Pensare come Ulisse

Pensare come Ulisse

intervista a Bianca Sorrentino

di Ivana Margarese

 


“A che servono i classici?”. Accade talvolta venga posto questo quesito, che, come noti opportunamente tu, contiene già in s
é una sentenza svilente, animata dalla smania di trovare rapida spendibilità a ogni attività umana,
come se a ogni cosa fosse necessaria una ricaduta produttiva misurabile. Vorrei mi raccontassi da cosa nasce il tuo saggio che già dal titolo chiama in causa Ulisse, il mito occidentale per eccellenza e per quanto tempo hai lavorato alla sua realizzazione.

Pensare come Ulisse (Il Saggiatore) è un progetto elaborato in un anno e mezzo, ma il mio vagabondaggio per le terre del mito ha radici profonde, è la passione inesausta di una vita cui né l’antico né il contemporaneo sanno bastare. Se, da una parte, sono consapevole che la devozione nei confronti della classicità non ha una spendibilità immediata e misurabile con parametri oggettivi, dall’altra riconosco che la questione sull’utilità del greco e del latino è mal posta, perché tradisce l’arroganza sfacciata di una civiltà che crede di poter ottenere tutto e subito. Oggi ci illudiamo di avere tutte le risposte a portata di clic e intanto sacrifichiamo passato e futuro sull’altare del presente; questa mia ricerca è un tentativo di custodire la memoria di ciò che è stato, senza rinnegare lo slancio verso mondi altri immaginati dagli autori contemporanei. Al netto delle insanabili distanze tra noi e gli antichi, infatti, desta meraviglia soffermarsi a considerare quante suggestioni i classici sanno suggerire al nostro tempo smarrito, in cui le nostre personali odissee somigliano a quella archetipica del multiforme Ulisse: è come se Omero, Sofocle e Ovidio ci fornissero una bussola per orientarci nelle sfide del contemporaneo, un ramo d’oro per accedere a una dimensione forse più autentica del sentire.

“La pregnanza del teatro greco è legata al suo essere rito collettivo, momento democratico irrinunciabile per la cittadinanza: un aspetto, questo, che sarebbe importante recuperare, oggi che il senso di comunità risulta pericolosamente svilito, oggi che al concetto di società si sostituisce quello di agglomerato di individualità – perennemente connesse, è vero, ma spesso disperatamente sole e incapaci di sentirsi parte di un insieme, di condividere una visione comune”. Vorrei chiederti qualcosa in merito a questa tua riflessione che profondamente condivido.

L’universo liquido di Netflix e Amazon, il quale pure ci nutre di narrazioni, non conosce il vincolo dell’attesa, che è fondamento invece del miracolo che il teatro ci porge da sempre. Le piattaforme multimediali ci consentono di consumare maratone di serie TV nell’istante da noi prescelto, lasciandoci immergere così in una dimensione alternativa rispetto alla routine quotidiana; e se è vero che le ultime uscite della serialità televisiva sono all’ordine del giorno nelle chiacchiere tra amici, quel confronto non sa poi tradursi quasi mai in dibattito collettivo. Al contrario, il teatro ateniese trovava la sua profonda ragione nella sua natura politica, pubblica, civile: Eschilo, Sofocle ed Euripide mettevano in scena, attraverso il filtro del mito, le grandi questioni del loro tempo, proprio come fanno i drammaturghi contemporanei che non intendono il momento teatrale come mero svago. Nell’Atene di V secolo a.C., il teatro era un rito per l’intera cittadinanza, una palestra educativa insostituibile che permetteva di cogliere sulla scena virtù eroiche da emulare e vizi da deridere; in questo nostro secolo rassegnato alla passività, sarebbe fondamentale riscoprire la portata dell’esperienza teatrale che ci fa sentire intensamente il dolore dell’altro come fosse nostro, che ci scuote dall’indolenza per ricordarci che l’energia che si sprigiona tra attori e pubblico, pur essendo irripetibile, ha in sé qualcosa di ancestrale, capace di riconnetterci in un unico respiro ai nostri antenati e a coloro che verranno.

Ulisse nel suo viaggio incontra molte figure femminili che lo proteggono o gli insegnano come proteggersi da ciò che ancora non conosce. Tra queste la maga Circe che come è noto spiega a Ulisse come difendersi dal seducente e pericoloso canto delle sirene. Come osservi nel saggio Ulisse è un uomo del “qui e ora”, più uno scienziato che un filosofo, e la sua figura é legata alla sapienza di un tempo lineare, un tempo umano, che richiede astuzia e talvolta anche inganni.

Il tempo agisce sui personaggi letterari cristallizzandone alcuni tratti: nell’immaginario comune Ulisse è un ingannatore che trova sempre scampo facendo ricorso unicamente alla sua astuzia; rileggendo l’Odissea notiamo però alcuni dettagli degni di attenzione, come le lacrime che versa copiose ogni volta che si vede perso, come l’aiuto che non manca di giungergli puntuale dall’esterno. Le figure femminili che costellano la sua avventura sono per lui sempre salvifiche, oltre che narrativamente tutt’altro che secondarie: Circe, la volitiva, gli insegna come si abita la soglia, come si sta in piedi al cospetto dell’abisso, sentendone l’attrazione irresistibile, ma evitando di smarrirsi nella vertigine; Calipso, la nasconditrice, offrendogli l’immortalità e la giovinezza eterna, ravviva in lui il desiderio dell’istante, anche a costo della caducità; Nausicaa, la fanciulla, gli dona l’accoglienza e la freschezza di un sentimento puro; Penelope, la legittima sposa, sua pari in ingegno, accetta le distanze, i tempi dilatati e le trappole del mito che, a volte, imprigiona. Dal canto suo, Ulisse non si pone mai domande esistenziali, non dialoga con l’Oltre, ma resta sempre saldamente ancorato alla sua umanità: sa di dover fare affidamento sul suo intelletto per sconfiggere Lestrigoni e Ciclopi. Un altro insegnamento di cui far tesoro in questo tempo in cui impulso e rabbia cieca spadroneggiano.

