Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città

 

 

Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città

Dialogo con Ulrich Van Loyen

a cura di Ivana Margarese

 


Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città
(Meltemi, 2020) è un saggio in cui Ulrich van Loyen racconta, intrecciando la sua esperienza soggettiva allo studio e al metodo antropologico, la città di Napoli e in particolare la sua affinità con il regno di mezzo: transgender e fantasmi, comunità adottive come famiglie, teschi anonimi come antenati. Un reportage scientifico nato dall’osservazione partecipante dell’autore  al vivere quotidiano dei suoi abitanti. Nei vicoli della Sanità, nelle cripte delle “Anime del Purgatorio”, davanti a teschi e ossa conservati al cimitero delle  Fontanelle, con i camorristi che si presentano come assistenti sociali, con le veggenti che vogliono far parlare i morti, van Loyen ci mostra come sia la vita quotidiana a rappresentare il segreto più grande. Città multiforme, fondata su diversi strati di tufo, che seppure il terremoto fa vibrare, raramente si spezza, Napoli nel mantenere così la vita accanto alla morte è maestra di integrazione di ombre e negatività fino a generarne autentica cultura.

Napoli sepolta: da cosa nasce questo titolo?

Il titolo in tedesco è diverso, Neapels Unterwelt, ma intraducibile. Unterweld significa sia il mondo di mezzo sia il sotteraneo. Significa le caverne, il nascosto e allo stesso tempo le basi. Così ho chiesto ai traduttori cosa pensassero, ma è stato un caro amico, Stefano de Matteis, a suggerire il titolo finale. Napoli sepolta allude alla dimensione storica e a quella sociale: il Napoli dimenticato (o superficialmente folklorizzato) e l’intimità della città nel corpo e nella mente di chi ci vive.

A partire dal maggio 2013 hai trascorso a Napoli quattordici mesi studiando il culto delle anime sante del Purgatorio, conosciuto come culto pittoresco che intende, per così dire, regolare uno scambio di doni tra defunti anonimi e viventi. La scrittura di Napoli sepolta proviene da questa esperienza che racconta assai bene la città nel suo essere luogo multiforme capace di integrare il negativo nellimmagine di sé della città e dei suoi abitanti. Mi piacerebbe una tua riflessione in merito.

Il libro nasce da due diari: uno strettamente scientifico, incentrato sulle vicende dei culti, ma anche riportando dialoghi, incontri, letture; e un altro in cui mi sfogavo. Da antropologo sono convinto che il metodo più oggettivo è usare come strumento la propria soggettività, il proprio io. Ma non l’io scrivente, ma la ricostruzione dell’io come si presentava durante il processo della ricerca. Certamente nel libro confluiscono la prospettiva sulle mie interazioni con altri, le ricerche tematiche e il fatto come mi sentivo in questo ambiente. Tante impressioni, anche i sentimenti notati, rivelavano la loro importanza solo dopo il periodo della ricerca sul campo. Il tempo della gestazione del libro è abbastanza lungo – va dal 2014 al 2018.

Nell’introduzione al tuo saggio ho trovato la parola “miracolo”: “miracolo come grazia, come trasformazione della distruzione in forma, e quindi anche come qualità estetica. A somiglianza di quei quadri barocchi in cui le cose, invece di precipitare, fluttuano nellaria. Non era forse questa larte di vivere del Mezzogiorno?”
È una considerazione che mi ha colpita molto, anche perché mi pare che di questi tempi abbiamo bisogno, al di là dei calcoli e delle statistiche, di riscoprire la grazia come forma dello stare al mondo.

Grazie, una bella osservazione! La grazia, come notò l’antropologo inglese Julian Pitt-Rivers in The place of Grace in anthropology è la parte aggiunta, il non-dovuto, il dato-in-più. Spesso una cosa minima, l’aggiunto di uno splendore, qualcosa che fa capire che il mondo non è solo scambio (di beni reciproci) ma che ci deve essere qualcosa per far stabilire la logica dello scambio. In qualche modo penso che il miracolo sia questo: un aggiunto, un eccesso senza il quale la vita (individuale e sociale) crollerebbe. Ne sono simboli i santi, la madonna, Gesù Bambino, in contesti nordici Babbò Natale.

La strada napoletana è spazio vitale e al tempo stesso palcoscenico. Mi potresti raccontare qualcosa a questo proposito?

