01 Gen Variazione su Zancle
Variazione su Zancle
di Roberto Galofaro
Immagini di Isabel Emrich
Zancle è la falce, nella lingua antica dei siculi. Falce come di luna, luce discendente dal sole e riflessa nelle onde. La città vertice è chiusa dall’infinitamente aperto, un mare la confina e un ponte d’acque, di traghettatori caronti, ne gemella la sponda a settentrione. Si parlano, come divinità antropomorfe, Messina e Reggio, si fronteggiano e, nelle giornate asciutte, quando le schiarite mostrano il continente a un solo passo, l’isola sembra sfiorare la terraferma con dita di suolo. Le croste sulla superficie del pianeta si corrugano e increspano, mai immobili, segni dell’età sul volto della Pangea. Un tempo erano amanti, per certo, Reggio e Messina, quando avevano altri nomi in lingue remote non parlate dagli uomini.
Scilla e Cariddi, la ninfa e la naiade, albergano qui, nel tumulto delle acque.
Scilla, di sei teste ornata sopra lunghi colli d’anfibio, figlia di Forco e di Ceto, mostruosità degli abissi, o, secondo altri, discendente diretta del seme divino di Zeus. Occhi cerulei, si specchiava nuda alla riva di Zancle, quando aveva l’aspetto di leggiadra fanciulla: nel passato del mito c’è quest’ombra di quiete, bruscamente interrotta. Per amore della gioventù di Scilla, di lei innamorato, Glauco mezzo pesce chiese a Circe un unguento amoroso. La languida incantatrice provò invano a sedurlo. Al diniego di Glauco oppose vendetta e con l’inganno fornì un distillato di dura perfidia. Quello, sperando nel bene, versò in gocce malefiche ciò che credeva un farmaco erotico. E Scilla, bagnandosi ignara nello specchio d’acqua mutato in veleno, per l’ultima volta vide il suo proprio volto, per l’ultima volta i suoi occhi di cielo sfiorarono le dolci forme d’adolescente, il corpo di giovane donna esposto al sole e alla brezza. Di colpo, la maledizione della maga ebbe effetto: il candore della pelle si mutò in viscide squame verdastre, sulle spalle allargate altri colli oblunghi spuntarono in schiera come perversi germogli, coronati da teste di drago, e anche le gambe si moltiplicarono in zampe di serpe, orrendamente artigliate, mentre mani e braccia si accorciavano in pinne scivolose. La voce le rimase, ma non la parola: da allora Scilla emette un grido infinito, risuona sgorgando dal mare, dice tempesta e dice odio e proclama l’invendicata innocenza, mai macchiata da colpe e dannata per l’eterno. Una sorte gelosa ed amara la condanna alle viscere della risacca, di dove agguanta e morde i naviganti desiderosi di tornare al porto sicuro, spezzandone i legni in naufragi di miseria. Poco distante da Scilla, Cariddi alberga tra gli scogli aguzzi, prole del Mare stesso, Poseidone, e della Terra stessa, Gea. Dalla potenza di tali genitori eredita la forza sovrumana, ma non è sempre stata suscitatrice di vortici. Era un tempo una giovane naiade di appetiti smodati: fu questo a condurla all’errore fatale: assalì un giorno le greggi di Eracle per farsene cibo, e fu Zeus sempiterno a scagliare contro di lei la saetta della metamorfosi. E subito il fulmine la trasfigurò in bocca dentata, immensa, orribile a vedersi, e da quel giorno vagò senza requie finché solo qui, nelle profondità marine di una baia calabra poté trovare rifugio. Lì dove un intrico di alghe prensili artiglia le gole dei natanti, e il flusso s’avvolge in gorghi, inestinguibili come la sua fame, dimora Cariddi. Inesausta, minaccia di stringere nell’abbraccio mortale chi si trovi a passarle di presso, uomini e navi.
Bastioni della natura, Scilla e Cariddi, simulacri dello spavento da non oltrepassare, segnature del limite.
Alla ragazza i parenti hanno dato il nome del luogo, perché fosse d’auspicio benigno, avendo radici piantate nella terraferma. Zancle ha vent’anni e nel sangue furioso scintille di desiderio e pericolo. Non lo teme, il pericolo, Zancle, nella sua gioventù avversaria, la fronte alta, gli zigomi netti, gli occhi d’uccello rapace, mobili e nobili. Altèra è Zancle, pelle riarsa dal sole, non tiene mai basso lo sguardo, è femmina che sfida, come dice amaro il suo genitore, è ribelle ed è bella e cattiva. Zancle è figlia di marinai e conosce le storie dei Greci popolate di mostri, ma non vuole saperne di chiglie e di tavole e flutti e di reti pescose. Scende alla marina, rabbiosa e scalza, nella mattina che promette burrasca.
La ragazza Zancle quella striscia di mare vuole attraversarla una volta per sempre e scordare la città greca e latina e araba e normanna. Vuole risalire lungo il continente, vivere nella capitale di quello stato creato dagli uomini per gli uomini, nella città eterna degli etruschi e dei latini, l’ombelico dei due mondi, l’antico e il cristiano, la città saccheggiata dai lanzichenecchi, ricoperta di marmi dai pontefici e svenduta dalla mascella del duce. Dalla terraferma si aspetta la promessa di una stabilità e la strabiliante giostra dei futuri possibili. Non le importa del diniego paterno, non le importa che per la paura materna il mare sia tomba; se potesse, scalza com’è correrebbe d’un fiato sulla sua superficie, sfiderebbe con i passi la gravità d’ogni peso e d’ogni minaccia, a caccia di un miracolo, per dimenticare l’isola e rinnegare il passato. Di questo si tratta: mettersi in acqua, scansare il vortice mostruoso che frena e fa colare a picco, prendere il largo, veleggiare e approdare. Zancle sa e non sa tutto questo, un desiderio inquieto la muove e la incalza. Il suo destino è il suo demone, e non esiste miscuglio di erbe o magia che le possa mutare l’intento o la forma. Partirà domattina, una nave l’aspetta, imponente e sicura. Sembrerà che non sia mai staccata da terra, sarà come marciare, fatata, sulle acque fatali.
Biografia
Roberto Galofaro è nato a Palermo nel 1979; fino ai diciannove anni è vissuto a Gela, poi si è trasferito a Roma. Laureato in Lettere, ha abbandonato presto l’idea di insegnare Latino e Greco e ha cominciato invece a lavorare nell’editoria. Attualmente è caporedattore della Newton Compton. Collabora con “Cattedrale magazine” e con “Altri Animali” e ha scritto recensioni, interviste e racconti usciti su “Antinomie”, “inutile”, “Tuffi”.
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