Nanna, o L’anima delle Piante

Nanna, o L’anima delle Piante

di Roberta Schembri

 

Forse la prima Rivoluzione Francese l’ha fatta il Regno Vegetale, e non una volta sola, ma in un continuum spaziotemporale. Liberté, égalité e fraternité non sono idee nostre, ma trasposizioni dei princìpi vitali delle piante nel mondo umano.

“Le piante hanno un’anima”, dichiarava coraggiosamente Gustav Theodor Fechner, l’autore di Nanna, nel 1848, anno per l’appunto simbolo di azioni rivoluzionarie (seppur non in Francia o, almeno, non ancora).
Ogni pianta, per sua natura, da sempre si comporta come un suddito semicarcerato: cerca ossigeno, luce, stimoli, nonché contatti per riprodurre se stessa o per tramandare quell’idea assoluta che porta dentro sé.
L’autore nel suo saggio si cala con un tuffo a chiodo nel sentire della pianta:

“L’animale non ha alcuna simpatia per la rugiada, la scuote via da sé. Le piante invece espongono ombrelli per impadronirsi di essa, ogni foglia si allarga e si fa persino cava per questo scopo; tutta la pianta dà segni visibili di ristoro al sopravvenire della rugiada e della pioggia (…). Io penso che, quando al mattino le gocciole della rugiada si posano sulla pianta, questa senta un’irradiazione di frescura, e che, quando il sole si leva, essa sente il suo riverbero come un’irradiazione di luce. Lo splendore di un prato adorno di gocce di rugiada è, io penso, solo il riflesso della gioia psichica che lo riempie interiormente. È certo più bello raffigurarsi che la cosa stia così; ma io ritengo che non ci sia nemmeno alcun ostacolo ad ammetterlo” (pag. 55-56, Adelphi Ediz., 2008).

Ecco cosa succede quando un fisico e un filosofo si fondono nella stessa persona, come nel caso di Fechner, che non a caso sceglie Nanna, la dea del Mondo dei Fiori nella mitologia nordica, come musa a cui intitolare il suo libro.
Centocinquanta anni dopo, in Italia, comparirà sullo scenario scientifico e letterario un personaggio molto simile a Fechner, Stefano Mancuso, neurobotanico pluripremiato: con opere come le loro -fino a spingerci sulle note delle ispirazioni di Eckhart Tolle -, il mondo vegetale ci si anima sotto gli occhi, perché la loro visione è contagiosa. Gli alberi non saranno più scenario indifferente dei nostri vissuti, ma intimi compagni di viaggio, in una danza vitale che va avanti praticamente da sempre. Leonardo lo sapeva bene, e né Tolkien né Walt Disney erano ancora nati.

I boschi sono i primi che cita Dino Buzzati, nella frase-rivelazione del suo personaggio nel romanzo Un amore:

Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore.

Dai tempi dei druidi, dai Celti, dall’epoca pagana in cui gli alberi non ospitavano le divinità ma assolutamente le impersonificavano, dal Medioevo fino all’Umanesimo, su L’anima delle piante non c’era bisogno di discutere: era la nostra una percezione continua e assoluta, come la luce del giorno e il buio della notte. Indimostrabile, certo, così come non possedevamo i laboratori per analizzare la corteccia di salice e avere le prove della sua efficacia antinfiammatoria; eppure, noi sapevamo.
Non per via di un animo poetico o sognatore, anzi, piuttosto per uno spiccato senso contadino, pratico e di interconnessione con l’intero mondo vivente, come Virgilio e Ovidio così magistralmente sapevano descrivere.
Esisteva un tempo in cui eravamo molto più simili ai Na’vi, l’azzurra e slanciatissima tribù di Avatar, che non agli smartphone-people che siamo diventati oggi.
Tanto più ci siamo distanziati dall’anima mundi, tanto più abbiamo perduto conoscenza, sprofondando in un senso di nostalgia perenne, non di qualcosa che non abbiamo mai avuto, ma forse che un tempo avevamo e che abbiamo dimenticato.
Abbiamo cercato la vita andando su Marte, senza ancora aver compreso quella che abbiamo sotto il naso.
Grazie alle missioni aerospaziali, però, una cosa l’abbiamo avuta definitivamente chiara, come dice Mancuso: “la vita è merce rara in questo universo”.

