’oggetto d’amore interdetto, raggiungibile forse solo a costo di una metamorfosi con cui si smette di guardare idee, maschere e simulacri e ci si schiude a nuove forme di esperienza. Si potrebbe parlare di esperienza del sacro in termini di illuminazione, di riti di possessione – in cui il soggetto è permeabile, multidimensionale, se non del tutto illusorio – e di rinuncia all’attaccamento alle forme. Nei culti dionisiaci peraltro  uomini e animali sono inclusi nel medesimo orizzonte naturale e sacro: Mi trovo dove non sono, come un’ombra che mi permette di vedermi dove sono assente. Scrive Pierre Klossowski:

Non dovrei essere qui, per questo sono qui. Ma l’esperienza reale si ridurrebbe all’assurda proposizione: dovevo esserci perché non dovevo esserci.

Viene in mente la testimonianza di Rimbaud, poeta visionario dell’’ “Io è un altro”, in Una stagione in inferno:

Sono fuggito […]. Ho invocato i carnefici per addentare, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato i flagelli per asfissiarmi nella sabbia, nel sangue. Il malanno è stato il mio dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E alla follia ho giocato qualche brutto tiro. La primavera mi ha portato il riso atroce dell’idiota.

Anche il visionario naufrago de L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares abita un’isola in cui è insieme presente e assente dal luogo in cui si trova e infine per seguire la fantasmatica Faustine, di cui si è innamorato, e contemplarne l’immagine per sempre sceglie di morire e riunirsi a lei “in una visione che nessuno raccoglierà”:

All’uomo che, basandosi su questa relazione, inventerà una macchina capace di riunire le presenze disgregate, rivolgerò una supplica. Cerchi Faustine e me, mi faccia entrare nel paradiso della coscienza di Faustine. Sarà un atto pietoso.

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