Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani: poeta, pastora

 

Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani: poeta, pastora

 

di Grazia Frisina

 

Immagine in copertina: Filippo Palizzi, Filomena contadina che contempla in vetta a un ciglione, 1864

 


Un tempo, quando radio, televisione, internet esistevano, le piazze dei paesi in estate e le case in inverno erano luoghi d’incontri, dove le comunità, giovani e anziani tutti insieme, si davano al ricordo, al canto e alla narrazione.
Nelle festività, nelle date cerimoniali (befanate e calendimaggi), nelle fiere, negli appuntamenti calendariali, nei pranzi di matrimonio, i poeti estemporanei, erano certamente gli immancabili protagonisti di questi spazi di socialità del mondo rurale, espressione delle antiche tradizioni, ma anche voce della saggezza e della spontaneità popolare.
Le improvvisazioni poetiche, cantate in ottava rima, erano incontri di poesia a braccio, su temi a contrasto.
La sfida fra questi improvvisati poeti, eredi dei saltimbanchi e dei giullari, dei girovaghi animatori nei villaggi del Medio Evo, costituiva un mezzo tutto orale d’informazione, di dibattito oltre che di aggregativo e gioioso intrattenimento.
Nel mondo tradizionale l’arte del cantare improvvisando ha consentito anche alle persone con scarsa istruzione o agli analfabeti di esprimersi disegnandosi, nella comunità dove sono vissuti, un proprio spazio creativo, riconoscibile e riconosciuto.
Forma d’arte popolare dunque, l’ottava rima affonda le proprie radici nella struttura metrico-ritmica dei poemi cavallereschi: malgrado la carente scolarizzazione dei poeti contadini era frequente sentire chi recitava a memoria brani della Divina Commedia o versi del Tasso, dell’Ariosto e di Giovan Battista Marino.
Solo negli ultimi 30 – ‘40 anni del Novecento, grazie alle ricerche antropologiche ed etnografiche, sono state realizzate incisioni e registrazioni che attestano l’originalità di questa forma d’arte, contribuendo in tal modo alla conoscenza di un patrimonio culturale che altrimenti sarebbe andato perso.
In Toscana, in particolare in Maremma, l’improvvisazione poetica si è affermata prima nel mondo pastorale e contadino (fra montanari e carbonai), in seguito in quello operaio, rappresentando momenti di coesione e di forte socialità, ma anche una vivace modalità di riscatto, di denuncia e di opposizione politica. Una memoria orale quindi nella quale è possibile rintracciare la storia delle lotte per la terra e per il lavoro.
Anche sulla montagna pistoiese, sull’Appennino tosco-emiliano, era diffuso, nell’Ottocento, larte di cantar l’ottava.


Una figura di rilievo in questarte è senz’altro Beatrice Bugelli, la più conosciuta poeta improvvisatrice, cantora e pastora, donna di grande fervore e dumana sensibilità, che, seppure completamente analfabeta, sa affermarsi per l’intelligenza,per l’indole creativa e la vena poetica: molte sono le tracce lasciate e le testimonianze dell’epoca su di lei e sul suo straordinario talento. Un’esistenza singolare quella di Beatrice Bugelli, più nota col nome di Beatrice di Pian degli OntaniNasce l’11 febbraio 1803 al Conio Melo di Cutigliano, a ridosso del crinale appenninico che divide la Toscana dall’Emilia, una delle più povere e desolate zone del Granducato, governato dai Lorena. Orfana della madre, già da piccola segue il padre scalpellino che per lavoro si spinge fino in Maremma. In casa trascorre le giornate fra lavori domestici e il pascolo. Il suo fisico non è appariscente: statura piccola, fronte spaziosa, riccioli abbondanti, pelle bruciata, sguardo intenso che cattura chi la guarda.
Sua sola scuola, come racconta, è il paesaggio del Libro Aperto, il monte sopra Cutigliano; la natura, sua maestra e risorsa.

E gran sollazzo ci verremo a dare

Che di scrittura non posso imparare

La montagna l’è stata a noi maestra

La natura ci venne a nutricare

E ’l sole se ne va via là pian piano;

Ch’io ne debbo partir da Cutigliano.

