Giorgio Agamben: La follia di Hölderlin

Giorgio Agamben: La follia di Hölderlin

 

di Ivana Margarese

 

Le linee della vita sono diverse,

come sentieri sono, e come i confini delle montagne. 

Ciò che qui siamo, là un dio può completarlo

con armonie, eterno premio e pace.

Hölderlin, 1812

 

 

 

La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843 (Einaudi, 2021) di Giorgio Agamben è un saggio che offre una cronaca degli anni vissuti dal poeta in una condizione appartata e, a parte alcune visite saltuarie, senza relazione con gli eventi del mondo esterno. Il poeta abita nella torre sul Neckar, ospite nella casa del falegname Ernst Zimmer e di sua moglie, dove alloggerà per trentasei anni fino all’anno morte:

 «Nella clinica… per lui andava sempre peggio, – scriverà Zimmer molti anni dopo. – Io avevo letto il suo Iperione che mi era piaciuto in modo straordinario. Feci visita a Hölderlin nella clinica e mi rammaricai che una mente cosí sovranamente bella dovesse andare in rovina. Poiché nella clinica non c’era per lui più nulla da fare, il cancelliere Autenrieth mi propose di prenderlo nella mia casa, poiché non poteva immaginare un luogo piú adatto. Hölderlin era ed è tuttora un grande amico della natura e dalla sua camera poteva vedere tutta la valle del Neckar e quella di Steinlach». 

Il saggio si presenta già dal titolo come “cronaca di una vita abitante”. Non si tratta quindi di una storia né tantomeno di un’analisi psicologica; Agamben sceglie infatti di non tracciare una narrazione esaustiva o una linea interpretativa che segni una forma definita della vita di Hölderlin, quanto piuttosto di condividere precisi elementi, fatti e episodi: le date delle visite, le liste fatte per le spese del poeta dal falegname, e in seguito dalla figlia, gli scambi epistolari. Questi elementi di memoria privata vengono accostati alla cronologia della coeva storia d’Europa, quasi si trattasse di un montaggio che può aprire una costellazione di senso soltanto in questo reciproco rapporto di tensione:

Se e in che misura in questo caso – e, forse, in generale – la cronaca sia piú vera della storia, è una questione che sarà il lettore a decidere. In ogni caso, la sua verità dipenderà essenzialmente dalla tensione che, estraniandola dalla cronologia storica, ne rende durevolmente impossibile l’archiviazione.

 

Questo tensione è, alla maniera del conatus di cui parlava Spinoza, ciò attraverso cui ciascuna cosa persevera nel suo essere non per atto di volontà ma per abitudine, una vita abitante che diviene indicazione per il  lettore di una soglia, in cui, come scrive  il poeta Paul Celan nella sua raccolta Di soglia in soglia (“Von Schwelle zu schwelle”), non si può separare il sì dal no (Doch scheide das Nein nicht vom Ja).
Guardando attraverso questa soglia chi legge può intravedere nella condizione vissuta dal poeta qualcosa di comune a ogni essere umano e interrogarsi perfino su chi sia davvero folle, se il poeta stesso o chi illudendosi di parlare e definire nasconde il “balbettare” proprio della condizione umana con il frastuono della chiacchiera a ogni costo, del giudizio conclusivo, dell’etichetta o del titolo. Sono noti i saluti cerimoniosi con cui il poeta si rivolgeva a coloro che venivano a visitarlo: «Vostra maestà, Altezza, Santità, Grazia, Signor Padre, gentile signore» con altrettanti segni di cortesia e profondi inchini. Una bizzarria che era solita essere riportata come prova della follia del poeta, insieme al suo non riconoscersi più col nome di Hölderlin, ma firmare quasi tutte le sue poesie col nome di Scardanelli o più raramente, col nome Buonarotti, probabilmente in riferimento al rivoluzionario Filippo Buonarroti, nato a Pisa nel 1761 e morto a Parigi nel 1837, e che potrebbe tuttavia farci sorridere sulle nostre stesse pose o manie di “essere qualcuno”. Agamben sottolinea come sia significativo che i nomi apocrifi siano in questione ogni volta che si tratta per Hölderlin di attestare la sua posizione di autore: «Le poesie sono autentiche, sono mie, ma il nome (nella testimonianza successiva, il “titolo”) è stato falsificato». Il poeta pertanto riconosce come proprie le poesie, non ha dubbi sulla sua identità, è piuttosto una questione di nome. Questo testimonia come il paradigma tragico non possa dare una lettura esaustiva della vita del poeta della torre, infatti nella tragedia il nome esprime il nesso destinale fra un uomo e le sue azioni ed è unico e immutabile. Soltanto “nella commedia i nomi, che non identificano un destino o una colpa, sono casuali, sono sempre e soltanto nomignoli, mai veri nomi”.
Viene in mente una celebre poesia di Emily Dickinson (Amherst 1830- Amherst 1886), anche lei figura solitaria e appartata dal mondo, che mostra la fatica di essere qualcuno, quasi si fosse una rana che trascorre l’intero giorno a dire il suo nome a un pantano che sta ad ammirarla:

I’m Nobody! Who are you?
Are you — Nobody — Too?
Then there’s a pair of us!
Don’t tell! they’d advertise — you know!