Walter Benjamin col termine di “porosità” si riferiva alla sua esperienza che a Napoli la scena può cambiare in ogni momento: una cosa che sta dietro il palcoscenico all’improvviso ne può diventare il soggetto, e viceversa. A mio avviso alla base di questa esperienza sta la percezione che a Napoli tutto si svolge in maniera plateale, non solo perché agli abitanti piace di essere visti, ma soprattutto perché concepire se stessi come attori gli conferisce una Agency e autonomia che spesso in realtà non posseggono. Napoli non è plateale per “farsi vedere”, lo è per necessità. Le cause sono multiforme.
Io il palcoscenico l’ho incontrato sin dall’inizio, al centro storico, nel quartiere Sanità, dove prendevo dimora. Era un vicinato che esisteva tra generazioni, con i migranti tra di loro, c’era anche la figlia senegalese adottata da due adulti (non sempre queste adozioni sono completamente legali e disinteressati: girano operai africani sfruttati per pochi soldi che lasciano i loro figli per mesi o anni a chi non li ha). Il vico al contrario di quanto sembrava non era un luogo anarchico, era regolato secondo le leggi abitudinali, abbastanza complicate, che riguardavano l’uso quasi di ogni centimentro.
Ma c’era anche un’altra strada che fungeva da palcoscenico. Intendo la strada del pellegrinaggio, sia in città (la strada che cambia completamente carattere quando viene attraversata da un corteo di devoti, non tanto che subissero loro una trasformazione ma invece la strada) sia quella fuori porta. Mi ricordo delle lunghe vie notturne tra Napoli e Sant’Anastasia, luogo del culto della Madonna dell’arco, dove le strade nel loro stato di abbandono diventavano palcoscenico per le immagini interne dei pellegrinaggi, un luogo di purificazione che faceva palpabile il senso del loro culto (un culto di penitenza e di rigenerazione). Anche l’abbandono, il rifiuto venivano così culturalizzati.

Nella cappella Sansevero del principe Raimondo di Sangro c’è una stele con uniscrizione in latino dedicata al disinganno: Chi non vede, vedrà”. Ci sono molte possibili letture di questa frase, qual è la tua?

Secondo me l’iscrizione si riferisce sia alla classica idea della morte – chi in questo mondo non vede vede nell’aldilà – sia ai riti iniziatici praticati della massoneria – loro si auspicavano di vedere ‚l’Iside svelata’ già durante la vita. E il principe Sangro si impegnava di vedere oltre la morte in vita: ne sono testimoni le cosiddette macchine anatomiche, suo interesse costante per l’alchimia. Anche questo è un modo di provare la verità del messaggio cristiano e allo stesso tempo di superarlo – illuminismo in extremis.

Da Goethe a Susan Sontag, la città partenopea è stata luogo di ispirazione. Cosa hai imparato soprattutto da Napoli?

Tantissimo. Oltre alla transformazione della negatività in una risorsa sociale e culturale ho soprattutto imparato di vedere le strategie del basso, la religiosità popolare come cultura. E ho capito che Napoli è particolare perché è una città dove si possono intravedere i processi di culturalizzazione dei più basali elementi della struttura sociale (e personale): dalla parentela (che non è né naturale né biologica, ma deve essere conquistata, affermata come tale: lo testimoniano i culti delle anime pezzentelle e delle Madonna dell’arco, entrambi al centro di mio libro) al genere (il femminiello, la transe). Ci sono presenti tanti motivi culurali che possiamo studiare in tutto il mondo mediterraneo – ma a Napoli, per caso o per storia, li troviamo intrecciati. In questo modo Benedetto Croce aveva ragione: nella vita si devono fare delle scelte, o occuparsi di Napoli, o del resto del mondo.

Biografia

Ulrich van Loyen, nato a Dresda nel 1978, ha  due dottorati di ricerca in letteratura comparata e in antropologia sociale, e ha svolto ricerca sul campo in Brasile e in Italia. Dopo aver insegnato presso alcune università italiane (L’Aquila, Urbino) e tedesche (Monaco d.Baviera, Colonia) insegna ora Teoria dei Media all’ateneo di Siegen. Tra i suoi libri segnaliamo: Exil und Verwandlung. Zur Biografie von Franz Baermann Steiner (2009), Der besessene Süden. Ernesto de Martino und das andere Europa (2016) e The Mediterranean as a Source of Cultural Criticism (2019). Ora vive tra Roma e Colonia.

 

 

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