Il linguista e storico della letteratura italiana Giambattista Giuliani, in una lettera inviata a Nicco Tommaseo, parla di Beatrice, di quanto lei gli ha riferito della sua vita:

«Il mio babbo lo chiamavan Gioacchino. Di casato Bugelli. D’origine noi siamo del Conio, luogacciolo che fa una sola Pieve col Melo: sarà cento fuochi in tutto; è a due miglia da Cutigliano, poco sopra dove il rio Arsiccio s’invarca nella Lima. Presi marito di vent’anni e quattro mesi; avevo ventidu’ anni che Dio mi diede il primo figliolo. Felice come me non c’era altre; la più gran disgrazia la dovetti subire quando mi son veduta morire quel figliolo: morì il giorno della Candelora, sarà diec’anni. Non mi pare d’aver più a morire come quel giorno […]. La prima ottava la diedi al marito nel giorno di sposarlo. Da ragazza cantavo de’ strambotti e rispetti, andando a far l’erba, raccattando le spighe, ma non sapevo fare da me: non c’ebbi mai pensato. […] Io ebbi otto de’ figlioli, n’allevai dieci. Mi restava ’na cognata in casa, che non finiva di darmi noia: non si poteva più vivere insieme a buono. Si rodeva il cuore, perché io cantassi e la gente mi vedeva bene. […] Dovetti andare per balia due volte, dappertutto mi facevano cantare: vivevo in gran contentezza: chi si contenta gode. Il canto è stata ognora la mia fortuna.»

La vena poetica

Bambina curiosa e attenta, Beatrice ascolta i girovaghi, simili agli antichi menestrelli, che vanno di borgo in borgo, e gli anziani che raccontano leggende e storie antiche e declamano le ottave dei poemi cavallereschi; ne percepisce la musicalità e il divertimento. Se ne appassiona. Da quel momento, per un’alchimia che neppure lei sa spiegare, le parole scalpitano nella mente, saffollano nella sua bocca, secondo l’estro e la situazione.
Ma è durante la festa del suo matrimonio con Matteo Bernardi, molto più anziano di lei, il 5 agosto 1823, che avviene l’epifania di Beatrice cantora improvvisatrice.
Dopo la cerimonia gli sposi partono dal borgo del Melo per raggiungere il podere di Matteo a Pian di Novello. Lungo il tragitto, ad ogni casa che incontrano, secondo l’uso dei montanini, gli sposi si fermano per rendere il saluto, consegnare i confetti, ricevere regali e ballare, con gran lena, il trescone, la manfrina e la quadriglia, danze popolari di questi monti. I canti e i balli sono accompagnati dagli spari dei moschetti che attirano e divertono tutti. Verso mezzogiorno gli sposi arrivano alla casa di Pian di Novello, dove li accoglie una tavola imbandita. Durante il pranzo, come è di consuetudine, alcuni cantori si danno di poesia. Beatrice ascolta assorta e poi d’improvviso, come folgorata, come posseduta da un demone benigno, improvvisa al marito la sua prima ottava, suscitando tra i presenti stupori e applausi.

 

Io ho camminato più di cento miglia

sempre davanti alla spera del sole

Non ho trovato chi vi rassomiglia

un giovin come voi al paragone.

Di voi il paragon non ho trovato

siete più bello del cielo stellato.

Di voi non ho trovato il paragone

siete più bello di quel bello Adone.

 

Da quel momento sarà presente con le sue fiorite improvvisazioni nelle piazze dei paesi, durante le feste, nei matrimoni, nelle fiere, nelle sagre locali, con grande partecipazione ed entusiasmo dei paesani.
Sebbene Beatrice campi di stenti, fuori da ogni agio, sempre in lotta con le avversità della vita, ama ogni cosa bella del creato, dai pascoli alle stelle, dai fiori al canto degli uccelli, da tutto trae argomenti di poesia, attutendo e sanando le pene.
L’autorappresentazione che ci dà, attraverso i canti che sono stati raccolti, è quella di una donna serena, sempre in sintonia con la natura e il mondo.
Il figlio Angelo dice di lei tranquilla, allegra sempre, di sangue vivace, parlava parole tutte di libertà, senza offesa di Dio e del prossimo. Una bugia non la disse mai al mondo”.
Questa sua intima serenità la manifesta nell’invenzione, nell’armonia, nella coloritura della parola e del canto.

 

Quanti ce n’è che mi senton cantare

Diran: buon per colei ch’ha il cor contento!

S’io cant, canto per non dir del male;

canto per iscialar mi’ afflitta doglia;

sebbene io canto, di piangere ho voglia:

canto per iscialar mi’ afflitta doglia;

sebbene io canto, di dolor son piena.