Sentire le piante, come il regista Ermanno Olmi che diceva: “Ogni volta che passo davanti a un mandorlo in fiore mi tolgo il cappello”, o come Montale, con il cuore finalmente in disgelo davanti al giallo dei limoni che compaiono abbaglianti da un portone semiaperto, in quest’ottica, non sarà più solo affare dei creativi o dei poeti.
L’ecologia, infatti, ha un etimo profondo e universale, perché “oikos” vuol dire casa.
Scrive Camilleri nel suo La pazienza del ragno:
“Montalbano telefonò a Marinella. Livia era appena rientrata, felice. “Ho scoperto un posto meraviglioso, sai? Si chiama Kolymbetra. Pensa, prima era una vasca gigantesca, scavata dai prigionieri cartaginesi”. “Dov’è?”, chiese Montalbano. “Proprio lì, ai templi. Ora è una specie di enorme giardino dell’eden, da poco aperto al pubblico… Promettimi che un giorno o l’altro ci vai”.
Ecco, io non solo ci sono stata ma ci sono andata con un uomo difficile, tendenzialmente cinico, quasi sempre nel disincanto, con poca considerazione generale sulla razza umana e che, dopo la pensione, si è chiuso in sé e nelle sue abitudini: ho portato mio padre a Kolymbetra il giorno dell’Epifania di due anni fa. A mezzogiorno di quel 6 Gennaio c’erano quasi venti gradi, si stava in maglietta e il cielo era così terso da abbacinare.
Siamo scesi a Kolymbetra per venire subito investiti da un profumo di zagara senza uguali.
Gli oli essenziali, per il mondo vegetale, equivalgono ai nostri ormoni: sono le molecole più piccole che la pianta possiede, eppure in grado di produrre effetti macroscopici dentro la pianta stessa e tutto intorno. Il profumo del rosmarino, dei bergamotti, quegli aranci talmente carichi da piegare i loro rami quasi fino a terra, tutto era un tripudio di vitalità, di quella “gioia psichica” descritta prima, un’esultanza talmente immensa da sbaragliare ogni cinismo, ogni malumore.
Peccato non avergli scattato una foto, perché gli occhi commossi di mio padre, dopo tanti anni di indifferenza se non di fastidio verso il mondo, potevano diventare per me la nuova copertina del libro di Fechner.
Non solo le piante possiedono un’anima ma, tramite un assoluto mistero, tramite una misericordia celeste, la condividono con noi, come noi condividiamo la nostra con loro e con tutto il mondo vivente, dove l’amarezza e il senso di solitudine non hanno e non hanno mai avuto, a ben pensarci, ragione d’esistere.

 

5 Comments
  • Giordano Bruno Petrei
    Posted at 11:44h, 14 Dicembre Rispondi

    Magico, inebriante profugramma. Grazie per averci accompagnato dentro questa meraviglia!

  • Kristina Gesualdi
    Posted at 05:10h, 15 Dicembre Rispondi

    i like this outstanding post

  • Maurizio Bacia
    Posted at 09:09h, 15 Dicembre Rispondi

    Incantevole, grazie ❤️

  • giselle signoroni
    Posted at 22:44h, 15 Dicembre Rispondi

    Queste parole dicono molto. Grazie. “ Peccato non avergli scattato una foto, perché gli occhi commossi di mio padre, dopo tanti anni di indifferenza se non di fastidio verso il mondo, potevano diventare per me la nuova copertina del libro di Fechner.”

  • Evelina Kellner
    Posted at 07:42h, 16 Dicembre Rispondi

    Grazie per l’interessante articolo e per averci ricordato i profumi presenti e fortemente percepiti nel giardino della Kolymbetra.

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