Altro elemento che mi pare importante sottolineare è come nella cultura greca sia  la tracotanza  la colpa più grave per un mortale. Potremmo accusare Ulisse di presunzione?

La condotta di Ulisse al cospetto di Polifemo è un capolavoro di scaltrezza: prigioniero della creatura mostruosa, addirittura arriva ad annullare la propria identità dichiarando di chiamarsi “Nessuno”, pur di garantire la salvezza a se stesso e ai suoi compagni. Tuttavia, proprio quando l’impresa è compiuta e la liberazione dal gigante è sancita, in un impeto di vanità il re di Itaca urla al Ciclope il suo vero nome, rivendicando con orgoglio la paternità delle sue gesta e firmando così la sua condanna: la sua tracotanza sarà duramente punita da Poseidone, padre di Polifemo e dio dei mari, il quale perseguiterà per anni l’eroe ostacolando il suo ritorno in patria. È molto interessante riflettere sul concetto di limite da non superare, oggi che tentiamo di proiettare le colonne d’Ercole sempre più in là, di rinviare l’appuntamento con la fine, di rincorrere il sogno della perfezione, e non ci accorgiamo che misura è anche serena accettazione della propria vulnerabilità.

Vorrei essere figlio di un uomo felice”: questo il disarmante desiderio espresso da Telemaco nel I libro dellOdissea. Nel tuo saggio ti soffermi sui rapporti padre e figlio e sulla loro complessità e anche sul legame tra madre e figlia, ricordando il mito di Cerere e Proserpina ma anche la vicenda della scrittrice Mary Shelley che era solo una bambina quando perse la della madre, una scrittrice protofemminista.

Trovo profondamente necessario andare a indagare quegli aspetti del racconto mitico che toccano le nostre corde più intime, che dilatano una frattura in noi, perché acuiscono la consapevolezza che abbiamo delle nostre ferite immedicabili e ci incoraggiano a fare i conticon esse, pur sapendo che potrebbero restare insanabili. Il cammino verso la maturità intrapreso da Telemaco, figlio di Ulisse, e da Proserpina, figlia di Cerere e sposa-rapita da Plutone, ha a che fare con la lontananza, con l’assenza, con uno strappo violento; entrambi devono fare esperienza dell’altrove perché sia sancito per loro il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Ciò accade nell’universale senza contorni del mito e nelparticolare delle vite di tutti noi; alcuni autori talentuosi, come Mary Shelley nella sua Proserpine (dramma mai tradotto in italiano e mai portato in scena, ma trasposto in musica dalla compositrice contemporanea Silvia Colasanti per il Festival dei Due Mondi di Spoleto), sanno fondere sulla pagina letteraria contingente e assoluto, riscattando così con la poesia le manchevolezze della realtà.

C è un paragrafo nel saggio intitolato “Isole e altre solitudini” in cui scrivi di come una  radice di autenticità sembra poter essere conservata nella  natura delle isole. Archetipo del paradiso perduto, l’isola è luogo chiuso, circoscritto al di là del tempo e dello spazio: Ogigia, il regno di Calipso ai confini del mondo, ne è un esempio. Ma anche Itaca, la meta sempre presente per Ulisse è un’isola. I miti come i sogni insegnano a tenere insieme una molteplicità di significati, spesso ambivalenti, sottraendosi alla logica binaria dell’esclusione e scegliendo la coesistenza o forse meglio ancora la trasformazione.

Il mito è il regno del molteplice e la letteratura ne intercetta il mistero restituendocelo in forma poetica. L’energia del divenire muove il mondo, ne anima il canto: anche così ogni essenza dialoga col suo contrario, rendendo possibile la danza degli elementi. Ogigiaincarna quella che oggi definiremmo l’utopia, il non-luogo; Itaca, invece, costituisce l’eutopia, lo spazio in cui l’ideale si spoglia della sua perfezione per diventare possibile – e in una certa misura giusto. La terra di Calipso assomiglia alla sua sovrana, si sottrae alle leggi del tempo; al contrario, la petrosa patria in cui Penelope attende il ritorno del consorte,reggendo la dimora regale, richiama Ulisse alle sue responsabilità di padre e ai compromessi della politica. L’Egeo proietta la sua fascinazione sulla letteratura di tutti i tempi, producendo, nell’irriducibile fantasia dei moderni, variazioni audaci e significative, come quella proposta da Derek Walcott, che fa risuonare nell’indolente atmosfera caraibica le immortali corde dell’Odissea.

Nelle pagine conclusive del tuo libro mi sembra emergere un legame tra mito e fratellanza, sapresti spiegare meglio la loro vicinanza ?

Da un capo all’altro dell’universo, dalla voce antica al suo controcanto contemporaneo, il nome di Ulisse basta a richiamarci alla radice dell’umano. L’immaginario dei poemi omerici è il fondamento della civiltà occidentale e, a dispetto di chi crede di poterlo confinare a uno scaffale polveroso frequentato solo da eruditi, esso è talmente vivo e vibrante da illuminare di senso le nostre vite, il nostro presente. Riaffermarlo con vigore significa sentirsi eredi di desideri e furori che eternamente si ripetono, parte di una storia comune che per sempre ci affratella.

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