 

Eppure sono molte le pene, le disgrazie a cui la vita la sottopone: la morte di alcuni parenti, la perdita del raccolto, la piena del fiume Lima, nel 1836, che distrugge la casa dove è entrata sposa a Pian del Catino, che subito dopo Beatrice e il marito ricostruiranno, qualche metro più a monte, sasso su sasso portandoli dall’alveo del Sestaione all’altipiano.

Quando la mi’ casa venne a rovinare

Mi scaturiva il sangue d’ogni vena;

‘Na creatura avevo a nutricare,

mancò la forza a me, mancò la lena:

e non avevo i piè per camminare,

la poesia allor perse la vena.

Nel momento di quel tremibil danno

Io mi restai sommersa in grand’affanno.

 

Anche la morte del figlio Beppe, di ventidue anni, segna nel profondo la sua vita. Ed è la poesia, quasi una sorta di preghiera, che, nella rievocazione della disgrazia, permette il linimento del dolore e del lutto.

 

Gran passione provai nella mia vita,

quando la morte prese il mi’ figliolo;

di questo mondo ne fece partita,

io ne restai con ‘na gran pena e duolo;

creda pur che sentii pena infinita,

morto che fu quello: il sa Dio solo.

Quando da me me lo vidi partire

Io quasi come lui credei morire.

 

Io mi leverei il sangue dalle vene

e tutta mi vorrei ispropriare;

io domando a Dio, che tanto bene,

che tanta grazia a me mi voglia fare;

i giorni, gli anni, e li minuti mene

che sian corti e presto vengano a passare.

Io ringrazio il Signor dell’alta corte,

che bene come lui faccia la morte.

 

Gli incontri

Il nome di Beatrice, ormai padrona dell’ottava rima, in poco tempo si diffonde anche fuori dal suo territorio, non solo fra i curiosi avventori ma anche negli ambienti di intellettuali e studiosi. Nella sua semplice abitazione, cominciano così ad arrivare illustri visitatori, che la invitano poi nei loro mondani salotti letterari, a Firenze, Pistoia e Bologna, a mostrare la sua arte di cantora, improvvisando versi adatti alloccasione.
Rimanendo sempre fedele a stessa, non mostra soggezione disagio; con la sua disadorna semplicità e umanità si presenta dinanzi a essi suscitando sempre simpatia e apprezzamenti.
Fra gli incontri più determinanti è senz’altro quello con Niccolò Tommaseo (protagonista del nostro Risorgimento e padre del Nuovo Dizionario de’ Sinonimi della lingua italiana) che si reca appositamente al suo casolare per conoscerla, per descrivere poi, sull’Antologia di Vieusseux, lo stile, la purezza linguistica, la vivacità dei suoi versi, nonché la passionalità della sua persona.
Così l’intellettuale, nella raccolta “Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci” (Venezia 1841), parla in “Gita nel pistoiese” del suo incontro, nel 1832, con la poeta: A Cutigliano ho trovato ricca vena di canzoni. Feci venire dal Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, che bada anch’essa alle pecore, (raccoglie la legna, zappa la terra, taglia l’erba, fa la balia) che non sa leggere, ma sa improvvisare ottave; e se qualche sillaba è soverchia, la mangia pronunziando, senza sgarrare verso quasi mai; donna di circa trent’anni, non bella, ma con un volger d’occhio ispirato, quale non l’aveva madama De Sade; lo giurerei per le tre canzoni degli Occhi.
Tommaseo le regala una moneta che Beatrice non spenderà mai e terrà fino alla morte come oggetto d’affezione.
Oltre a Tommaseo, molti altri ricercatori, filologi e letterati vanno a trovare la Bugelli, per conoscerla. Tra questi, lo scrittore pistoiese Giuseppe Tigri, Massimo d’Azeglio, Giuseppe Giusti, un giovane Giovanni Pascoli e il linguista Giambattista Giuliani. Saranno poi il Tigri e il Giuliani a raccogliere e a trascrivere i canti di Beatrice.
Si racconta che a Firenze, quando divenuta capitale, Beatrice, ospite presso il professor Giuliani, un giorno vede uscire da palazzo Pitti in carrozza il re Vittorio Emanuele II, senza esitare si avvicina e gli improvvisa un’ottava, con grande stupore e ammirazione del sovrano.
Anche lo scrittore Renato Fucini si reca da lei, proprio nel giorno della morte, il 25 maggio 1885, trovandola, nei tratti del volto, pacata e distesa.
Un altro incontro, forse il più significativo nella vita di Beatrice, è con la raffinata Francesca Alexander di Boston, la cui famiglia, trasferita a Firenze, trascorre le vacanze estive nella zona dell’Abetone.
Francesca conosce la poeta pastora, la tratta come una sorella e la considera una delle donne più meravigliose che abbia mai conosciuto.
Malgrado la diversità d’età, lei ventenne, Beatrice sessantenne, la loro amicizia durerà tutta la vita.
Francesca Alexander, innamorata della Toscana, pubblica nel 1885: Roadside songs of Tuscany in cui presenta la figura di Beatrice. Lopera verrà pubblicata in Inghilterra nel 1885 (l’edizione italiana apparirà soltanto nel 1976).
Questo il bel ritratto che fa di lei:

