Amadriadi. Le antiche custodi degli alberi sacri

Amadriadi. Le antiche custodi degli alberi sacri

di Roberta Schembri

 

Per raggiungere il Bianconiglio e il Paese delle Meraviglie, Alice sprofonda dentro un tronco cavo, con la sua gonna a palloncino che subito si gonfia facendole da paracadute.
Nella serie televisiva ormai cult Stranger Things, i protagonisti adolescenti attraversano un portale nascosto in un albero di Bosco Atro, punto di soglia tra il mondo reale e quello del mistero.
Entrambe queste storie, insieme a mille altre, come tutte le fiabe sugli Gnomi, sulle Salighe, o romanzi come Il Giardino Segreto, La spada di Shannara, o come nei cartoni di Miyazaki (uno su tutti Il mio vicino Totoro), potrebbero essere definiti “racconti del sottosuolo”, o “racconti dendritici” ossia “delle radici”.
In questa letteratura fantastica, l’albero si trasforma in ascensore, in un sommergibile pronto ad inabissarsi nell’ignoto, per catapultarci in una realtà parallela dove le leggi della fisica sono completamente sovvertite, dove i ricordi più lontani affiorano e in cui ombre scure e labirinti neri impongono di essere risolti.
Di tutti questi contenuti un tempo si incaricava la parte più verde delle Mitologia, quella in cui alberi e dèi erano una cosa sola. Molto spesso, però, i primi erano semplicemente sacri ai secondi: le divinità non abitavano gli alberi, ma affidavano a delle ninfe chiamate Amadriadi il compito di prendersene cura. Si narra che queste creature del bosco nascessero e morissero con l’albero stesso, a differenza delle Driadi, ninfe loro sorelle, che invece danzavano intorno all’albero senza tal fusionale intreccio di esistenze. Orfeo si innamorò perdutamente proprio di una di loro, la driade Euridice.


Fermiamoci un istante.
Vorrei che proprio ora, voi ed io, ci prendessimo per mano.
Perché adesso è di questo che sussurreremo. Stiamo per evocare una dimensione nascosta e portentosa che forse riusciremo ad intravedere senza smarrirci, attraversando questa soglia appartata, che un attimo fa sembrava non esistere, ma di cui ne stiamo intravedendo in controluce la filigrana dorata.
Un anfratto in mezzo ai rampicanti, trapuntato di eriche e muschi, ruvido come un vecchio cancello e fiocamente illuminato da una lanterna appesa a un ramo, proprio lì, subito oltre la soglia, che forse qualcuno ha tenuto accesa per noi.
Finché resteremo insieme, saremo esploratori dei regni dendritici, ma dobbiamo muoverci con cautela, perché il sacro non appartiene a noi, ma alle ninfe e ai custodi della natura.
Forse saranno le nostre antiche madri, le Meliadi, a venirci incontro per prime. Sono loro gli spiriti del Frassino, talmente incantevoli da essere state amate dagli uomini dell’Età dell’Oro: proprio dai frassini, racconta Esiodo, nacquero gli uomini dell’Età del Ferro, più rigidi e tellurici, meno fluttuanti rispetto ai loro progenitori. Eppure, secondo gli alchimisti, proprio le gemme dei frassini aiuterebbero le nostre articolazioni infiammate, provate dal lavoro fisico e dalla fatica.


Restiamo uniti e cerchiamo di muoverci in silenzio: in questo bosco non di rado sentiremo sospirare. Le pallide Betulle ospitano i nostri antenati, così ci raccontano tutte le leggende dell’animismo slavo: “Quando al primo soffio tiepido della primavera la vegetazione si risveglia, i contadini russi dicono: i morti hanno emesso un fiato caldo. Tutti gli Slavi si affrettano allora a cogliere i rami rinverditi di betulla e a introdurli nei villaggi e nelle case perché in quei rami hanno preso dimora le anime dei parenti trapassati” (Amadriade russa, A. Visinoni, 2011).
Forse anche il Poeta conosceva queste leggende: è nel Nono Canto del suo Inferno che sentirà dei lamenti provenire da un albero. Virgilio lo inviterà a spezzarne un ramoscello e un sangue nero colerà fino a terra. L’anima di Pier della Vigna tenuta in custodia nel tronco, tra sospiri e lamenti, racconterà la sua storia, pregando Dante, non appena tra i vivi farà ritorno, di restaurare la sua fama.
Virgilio d’altronde aveva già cantato nell’Eneide storie di alberi sussurranti. Torquato Tasso non fu da meno, conducendo il suo Tancredi nella selva di Saron.
Quante storie ci accompagnano, quante suggestioni ci avvolgono.
Forse aveva ragione il poeta russo Tjutčev:

“La natura non è ciò che voi pensate; Non è un volto cieco senz’anima; in lei vi è anima, vi è libertà, vi è amore, vi è una lingua…”.