How dreary — to be — Somebody!
How public — like a Frog —
To tell one’s name — the livelong June—
To an admiring Bog!

L’abitazione dell’uomo sulla terra neutralizza l’opposizione tragico/ comico perché è un semplice dimorare, una forma di vita anonima e impersonale che parla e fa gesti quotidiani, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi. Hölderlin era solito ripetere ostinatamente: «Es geschieht mir nichts», letteralmente: «non mi succede nulla». Trova conferma in questo saggio il principio metodologico di una non via, a-methodos,  secondo cui il tenore di verità di una vita non può venire definito esaurientemente.  Scrive Agamben:

Gli eventi, che siamo abituati a privilegiare come storici, non hanno nella cronaca un rango diverso da quelli che ascriviamo alla sfera insignificante dell’esistenza privata. Diverso è, però, il tempo in cui essa colloca gli eventi, che non è stato costruito, come quello storico, attraverso una cronografia che lo ha estratto una volta per tutte dal tempo della natura. È, piuttosto, lo stesso tempo che misura lo scorrere di un fiume o il succedersi delle stagioni.

I saluti cerimoniosi con cui il poeta teneva a distanza i visitatori rivelano una sottile ironia, presente anche nella cerimoniosa corrispondenza con la madre, che da sempre aveva mostrato un’assoluta incomprensione per le aspirazioni del figlio, e in alcuni comportamenti assunti con coloro che venivano a fargli visita: «Devo scrivere sulla Grecia, sulla primavera o sullo spirito del tempo?» oppure: «Guardi, gentile signore: una virgola!». «Poeticamente (Dichterisch) abita l’uomo sulla terra»( dichterisch wohnet der Mensch auf dieser Erde) scrive in alcuni versi che Heidegger ha lungamente commentato. Una vita poetica è una vita che vive secondo un dettato, cioè in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare. Agamben riporta all’inizio del saggio la poesia che Celan  nel 1961 scrisse a Parigi il 29 di gennaio, di ritorno da una visita a Tubinga, la città di Hölderlin:

Venisse

venisse un uomo

venisse un uomo al mondo oggi, con

la barba di luce dei patriarchi: dovrebbe,

se parlasse di questo tempo, potrebbe

solo balbettare e balbettare sempre sempre a a (Pallaksch. Pallaksch).

Pallaksch è un tentativo di articolazione balbettato che il poeta tedesco pronunciava attribuendole a volte il valore di un no, altre di un sì. La lezione di Hölderlin è che quale che sia lo scopo per cui siamo venuti al mondo, non siamo stati creati per il successo, che la sorte che ci è stata assegnata è fallire,  innanzitutto nell’arte di vivere. Fa la sua comparsa la costellazione letteraria dello scrivano di Melville e la sua legge del “preferirei di no” su cui Giorgio Agamben ha scritto insieme a Gilles Deleuze  in Bartleby, la formula della creazione. Come scriba che ha cessato di scrivere Bartleby è espressione della pura potenza, della tensione ancora non determinata. Revoca la supremazia della volontà sulla potenza. Da qui l’irriducibilità del suo preferirei di no.

La questione, per Agamben, non è se Hölderlin fosse o meno pazzo e nemmeno se egli abbia creduto di esserlo, quanto piuttosto che la follia gli sia apparsa come qualcosa a cui non poteva sottrarsi senza viltà, una condizione necessaria alla sua maniera di abitare la vita. La sua vita esigeva un esilio dagli uomini, “una vita più alta”. Scrive Hölderlin nel 1841, firmandosi Scardanelli, due anni prima della morte avvenuta nel giugno del 1843:

 “Badare alla verità, e un senso più alto e alcune rare domande.
Può l’uomo anche conoscere il senso della vita, chiamare suo fine il più alto, il magnifico, guardare il mondo della vita a misura dell’umanità e stimare l’alto senso come una vita più alta”.

L’ultima poesia che scrisse, firmata Scardanelli, è datata 24 maggio 1748, quasi oramai il poeta si trovasse al di là delle condizioni del tempo e dello spazio:

La veduta
Quando lontano va la vita abitante degli uomini, dove lontano splende il tempo delle viti
e vicini sono i vuoti campi dell’estate,
la selva appare con la sua scura immagine;
che la natura compia l’immagine dei tempi, che essa si fermi e quelli subito trascorrano,
è per la perfezione, l’altezza del cielo risplende per l’uomo, come alberi incoronati di fiori.

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