Dissonanze (o riflessioni fuori tempo)

Dissonanze (o riflessioni fuori tempo)

Racconto e immagini di Samuele Mollo

 

L’onda sulla risacca non sa ripetersi uguale una seconda volta. Ma è solamente cambiando che resta sempre la stessa. Obbedisce soltanto al vento, che la disegna increspando la superficie dell’acqua.
Il suono, come una nenia, cancella il tempo. Allora basta chiudere gli occhi un istante per uscire dal tempo, come fa l’onda.
Sullo sfondo scuro e omogeneo delle sue palpebre chiuse correvano linee di luce e riflessi in grado di ricomporre scene lontane, perdute nella memoria.
Quando gli capitava di rifugiarsi così spesso nel buio dei suoi occhi, capiva che era tempo di ritornare.
Ma qual è lo scopo di un lungo viaggio, se laggiù non c’è più nessuno?
Dove sono andati tutti?
Il tempo li ha portati via con sé, risparmiando gli oggetti, che diventano così preziosi scrigni in grado di custodire tracce di antichi presenti. Un piatto di porcellana sbeccato, un bicchiere la cui vitrea trasparenza è minacciata dal calcare, una vecchia radio valvolare con i tasti scoloriti, ogni piccola traccia materiale e inanimata diventa scoglio che si erge all’orizzonte, oltre la linea indistinta del mare, mentre tutte le persone che hanno mangiato, bevuto e ascoltato ora sono quell’acqua che si infrange senza forma sulla dura roccia.
La memoria è ciò che resta del passaggio dell’acqua tra le pietre, dopo che l’onda si è ritirata.


Il tempo è un segugio instancabile, capace di osservare da una certa distanza la sua preda, limitandosi ad attendere che essa cada, sfinita, e si arrenda.
Spesso, quando quel medesimo vento che increspava il mare laggiù sembrava portargli da molto lontano quegli odori, pensava a quelle onde lontane, al suono che da esse sprigionava, alle migliaia di minuscole gocce vaporizzate che, a ogni impatto sulla risacca, si liberavano e gli accarezzavano il volto, riattivando le sue narici. Poteva quasi sentirle, anche quando era seduto di fronte alla sua minuscola scrivania, nel suo minuscolo ufficio, davanti al monitor del pc, con la schiena dolorante e la mente atrofizzata da una penombra costante e artificiale.
Ricordava ancora il suo primo giorno lì dentro. Un’illusoria felicità, la soddisfazione di essersi ritagliato una piccola fetta della torta del successo; finalmente anche lui poteva sedere sorridente al tavolo della contemporaneità. Ricordava anche l’uomo che, con una cravatta impeccabile e un affettato orgoglio, gli aveva mostrato per la prima volta la sua postazione, al quinto e ultimo piano di un anonimo palazzo, lontano dal sole per gran parte dell’anno.
Ora quello stesso sole, umiliato e offeso, sembrava volerlo ridestare attraverso i suoi occhi chiusi, dove cominciarono ad apparire cristalli di luce, disseminati sulla superficie dell’acqua con ancestrale magia. Uscì da quel palazzo e finalmente lo vide, basso all’orizzonte, in un tramonto che esasperava le ombre e distorceva i colori, accendendo le strade di pennellate espressioniste.
Mosso da questo richiamo provò allora a giocare d’anticipo. Radunò tutta l’energia rimasta per partire; sentiva che la malinconia aveva iniziato a corrodere le cime con cui restava aggrappato alla realtà. Non poteva più aspettare.
Bisogna prendere il mare prima di abbandonarsi alla deriva. L’enorme distesa blu appariva così spesso tra quelle luci, sulle palpebre chiuse, come una tentazione irresistibile; dal silenzio in cui si rifugiava, ne riemergeva puntuale lo sciabordio.
Ciò che l’onda colpisce sulla risacca, porta via con sé. È un pensiero ricorrente, che riprende vigore ogniqualvolta il suo corpo incontra l’acqua. È un rito che si ripete, eterno come l’onda stessa, che rinvigorisce l’illusione di potersi liberare da quella stretta morsa.
Delle volte apriva gli occhi, per guardarsi. Chi è quel tizio strano, dal viso affusolato e dallo sguardo torvo, nello specchio? Che cosa fa, lì dentro, costretto in un perimetro angusto? Non poteva sostenerne a lungo lo sguardo; ancora pochi istanti e avrebbe cominciato a insinuarsi in lui il sospetto di essere a sua volta incastrato in un perimetro chiuso tanto quanto lo specchio, ma più reale.
Ecco il perché di quell’orribile espressione.
Oltre il riflesso la libertà è appena fuori dal confine, arbitrario e fittizio; basta allontanarsi e svanisce.
Allora meglio non farsi troppe domande; meglio chiudere gli occhi e soffermarsi ancora sulle linee di luce, suoi personalissimi confini; cambiano ogni volta pur restando sempre uguali, come l’onda sulla risacca.
Il ricordo vuole ricongiungersi alla realtà, che invece gli sfugge, per diventare ricordo a sua volta; così accade che non si possano più distinguere, come i riflessi dello specchio. Ci sono quattro occhi, ma soltanto due sono reali. Ci sono due stanze, ma una non esiste. Ci sono due mondi, ma la vera libertà si nasconde, inaccessibile, nell’altro. Sempre nell’altro.
Delle volte gli basterebbe fermarsi; si accorgerebbe di essere finalmente arrivato. Potrebbe nuovamente riassaporare il gusto, sempre lo stesso, di quel luogo, di quegli oggetti. Calpestare il medesimo suolo.