Avanziamo, raccogliendo la rugiada con i nostri maglioni che sfiorano i cespugli, facciamone tesoro: l’acqua si fonde con l’intima essenza delle piante. Questo si tramandavano gli iniziati. Perché il viaggio della rugiada è senza fine: arriva dal cielo, si sofferma su ogni foglia, tanto da imprimere nei legami delle sue molecole memorie e conoscenza.
Siamo quasi al centro del bosco. Non ci siamo fatti incutere timore dai lamenti né dai fruscii, non ci siamo fatti trascinare via né abbindolare dai soliti vecchi trucchi delle Arpie e delle Erinni che, come le sirene di Ulisse, vogliono sempre punirci per essere quelli che siamo.
Entriamo nella radura. Il cuore del bosco che prima pareva impenetrabile e quasi minaccioso, non è più né “atro” né tetro, solo aperto: era vero, le nostre divoranti Erinni erano sempre state pronte a trasformarsi in Eumenidi, le benevole.
Bastava solo decidersi a volerlo.
Sono finalmente le Amadriadi che ora ci vengono incontro. Ci offrono dei doni. Perché elle sono coloro che animano, elle sono coloro che donano. Perché possiedono le energie degli Dèi, le forze inesauribili del Sacro Naturale.
Salutiamole come le salutò Goethe:

“Voi che abitate rocce e alberi/ o ninfe salutari/ date a ciascuno volentieri/ ciò che in silenzio desidera! Perché a voi e a ognuno che si fida di voi/ esseri caritatevoli e consolanti, / gli Dèi hanno dato/ ciò che agli uomini hanno negato”.

Si presentano, tutte e otto: Caria, che vive nel Noce; Balano, nella Quercia; Morea, nel Gelso Rosso. Con grazia infinita, pian piano, si animano anche il Pioppo Nero con la sua Egiro, l’Olmo con Ptelea, la Vite e il Fico, grazie ad Ampelo e alla dolcissima Fico, che del suo albero riporta il nome. Infine, per ultimo, ci accoglie il Corniolo con la ninfa Crania, così chiamata per le bacche dure dell’albero che anima, lucide e scarlatte, come le sue gote. Ci fa accovacciare tra le sue fronde, invitandoci all’ascolto: ci ricorda di essere stata simbolo dell’antica potenza di Roma. Ispirate da lei, anche tutte le altre, una alla volta, ci raccontano le loro storie, e noi le beviamo come rugiada, come se arazzi di antiche saghe riprendessero vita. Giunge il calar del sole. La nostra umana natura ci impone, prima che faccia buio, di tornare a dimora: perché, proprio come gli alberi, noi mortali apparteniamo tanto al regno di Sopra quanto a quello di Sotto, altro non siamo che piccoli ponti verticali tra Cielo e Terra. Il guardiano Verdebosco ci fa strada verso il ritorno, ricordandoci che siamo viandanti, temporanei ospiti psicopompi, fragili e immensi.
Tanta di quella saggezza e di quel vissuto affiorano ogni qualvolta evochiamo le belle Amadriadi.
E anche se ora, sillaba dopo sillaba, percepiamo l’imminente congedo, sentiamo il cuore gonfio, perché da adesso in poi, come dopo ogni incontro straordinario, saremo altri da noi, eppure sempre noi stessi.

 

3 Comments
  • Giordano Bruno Petrei
    Posted at 08:33h, 22 Dicembre Rispondi

    Mi piace. Molto. Molto mi piace!🙏❤️🙏

  • Graziano
    Posted at 08:55h, 22 Dicembre Rispondi

    È meraviglioso, si percepisce tutto il tuo amore, Roberta…. per lo scrivere, per i miti, per la Natura.

  • Maurizio Bacia
    Posted at 09:36h, 22 Dicembre Rispondi

    Evocativo ed emozionante… grazie! 🙏

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