Un’educazione sentimentale: Latitudine palermitana di Aldo Sarullo

“Un’educazione sentimentale: Latitudine palermitana di Aldo Sarullo”.

di Giovanna Di Marco

Lettura di Paolo Briguglia

 

 

Ci sono narrazioni con colpi di scena, protagonisti che compiono viaggi, antagonisti da sconfiggere, momenti di massima tensione, nodi e scioglimenti, agnizioni; poi ci sono narrazioni intime, dove l’io – narrante ripercorre la sua vita con punti di vista da deformare, allargare o restringere dal suo modo di percepire. Questo è il caso del romanzo  Latitudine palermitana di Aldo Sarullo, edito da Qanat e con la prefazione di Matteo Collura. Però mi correggo, l’autore si presta al viaggio, un viaggio che traghetta la sua storia dalla nascita a una giovinezza piena, vissuta in modo interiore con ironia, molto spesso con autoironia. Come quando da bambino si “sposava” con una bambina incontrata a villa Giulia o, da adolescente, usciva dal cinema convinto di essere il protagonista del film, l’innamorato della bella ragazza del grande schermo, e la vita vera era quella e la realtà una fastidiosa finzione. Proprio per questo mi piace pensare a questo romanzo di Sarullo come a un romanzo di formazione, dove un giovane Holden palermitano, neanche troppo ribelle e maleducato, fa della sua vita esperienza con occhi attenti ai moti interiori, agli slanci dello spirito; un’educazione sentimentale che è completa nel suo procedere con quei salti, quelle cadute, quei dolori propedeutici per cercare e per conferire un senso all’esistenza, che non sia solo un banale succedersi di eventi e riti di passaggio che permettano a un giovane di diventare adulto. Mi ha molto divertito seguire le avventure scolastiche di Alfredo, il protagonista: seppure sia passato qualche decennio, il mondo della scuola è radicalmente cambiato. Non ci sono più quei professori distanti e rigorosi, oggi è dovere degli insegnanti “capire” il ragazzino, seguirlo, assisterlo nei suoi processi di apprendimento, tenere conto di genitori sempre più protettivi, ossessionati da eventuali angherie e sadismi perpetrati dai docenti a discapito dei loro candidi figlioli. Il rigore di allora poneva distanza tra le parti, raramente si profilavano rapporti confidenziali, ma gli alunni studiavano, mettevano da parte duramente i beni per un futuro tesoro, assimilando un bagaglio per quando sarebbero stati più consapevoli. Mi trovo ad avere vissuto, da studentessa, tra due mondi: questo lambiccato e amorevole e quello, severo e arcigno di Sarullo. Stesso liceo, a distanza di qualche decennio: anche io incontrai professori che erano una caricatura, felici di incutere terrore, spesso però senza chissà quale bagaglio culturale da trasmettere; anche io non mi sentivo capita se davo una mia interpretazione a un testo; anzi, non arrivavo neanche a parlarne. Io? Come potevo osare il pensiero? Eppure non era sempre così e, con una professoressa di quegli anni parlo ancora e parlerò di libri, autori e correnti culturali. E magari parleremo insieme anche di questo libro. E allora mi accorgo che ogni storia a volte sembra la stessa storia di impressioni e di vissuto, un ciclo che fa il suo corso, composto da amarezze e incomprensioni, entusiasmi e misere cadute degli stessi.

 

E la città, Palermo, è forse la stessa? È quella degli oriundi di qualche altra parte, quella degli autoctoni, quella del malaffare. Oggi forse sono stati restaurati monumenti di prestigio, è stato riqualificato il centro storico. La copertina da offrire ai turisti è invitante, ci crediamo “il sale della terra” perché abbiamo il sole e il mare, ma poi facciamo la ressa davanti a un centro commerciale per l’offerta dei televisori. La modernità appare dunque una cancrena, necessaria da recidere in un corpo, il corpo di una città, che rimarrebbe comunque monca. Non è la città bellissima di cui parla Sarullo: “Molte le rovine ancora in vista, ma con una dominanza umana ancora prim’attrice. Immune da cliché e tecnologie, la città viveva grazie ai suoi viventi, tutti protagonisti. Sì, dominanza umana. Cioè prevalenza della rappresentazione che di sé faceva ogni siciliano, ogni palermitano. Ciascuno unico tra unici, ciascuno personaggio, con un proprio flusso e con un palcoscenico privato e spontaneo. E il mondo e gli altri attorno, simili e mai uguali. Ciascuno brandiva la propria identità, anche con leggerezza, e così dominava”. Questo mi manca, provo la nostalgia per un mondo immaginato che mi veniva narrato, di quando, vicino al Policlinico c’erano le case dei ferrovieri e poi solo giardini attorno. Come nel romanzo di Sarullo.

Allora mi accorgo che ognuno appartiene alla propria storia, ma che sono necessarie le vite degli altri, è necessario rivedere i luoghi conosciuti com’erano in altri tempi, immergendosi in una voluttà languida e crepuscolare dell’immaginazione. Latitudine palermitana fa appropriare della nostalgia di altri,  come Alfredo, il protagonista, che però, a un certo punto, dice: «Ai miei tempi». Fino a quando non verrà il tempo in cui anche io dirò: «Ai miei tempi», anche se forse lo faccio già.

Paolo Briguglia legge Latitudine palermitana

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