« […] Beatrice era solita portare l’abito alla vecchia maniera contadina nel quale l’ho ritratta: corsetto scarlatto, fazzoletto celeste, collana a grani e orecchini d’oro, le lunghe maniche di lino erano increspate al polso; quando lavorava soleva spingerla sopra i gomiti […]. Nelle grandi occasioni metteva un velo bianco ricamato, fazzoletto e grembiale, tutte cose che aveva indosso il giorno che si sposò. Nessuna immagine può dare un’idea della bellezza, perché è impossibile raffigurare la luce nei suoi occhi che sembrava venire di dentro e non di fuori.»

Il contrasto

In questo periodo improvvisare in poesia è una prerogativa perlopiù maschile, ma di uomini Beatrice ne sa vincere molti sul terreno del bel poetare.
Quella dell’improvvisazione è una specie di fuoco sacro, una mania ossessiva, un libero fluire delle parole in accordo con la velocità del pensiero.
Beatrice, dopo il lavoro umile e duro di tutta una settimana, la domenica, indossato il mantello della festa, raggiunge a piedi i paesi vicini, dove sfida, nel bel contrasto, altri poeti estemporanei: quasi un duello a parole. Beatrice sesalta, non demorde, sempre recuperando la rima dagli ultimi due versi cantati dal suo avversario, continua, ore e ore, nelle sue battagliere ottave, fino a primeggiare.
A Cecco, Francesco Chierroni, un noto cantore dellepoca, così risponde:

Degno saresti di andare in Maremma,

in delle macchie dove fan li cerri:

dove li porci fanno la rassegna,

andar con quelli che si chiaman verri.

Ti manca calamaro carta e penna,

sento che nel cantar molto spess’erri;

ben io ti piglio per un cigno stanco

porti le orecchie lunghe e ‘l petto bianco.

Le tematiche

Vari sono i temi che ricorrono, con originalità e animo stupefatto, nelle sue ottave, in particolar modo per la bellezza della natura, il cielo, la montagna, i torrenti, i boschi, gli animali: tutto ciò che la circonda è motivo di spontanea ispirazione.

 

Non vi meravigliate, o giovinetti

Se non sapessi troppo ben cantare:

in casa mia non c’è stato maestri

e manco a scuola son ita a imparare.

Se voi volete intender la mia scuola:

su questi poggi all’acqua e alla gragnola.

Volete inter voi lo mio imparare?

Andar per legna o starmene a zappare.

Uccellino che canti per il fresco,

per il caldo ‘un ti sento mai cantare

se ti potessi avere nel mio archetto,

i tuoi bei canti li vorrei imparare:

i tuoi bei canti e le tue belle rime

vada la voce mia ‘n cima a le cime!

I tuoi bei canti e le tue rime belle...

Vada la voce mia ‘n cime a lle stelle!

 

Ma anche il sentimento d’amore non manca:

 

Che pena e che dolore è un po’ la mia,

aver la lingua e non poter parlare!

Riscontro l’amor mio nella mia via

Lo scontro e non lo posso salutare.

Quando lo scontro, abbasso gli occhi a terra:

la lingua tace e lo mio cor favella.

Prima che t’abbandoni, amore mio,

tutte le lingue morte parleranno,

e le fontane doneranno vino,

i pesci nell’asciutto nuoteranno.

Innanzi ch’io ti lassi e t’abbandoni

perfino gli aranci faranno limoni!

 

esprimendo la sua idea sull’amore unico e indiviso:

 

Una fontana non può far due fiumi;

e se li fa, non li può far correnti.

Una candela non può far due lumi;

e se li fa, non li può far lucenti.

Una campana non può far due suoni,

e se li fa, non li può far sonori.

Una ragazza che ha due amatori,

tutti due non li può fare contenti.

E li può far contenti se lei vuole:

uno di fatti, l’altro di parole.

E li può far contenti, se volesse:

uno di fatti, e l’altro di promesse.