Ma arrivare non è altro che aprire gli occhi.
Il tempo trascorso lontano trasforma la realtà in semplici immagini. Per anni ha continuato l’ostinata ricerca dell’immagine fissata nel ricordo. Da quei tentativi nasceva sempre una terza immagine, nuova, caotica, incomprensibile, anche quando cercava di ripetere gli stessi gesti, come uno sciamano. per ricondurre il ricordo alla realtà e cancellare, con un solo gesto rituale, ogni distanza.
Spesso si è fatto aiutare dalla musica. Non tutta, solamente quella con cui riusciva a riempire velocemente, con il calore di una voce o il riverbero di uno strumento, il vuoto lasciato dentro di lui da tutto ciò che aveva perduto. Nient’altro che un’illusione, come una sostanza psicotropa in grado di annientare, seppur per pochi istanti, i dolori che il tempo infligge alla sua anima.
In un caldo pomeriggio d’estate, mentre la calda brezza intrisa di salsedine faceva oscillare le tende dando l’impressione che la casa stesse respirando muovendo il suo pesante torace di calce e mattoni, sono ritornati quei pensieri, sempre i medesimi, intenti a disegnare linee luminose sulle palpebre scure. Il mare era là fuori, a pochi passi, ma per riuscire a vederlo doveva continuare a disegnarlo con la luce.
L’abitudine aveva stravolto la realtà, trasformandola in sogno, come lo specchio.
Eppure era arrivato in tempo per vedere il sole cominciare finalmente a ritirarsi, esausto, oltre la montagna il cui profilo era già avvolto nell’oscurità. Come le luci nelle stanze di un castello, si spegnevano una ad una le case con le loro finestre, e gli angoli delle strade venivano lentamente ingoiati dalla notte.
L’ombra si avvicinava avvolgendo dapprima le pietre, poi, con sempre maggior fiducia e vigore, si gonfiò, fino a raggiungere le cime più alte degli alberi, che si esaurirono come l’ultimo focolaio di un incendio.
Ripensò alla sua partenza, al momento esatto in cui prese la decisione e lasciò il palazzo. Anche allora il sole era in declino.
La notte è una compagna di viaggio migliore, pensava, più intima e discreta. Non intacca la sacralità del cammino e protegge dai sacrilegi che, di giorno, ne svelano senza vergogna il magico mistero.
Ma qual è lo scopo di un lungo viaggio se il tramonto dal quale fuggiamo mi accoglie all’arrivo?
Continuava a chiederselo mentre il vento, ancora una volta, disegnava sul suo volto i primi tratti di quello che sarebbe presto diventato un nuovo, vecchio ricordo.


Biografia

Samuele Mollo

Torinese, classe 1986, giurista per scrupolo e fotografo per amore, attualmente si occupa di comunicazione e social media, con incursioni nel mondo dell’arte nella doppia veste di curatore e artista. Il suo interesse per la scrittura si sviluppa, inevitabilmente, dalla passione per la lettura. Dalle numerose e mutevoli sensazioni, riflessioni, emozioni accumulate grazie a Dostoevskij, Kafka, Hesse, Pavese, D.F. Wallace e molti altri, ha già visto la luce Viaggio al termine del giorno, romanzo breve e opera prima, pubblicata per i tipi de La ruota edizioni nel 2017, oltre a un saggio su D F Wallace pubblicato nel 2018 sulla rivista culturale Graphie e numerosi racconti, alcuni dei quali premiati in concorsi letterari.

No Comments

Post A Comment