GRANDE KARMA – VITE DI CARLO COCCIOLI

GRANDE KARMA – VITE DI CARLO COCCIOLI

Dialogo con Alessandro Raveggi
a cura di Erika Nannini

 

Grande Karma, vite di Carlo Coccioli è l’ultima fatica di Alessandro Raveggi (Bompiani, 2020). Il titolo promette una biografia, ma in realtà narra di un’indagine tramite la quale si compie anche la ricostruzione della biografia che l’ha voluta. Abbiamo a che fare con un romanzo nel quale la vita di Carlo Coccioli (Livorno 1920 – Città del Messico 2003) recupera forma e sostanza mano a mano che il protagonista, Enrico Capponi, scova tracce del passaggio di Coccioli in giro per il mondo.

Il libro, uscito l’anno del centenario dalla nascita dello scrittore livornese, ha avuto il merito di segnare un cambio di passo nell’attenzione riservata all’opera di Coccioli della quale diciassette titoli sono ora in ristampa per Lindau.

A poche pagine dall’inizio è stato per me irrefrenabile il desiderio di verificare cosa fosse disponibile di Coccioli nel catalogo della biblioteca presso la quale lavoro. Se da un lato una piccola biblioteca di provincia non può promettere miracoli, è anche vero che il catalogo spesso datato di cui questi luoghi dispongono può riservare sorprese e, in effetti, ho potuto rintracciare due titoli entrambi stampati nel 1976, il mio anno di nascita: Davide e Manuel il Messicano.

 

 

 

“La linea della vita, nella palma sinistra, va letta secondo la direzione che è contraria a quella che io credevo: dinque non avrei vita lunga. 

 

O sì, non lo so…

 

L’altra sera, con un coltellino, l’ho allungata”

 

 

 

Prima di iniziare questa conversazione, vorrei chiederti come giudichi la selezione dei libri di Carlo Coccioli presenti nel catalogo della Don Giovanni Verità e, se dovessi indicarmi un titolo per implementare la collezione, quale mi suggeriresti.

Coccioli è un autore dalla fama ondivaga: autore di grandi classici “difficili” come Davide, che spesso ritorna e non manca quasi mai dalle biblioteche, ripubblicato per vari editori, come nel caso di Sironi e grazie a Giulio Mozzi, e che ebbe una grande fortuna all’estero, e sempre davvero poca in Italia, mi pare, a parte la selezione Campiello. Manuel il Messicano è invece un testo particolare, chissà imperfetto e furioso, dove il Coccioli distilla i suoi primi dieci anni messicani in modo ancora forse criptico e un po’ autoriferito alla cultura locale, ma in ogni caso assai innovativo per il panorama italiano, per quel suo sincretismo tra cultura cattolica e preispanica. Alla Don Giovanni Verità (nome che sarebbe piaciuto molto a Coccioli) non può non esserci però Il cielo e la terra. Chi conosce la vostra location e storia e allo stesso tempo il romanzo, lo può intuire. Ed è uno dei capolavori del romanzo del Novecento, ingiustamente poco letto e studiato. Dimostra che per un certo periodo il nostro Coccioli era il Bernanos italiano mentre altri autori giocavano a fare Hemingway.

Carlo Coccioli è un personaggio affascinante, istrionico, complesso, un groviglio umano che oscilla fra ambizione e frustrazione, un carico emotivo che lo spinge a abbandonare successi, relazioni e sicurezze in favore dell’ignoto, non importa che si tratti della terra o della religione in cui radicarsi. Nato a Livorno si sposta ancora bambino al seguito del padre, ufficiale dell’esercito Italiano, a Bengasi, poi a Tripoli, frequenta l’Università a Napoli, rientra in Toscana, si trasferisce a Parigi e muore a Città del Messico. In tutto questo le sue frequentazioni sono di primissimo piano: Malaparte, Cocteau, Chanel, Mauriac, Rivera per citarne solo alcuni. Se da un lato è chiaro che un autore possa restare affascinato da una vita del genere, m’interessa capire come e perché ha incastrato proprio te risucchiandoti nel vortice della sua esistenza.

Non sottovaluterei il fattore Italiano-All’Estero-In-Messico che sicuramente ha contribuito a farmi desiderare questa sorta di ilynx che ho vissuto con Carlo Coccioli e la sua vita straordinaria. Il romanzo l’ho scritto in relativo breve tempo, dopo diversi anni che ero tornato dal Messico, ma da molti anni ci ronzavo attorno, per le strade di Città del Messico avevo queste strane epifanie coccioliane: anche se rifiutavo di leggerlo, coincidenze significative e strane connessioni ed incontri mi riportavano a lui. Coccioli porta con sé qualcosa di magico, per come ha abbandonato le sue tracce per il mondo, per come ti attrae per poi a volte repellere, per come gioca coi suoi libri, una rete di rimandi unica, personaggi che ritornano, parlano di Coccioli, falsificano la sua vita, in una sorta di meta-autofiction molto romanzesca, poco cerebrale, molto decadente e patetica (nel senso di piena di pathos ed empatia). Da lì il mio inseguimento.

