Trilogia delle donne dell’acqua

Trilogia delle donne dell’acqua

Dialogo con Marilena Lucente

a cura di Ivana Margarese

 

 

Come è nato il progetto di questo libro?

Ogni libro nasce prima da un sogno, un desiderio, un’urgenza. Poi diventa progetto. Il progetto è l’impegno concreto, la forma che si riesce a dare a quell’insieme di segni ed emozioni che sono le parole.
Alcuni anni fa avevo scritto un testo dedicato a Ulisse e Penelope, prodotto e messo in scena da una realtà molto bella della città in cui vivo: il Teatro Civico 14 di Caserta.
Ma Penelope continuava a suggestionarmi, era come se non l’avessi conosciuta abbastanza, soprattutto nel rapporto con le altre donne, con le ancelle, che avevano trascorso con lei tutto il tempo durante l’assenza di Ulisse, erano state, verosimilmente, le amiche di Telemaco, sicuramente molte sue coetanee. Uccise, tutte. Ragazze vissute su un’isola, accanto ad una regina. E così ho incominciato a cercare le donne dell’acqua.

Protagonista del libro è l’acqua complice e custode delle narrazioni femminili. Immagino sia un’idea che conservavi da tempo. Puoi spiegarmene la genesi?

L’acqua è il mare, la vita, l’elemento da cui veniamo. Questo lo sappiamo tutti, questa è la genesi. E’ l’acqua di cui siamo fatti che ci fa vibrare, nella vita. Anche quando non ne siamo consapevoli.
Quanto a me, nella mia biografia ci sono interi pomeriggi trascorsi in una piccola cittadina di mare, non lontano dal paese dove sono nata. Mio padre mette me e le mie sorelle nelle barche a giocare, e ogni volta leggo il nome di una donna scritto sul fianco: Maria, Regina, Stella, Rosa. Ogni barca, sul fianco, il nome di una donna. Sul porto gli uomini a riparare le reti, più in là a vendere il pesce, a sistemare le lampare. Nessuna donna tra mare e terra, se non quei nomi. Dov’erano quelle donne? Cosa stavano facendo? A chi stavano affidando le loro parole? Ho scritto per ascoltare quelle che tu chiami “narrazioni femminili”.

Didone viene nel tuo racconto restituita al coraggio che le è proprio. La Regina non fugge vigliaccamente, ma assume su di sé il peso della perdita di quella che per le donne era considerata la virtù necessaria, il pudore, e si dà coraggiosamente la morte. Enea segue il dovere, la dignità, il compito affidato dagli dei, ma vigliaccamente decide per sé e per lei senza confronto organizzando la partenza senza alcun avvertimento.

Didone è la figura dell’abbandono. Ha già conosciuto il dolore che nasce dagli uomini. Il fratello l’ha tradita, suo marito è morto, Iarba non voleva darle la terra. Per essere Regina ha dovuto attraversare il deserto, conosce le tempeste della sabbia e i loro effetti, imparerà dopo anche le burrasche del mare, e tutto quello che può venire. Ma è talmente tanto audace che ha costruito una città sull’acqua: Cartagine. Poi il vento, il vento contrario che porta Enea al suo palazzo, il vento che fa la vita, il desiderio di vivere che dà l’amore nonostante la paura che fa. Non sono riuscita a scrivere la maledizione, non sono riuscita a dare a Didone, alla mia Didone, quella disperazione che nasce dal rinnegare un amore. Per questo preferisce la morte, che arretra solo davanti ai sentimenti: “gli amanti muoiono, l’amore no”.
Enea è incapace di dire addio, almeno in quella fase della sua vita. Ma rinunciando a quell’amore sarà chiamato a dire addio molte altre volte a molte altre cose. Le rinunce hanno sempre un pezzo altissimo.

 

Medea è nel mito la straniera, il suo linguaggio e le sue azioni sono incomprensibili. Tuttavia è un mito che si è offerto a numerose riscritture e che pertanto sembra parlare profondamente a ciascuno di noi.

Medea è una figura ricchissima, di gesti, di voci, di suggestioni. Di tutte le donne del mito lei è quella che resta dentro, parla di una audacia tutta femminile, è stata la prima ragazza a salire sulla nave, Argo. Ha lasciato tutto per amore: una treccia sul letto di sua madre, un padre vendicativo, una terra, un palazzo bellissimo. Non vedeva niente altro che Giasone. Lo straniero. Partendo però la straniera è diventata lei. Giorno dopo giorno, attraversando confini invisibili, il mare, la terra, gli occhi degli altri. E poi la fine di un amore, per un’altra donna, e anche questo ti rende straniera. L’indicibile è il non aver creduto nei figli. Nel suo amore per i figli. Questo ci turba, e questo può accadere e accade, con mille sfumature. Dopo aver ucciso i figli, Medea ha due mani sconosciute, straniere anche loro. Deve essere stata una sensazione fortissima, un dolore indescrivibile, avere mani che non senti tue.
Abbiamo imparato ad avere parole per tutto, dal blando e rassicurante “andrà tutto bene” all’aggressività imperante in ogni angolo del web. Solo una madre che perde i figli ci ammutolisce, ci toglie il fiato. Per questo, come scrivi tu “sembra parlare profondamente a ciascuno di noi”, alle nostre mani, alle parti di noi che ci fanno paura. Se noi restiamo in silenzio, i miti ci parlano.

Leghi Penelope al valore dell’attesa. Qual è la tua opinione invece su Ulisse, l’eroe multiforme, che ricorre a inganni e strategie come fossero l’unica cosa necessaria alla vita?

Sono sempre stata innamorata di Ulisse! Scherzo, ma non troppo… Quanto basta per riconoscere che a Ulisse dobbiamo tanto nel nostro modo di vivere il mare, di viaggiare, di avventurarci nei territori impervi della narrazione, dell’amore, della nostalgia. E della finzione, certo.
E’ il primo matto della letteratura, ad esempio. Perché finge la follia pur di andare in guerra. Lui stesso era suggestionato dalla sua mente, come dalle sue mani, dalle cose che sapeva creare. E dalle bugie che sapeva inventare. Anche le bugie sono mondi, territori, luoghi in cui trovare se stessi. Non credo fossero la sola cosa necessaria alla vita, per Ulisse. Ma sicuramente da re, da guerriero, da uomo di mare ha conosciuto bene gli inganni, li avrà subiti e li avrà usati, ne ha conosciuto i vantaggi, le scorciatoie. Ha vinto, grazie alle bugie. Ma anche grazie alle strategie, che sono cose ben diverse. Atena “occhio azzurro” glielo diceva sempre: “pensa una cosa, dì un’altra”. La sua identità si è costruita su questo scarto tra pensieri e parole, la sua mente arguta è cresciuta qui, in questa strettoia. Ma Ulisse non ha mai temuto i limiti, le mancanze, le sottrazioni. Tanta della sua grandezza nasce da lì.

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