 

Non è soltanto cantora solitaria della natura, della pace dei monti o dell’amore, è anche un’attenta e pungente osservatrice degli uomini e delle vicende umane. Quando si scaglia contro le classi dirigenti (con che modernità!):

 

Deh, se a questa razzaccia maledetta

che così malgoverna il bel podere,

Sant’Andea gli mandasse la disdetta,

con un sonoro calcio nel sedere;

e mettesse a’ lor posti de’mezzadri

meno ingordi e rapaci e meno ladri.

 

Attacca il presuntuoso dongiovanni:

Tu vai girando come l’arcolaio,

tu vai come la rota del mulino.

E delle dame n’hai un centinaio,

ma del cervello come un moscherino.

Tu hai più dame che lo maggio fiore:

tu non n’hai una che ti porti amore.

Tu hai più dame che lo maggio foglia:

tu non ne hai una che bene ti voglia.

A una ricca contessa di Pistoia:

Ricco non è chi di be’ panni è ornato,

povero non è colui chè mal vestito.

Ricco è chi ha la pace e l’umiltade,

chi ha la carità del suo nemico.

Ricco è colui che tien Gesù nel core

Vive felice e poi contento more.

 

A una donna che si vanta della sua bellezza:

 

Bella non fare come fè Narciso:

di donne non si volse innamorare.

E poi s’innamorò del suo bel viso.

Sopra una fonte ne venne a passare.

Drento  vi si guardava fiso fiso:

dell’ombra sua si venne a innamorare.

Guardate come fu la sua fortuna!

‘Namorato che fu, morte si dona.

 

A un prete:

Sono stato a Roma e mi son confessato

E ho deto, padre a una donna vo’ bene:

e lui mi disse questo è un gran peccato

amar la donna d’altri non conviene.

E poi mi disse. Vattene con Dio:

non fussi prete l’amerebbi anch’io.

 

I suoi canti sono senzaltro il riflesso del vivere umile dei montanini, poveri ma ricchi di tradizioni, di cultura e di sapere popolare:

Palazzo che non sia ben fondato

presto ne fa vedere la sua rovina;

così l’inferno del male aggravato

che prendere non può la medicina.

Orto che non sia ben coltivato

erba buona non fa per la cucina;

questo dice il proverbio universale

che il bene vien dal bene e il mal dal male.

 

Il foco gli è il gran re degli elementi

La balena de’ pesci, il Nil de’ fiumi

La lira gli è il sovran degli strumenti

Apollo è il coronato re deì lumi.

E tra’ metalli il più perfetto è l’oro

E il vin per la salute è un gran tesoro.

Ma non guardate ch’io sia piccolina

L’amore non istà nella grandezza

Ma non guardate alla botte del vino

L’è piccolina e piena di cimezza

Ma non guardate al fiore di limone

Gli è piccolino e getta un buon odore.

 

Qualche tempo prima della sua morte, avvenuta nel maggio del 1885, canta una delle sue ultime strofe, in cui dichiara malinconicamente la bellezza della sua voce attraverso la quale ha espresso linesausta passione per la poesia e per la vita, che sta per finire.

Dov’è la voce mia ch’era sì bella?

Dov’è la voce mia ch’era sì alta?

Era sentita da tutta la terra,

era ascoltata da una villa all’altra.

E da una villa all’altra era sentita.

Dov’è la voce mia? Dov’è la vita?

 

È possibile oggi visitare questi luoghi della montagna pistoiese, in particolare Pian degli Ontani, dove ancora echeggia il ricordo di Beatrice, poeta pastora. A onorare la sua memoria è stato fondato un Centro Studi, che organizza eventi culturali legati alla sua figura, come pure alla storia e alle tradizioni locali; inoltre le sono stati dedicati un parco con i suoi versi scolpiti sui massi, due bassorilievi, un viale e la scuola dellinfanzia.

Bibliografia:

Alexander Francesca, Beatrice di Pian degli Ontani / introduzione di John Ruskin; con i ricordi di Giambattista Giuliani, Quaderni d’Ontignano, 1976
Bellucci Paolo, Poetessa pastora: la storia e i canti di Beatrice di Pian degli Ontani scoperta dal Tommaseo e amata dal Ruskin: con una raccolta inedita di versi da lei cantati e una nota su Francesca Alexander e John Ruskin, Firenze, Medicea, 1986
Ciampi Paolo, Beatrice: il canto dell’Appennino che conquistò la capitale, Firenze, Sarnus ed, 2008
Rosati Claudio, Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani: poetessa, pastora, Pistoia, Brigata del Leoncino, 2001

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