Rufino Tamayo – Animales, 1941

 

Le ultime parole di pag. 51 sono “48020 Lido Ariano (RA)”, leggerle è stato una sorpresa perché parliamo di un piccolo lido, il più sfortunato della ricca costa adriatica che va da Marina di Ravenna a Riccione, nel quale i miei genitori avevano un appartamento. Ho passato le estati della mia infanzia al bagno “Balena allegra”, poi, più tardi, Lido Adriano ha subito infiltrazioni mafiose che lo hanno mutato in un luogo tetro e pericoloso. Oggi non saprei dire come se la cava, nel frattempo il nostro appartamento è stato venduto e io non vi sono più tornata. Nel tuo romanzo però Lido Adriano gioca un ruolo imprevedibile, vi risiede Dio e scrive a Carlo Coccioli manifestando il suo amore per lui. In qualche modo tutto ciò che riguarda Coccioli è surreale al limite dell’inverosimile e sembra che la sua vita ante-Messico sia solo una lunga attesa del suo trasferimento nel luogo che più di tutti è, per l’appunto, surreale al limite dell’inverosimile, un luogo dove le cose misteriosamente si tengono invece di franare o deflagrare. Mi sono chiesta molto spesso, durante la lettura del testo, quale sia stata la ragione che ha consentito a Coccioli di trovare quiete in Messico, abbastanza da consentirgli di stabilirvisi in via definitiva, può forse essere questa?

Forse perché come diceva già Breton il Messico è la patria del surrealismo, ed anzi il reale supera spesso la surrealtà. O forse perché a Città del Messico Coccioli aveva scoperto quella chiave ubiqua che si trova nelle stesse sue strade. Sei a Città del Messico, ma giri l’angolo e sei in un pueblo di Oaxaca, e giri l’angolo ancora e sei a Los Angeles, nella Miami più opulenta o in un centro commerciale californiano, e giri ancora l’angolo e trovi un Palazzo in stile Opéra però progettato da un italiano e ti aggiri per un quartiere che pare parigino benché infestato dai colibrì. E così via. Credo sia questa ubiquità di Città del Messico che l’ha trattenuto, perché l’ubiquità è davvero la sua patria, la patria di Coccioli.

Il tuo personaggio, Enrico, si muove tra le tracce seminate da Coccioli nell’arco dell’esistenza, cercando di comporle, interpretarle e, nel frattempo, di tenere insieme sé stesso, ma mano a mano che scioglie l’enigma Coccioli è lui a dispersi. Questa architettura, quasi un contraltare, è un monito contro i rischi della propria ambizione e del fallimento che immancabilmente ne deriva? Lola rappresenta l’agnello sacrificale, il prezzo che dobbiamo pagare quando l’ossessione ci contagia?

Coccioli è un uomo che amava il fallimento, ma in modo molto abile: ogni fallimento era una rinascita. Enrico Capponi non può in fondo invece comprendere, vedere il proprio fallimento, per il suo background culturale e familiare molto limitato, lo devo dire, sulla sola cultura italiana. Ed è così un personaggio distratto, ancora più distratto del concentratissimo Carlo Coccioli, tanto da non poter calcolare gli effetti delle proprie azioni. Per questo alla fine, Enrico Capponi cade nel gorgo dei rimandi, dei rinvii, delle fughe di Coccioli, in modo se vuoi molto cinico e personale: tanto da sacrificare altri personaggi. Non aggiungo altro!

 

Rufino Tamayo – Perro ladrando a la Luna, 1942

 

È Interessante il quadro che il libro restituisce del panorama letterario in Italia, come Coccioli lo soffra trovandolo soffocante e provinciale al punto da spingerlo a partire alla volta di Parigi. Tu stesso vivi diviso tra Firenze e Città del Messico e questo è sicuramente un elemento biografico identitario tra voi. Cosa aggiunge e cosa toglie al tuo percorso di scrittore vivere due vite, diciamo almeno due, ma nessuna per intero.

Credo che sia una condizione oggi molto stimolante, sebbene faticosa. Prima di tutto, mi impone di pensare alla lingua che uso. Perché la mia lingua è sempre interferita dallo spagnolo e deve pensare sempre a come divincolarsi creativamente – e non sottovaluto nemmeno l’inglese, che da tanti anni uso per lavorare e che spesso riconosco in certe mie costruzioni. Questo trilinguismo è come detto una risorsa, ma anche un limite da lavorare e spostare sempre più in là – credo che il multilinguismo sia la vera sfida della mia generazione di scrittori. Poi c’è una dimensione temporale, specialmente con Città del Messico, mia seconda casa: vivo una sorta di doppia sensibilità: una della quali si sveglia alle 8 e attende che l’altra si svegli dopo sette ore, alle 15 della prima. Non credo nell’anima, ma forse un pezzo l’ho davvero lasciato là, impigliato tra i peseros e i taqueros con un jet lag perenne. E questo provoca in me un altro sdoppiamento: una doppia nostalgia, creativamente molto fruttuosa, ma psicologicamente davvero paradossale. Ma forse non si scrive perché abbiamo nostalgia di qualcosa che ci sta sempre davanti?

