Il cuore del fuoco

Il cuore del fuoco


di Giorgio Galli

 

 

Fu perché Eracle aveva paura di morire che ci trovammo in quella situazione. Quando aveva indossato quell’abito, all’inizio non aveva sentito nulla. Si era allontanato da casa provando nient’altro che un leggero prurito. Ma poi il prurito era cresciuto, era diventato insopportabile; poi era subentrato il bruciore, e al bruciore il dolore. L’abito non gli si staccava più di dosso, si era incollato alla pelle, era diventato parte della pelle.
Dejanira non sapeva nulla. Non fu colpa sua. Nesso l’aveva ingannata. Le aveva detto, in punto di morte, che l’abito intinto nel suo sangue avrebbe ricondotto Eracle a lei se si fosse innamorato di un’altra. Non poteva non fidarsi della parola di un centauro detta in punto di morte. Non poteva credere che quel sangue fosse avvelenato.  No, signori, quella donna non fu colpevole. Eracle fu la causa di tutto.
Non voleva davvero morire. Per prima cosa chiese a me di ucciderlo con la spada. Rifiutai. Chiese allora a Eurinoo, che rifiutò a sua volta. Voi dite che fummo codardi. Ma perché Eracle non si gettò egli stesso sulla spada? Lo vedemmo correre verso il fiume e radunare tutti i rami; lo vedemmo svellere con le ultime forze alberi per prepararsi una pira. Poi venne a chiedermi di dare fuoco a quella pira. Di nuovo mi rifiutai. Lo chiese a Eurinoo, e anche lui rifiutò. Allora, con gesto disperato, Eracle fece scintillare due pietre e le accostò ai rami. All’inizio fu una piccola fiamma, ed Eracle salì sulla pira lentamente – contorcendosi dal dolore – ma lentamente. Poi la fiamma montò, e vedemmo il corpo del gigante sparire dietro la parete del fuoco che cresceva. Le sue urla sembravano combustibile: maledetta Dejanira!, gridava. Il fuoco si stringeva intorno a lui, e a un certo punto accadde l’imprevedibile. Spegnetela!, gridò. E, perché non vi sia dubbio, perché non mi accusiate di aver compreso male, vi dico che lo ripeté tre volte: spegnetela, spegnetela, spegnetela! Ci precipitammo verso il fiume, Eurinoo e io, mentre le fiamme iniziavano a lambire le membra di Eracle. Il suo grido era come uno stormo di uccelli nerissimi che si spargevano per l’aria, oscurandola. Corremmo con le cisterne al fiume, e stavamo tornando quando una folgore attraversò il cielo. Toro, vello d’oro, serpente furono le prime forme che riuscimmo a distinguere. Poi non si vide altro che una nube, una nube che credevamo portasse pioggia e che invece puntò dritta alla pira. Non era la grandezza della nube a impressionarci, ma la forza che ne sprigionava. Gli animali si raccolsero in silenzio. Gli abitanti della valle sembravano cristallizzati nello stupore lungo il dorso dei monti. La nube discese sulla pira. Mano a mano che si dissipava, vedemmo le terga enormi di Zeus, la sua saetta, la sua barba che finiva per sprofondare nell’acqua del fiume. Zeus avvolse nella sua destra il corpo in fin di vita di suo figlio, e passò la sua mano enorme davanti alla bocca che gridava e il grido cessò. Poi vedemmo la nube riformarsi, e il serpente, e il vello d’oro, e il toro, e sentimmo quella forza sprigionarsi di nuovo dalla nuvola mentre il fuoco cresceva oltre la pira e veniva verso di noi. Fuggirono tutti. Invano sperammo nella pioggia: il grande Zeus aveva salvato suo figlio dalla vergogna e non si era curato di noi. Corremmo con le cisterne al fiume. Fu inutile. Zeus era disceso a preservare il nome di suo figlio e aveva lasciato acceso il fuoco che iniziava a divorare gli alberi. Li si vide vacillare, cadere, si sentirono i lamenti immensi degli animali – perché ogni cosa che vive possiede una sua scienza della morte, e gli animali sapevano, nel dolore smodato della fiamma, che quella era la loro ultima ora. Il fuoco corse verso la città, la divorò: in pochi minuti vidi le ombre dei cittadini chi dileguarsi su lungo il dorso dei monti, chi venire consumato dal cuore del fuoco come uno stelo d’erba. Il resto lo conoscete già: quanto durò l’incendio, quanti morti, il puzzo insopportabile per tutta la valle e i lamenti, per giorni, degli uomini e degli animali… Dejanira, lei sola fu coraggiosa: alla vista di cosa era successo, prese una spada e si trafisse all’istante.


Biografia

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena. Vive a Roma dove ha esercitato la professione di libraio. Scrive note di lettura, racconti brevi, prose poetiche e “prose” non altrimenti definibili. Ha pubblicato La parte muta del canto (Joker, 2016) , Le morti felici (Il Canneto, 2018), Le voci sopravvissute (Gattomerlino/Superstripes, 2020) e la raccolta poetica Canzonacce (Edizioni Delta Tre, 2021); è fra gli autori del Repertorio dei matti della città di Roma a cura di Paolo Nori (Marcos y Marcos, 2015) e dell’antologia critica Perturbamento a cura di Marco Ercolani (Joker, 2016). Nel 2011 ha aperto il blog “La lanterna del pescatoreScrive su i blog Perigeion e Poetarum Silva e sulla rivista Niedem Gasse. La sua raccolta di racconti dal titolo I romanzi smarriti sui treni  è stata da poco pubblicata per Algra.

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