Carlo Coccioli frequentava con piacere gli artisti del suo tempo e le opere di Tamayo che accompagnano questa intervista non sono una scelta casuale, i due erano legati da un rapporto di amicizia cementato dal comune amore per questo nobile animale, il cane, che Tamayo ha ripetutamente rappresentato e di cui Carlo ha scritto. In Grande Karma questo amore emerge ovunque e persiste come memoria residuale nella figura di Javier, compagno e assistente di Coccioli, poi adottato dallo scrittore, che non smetterà mai di prendersi cura dei randagi che incontra.

Se vuoi il tema dell’animalismo (anche di marca induista) e di questo randagismo è presente in tutto il romanzo (e anche Enrico Capponi cade vittima un po’ di questo destino fino all’epilogo del libro), non solo sotto forma dei tanti cani, i cani di Coccioli che hanno costellato tutta la sua narrativa e vita senza mai mancare, fin dal cane che gli uccise un’auto presumibilmente fascista nella Tripoli degli anni Trenta, poi il cane Gec che del periodo partigiano, e i famosi cani messicani che lui sempre si portava dietro – e qui partirebbe un altro consiglio di lettura, il memoir “Requiem per un cane”, molto bello. I cani per Coccioli erano figure angeliche, e in quanto angeliche potremmo dire belle in quanto ambigue, libere e fedeli ad un tempo. Gli uomini, per Coccioli, sono una versione degradata di questi esseri, come riscoprendo la “luciferinità” degli angeli stessi, che non scalfisce invece la purezza dei cani. Ed è una visione credo molto affascinante, e attuale, oggi che parliamo a man bassa di animalismo e diritti degli animali. Anche in questo Coccioli è stato visionario e anticipatore, uno che si batteva contro il maltrattamento degli animali negli anni 50, quando nessuno ne parlava davvero. Se si volesse proseguire questo percorso, consiglio i racconti di “Uno e altri amori” che Lindau ha fatto davvero bene a ristampare – un libro davvero unico.

Rufino Tamayo – Litografia a colori, 1973

Immagino che gran parte dei lettori del tuo libro non avessero mai sentito parlare di Carlo Coccioli o, nel migliore dei casi, avessero qualche vaga reminiscenza (almeno questo è il risultato di un’indagine improvvisata fra gli utenti della mia biblioteca). Riflettevo su quanto possa essere diverso cimentarsi con la biografia di Dante, Michelangelo o Leonardo, è facile supporre che agli occhi del lettore ogni elemento non essenziale al dato biografico resti schiacciato, mentre nel caso di Coccioli ho avuto l’impressione che la necessità di doverlo prima recuperare abbia attribuito un sapore particolare all’elemento biografico, permettendo al testo di virare in maniera spontanea sulla forma romanzo e concedendo alla tua scrittura la possibilità di celebrarsi. Come è stato e cosa ha significato per te lavorare su un personaggio poco conosciuto?

Non dovevo demolire monumenti o raccontare lati oscuri di una biografia nota (che ne so, il Michelangelo omosessuale), avevo una grande messe di documenti inediti o ignoti da far scoprire ai lettori, e rischiavo tutto. Il personaggio Coccioli doveva essere memorabile senza essere monumentale, a tutto tondo senza essere troppo antipatico (sebbene abbia cercato di darne un quadro completo, una vita “rotonda” nei suoi pregi e nei suoi difetti). Questa è forse stata la vera sfida del romanzo: aver un personaggio completamente oscuro, con una vita intera da raccontare, anche nel suo elemento “corporeo”, e introdurvi il lettore. Per questo, forse molti dicono che Carlo Coccioli nel mio libro è quasi uno scrittore apocrifo. Ed io sono davvero contento di sentire ciò.

“L’essenziale, Dina, è che qualcuno o qualcosa, davanti a me, scappa, si sfuoca.
Io credo di non doverlo lasciare andare, di dovermi inoltrare in questa specie
di notte incognita. Inseguo lui perché lui ha scelto deliberatamente di fuggire”.

Biografia

Alessandro Raveggi (1980) vive a Firenze. Lavora all’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha fondato e diretto la rivista letteraria The FLR. Ha scritto un romanzo (Nella vasca dei terribili piranha, Effigie 2012), i racconti de Il grande regno dell’emergenza (LiberAria 2016), quattro raccolte poetiche, un libro su Italo Calvino e uno introduttivo a David Foster Wallace, e ha curato l’antologia di racconti Panamericana (La nuova frontiera 2016). Scrive di libri e cultura su riviste nazionali e internazionali, tra le quali Wired ed Esquire. È curatore della collana di narrativa straniera di LiberAria editrice.

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