Il diluvio

Il diluvio

Racconto e immagini di Giorgio B. Scalia

 

Piove. Sono fuori e non ho l’ombrello. Maledizione a me e a questa pioggia. In campagna non c’è nulla sotto cui ripararsi, solo erba e rovi imbevuti d’acqua. Cammino sotto gocce quasi invisibili, però ne sento il suono appannato, sugli steli dei fiori e sulle foglie, e altre gocce che si spezzano sulle spine acuminate di rovi disseminati a chiazze, e sulle loro bacche ancora acerbe. In poco tempo le mani si fanno a grinze e i miei abiti assorbono il peso dell’acqua che cade dal cielo. Un tetto di ovatta grigia o di cenere condensata sovrasta la ricerca di un riparo, mentre le scarpe si fondono col fango che mi si avviluppa alle suole e ogni passo è più grave e pesante del precedente. Minuscoli torrenti iniziano a scavare la terra e la mia testa di capelli molli, che come vermi striati di bianco mi serpeggiano sulla fronte. Poi un bagliore tra le nuvole e all’istante l’aria si frantuma. Non so perché, mi abbraccio la testa e corro.
È il diluvio.
Il suono è assordante, tremo per il freddo o forse per le note deliranti di queste gocce infinite, un muro che scroscia e piomba dall’alto un pezzetto per volta. Digrigno i denti e sputo la pioggia che m’impregna le labbra. Provo ad aguzzare lo sguardo verso l’orizzonte, ma di questo non c’è traccia, solo acqua e ancora acqua. Ho voglia di urlare, ma se apro la bocca potrei morire affogato. Il fango ha ricoperto le scarpe, è come indossare delle sabbie mobili. Faccio un passo e rimango scalzo. I piedi sono rattrappiti, le dita dure come la ghiaia che a tratti calpesto, ma fragili e umettate come la lumaca senza il suo guscio. Avanzo e squarcio la pioggia con il braccio, quasi fosse una foresta di liane e io in mezzo alle fronde con un machete.
Arrivato a un crocicchio che spezza il sentiero in una lingua di serpe c’è un grosso albero. I suoi rami sono braccia carnose ricoperte di foglie. Finalmente un riparo. Mi appoggio al tronco. Le foglie sopra la mia testa diventano uno xilofono verde suonato dall’acqua e ognuna sprigiona un suono diverso, è quasi rilassante. Sospiro e chiudo gli occhi per scacciare tutti i nervi e la rabbia che mi hanno sorpreso solo e imperato, alla mercé di questo diluvio che vorrei tanto soffocare.
Aaaaa.
Giro attorno al tronco e cerco di capire da dove proviene quell’urlo agghiacciante. A metà del cerchio sbuca un bambino venuto da chissà dove, è biondo, e il suo caschetto e i vestiti sono completamente asciutti.
Chi sei?
Io sono Carmelo, ma mi chiamo tutti Melo. Tu chi sei tu?
Non te lo dico.
Sei proprio un impertinente, non ti hanno educato ad avere rispetto di chi è più grande di te?
No, io mio chiamo Non te lo dico.
Che nome è?
Parli tu che ti chiami come un albero.
Si arrampica sul tronco e coglie una mela che prima non c’era. La mangia in tre bocconi e sputa i semi vicino ai miei piedi scalzi, lo guardo storto.
Da dove vieni? Non ti ho visto arrivare.
Sono sempre stato qui. Sei tu che sei arrivato dopo di me.
La sua voce non sembra umana ma gronda insieme alla pioggia e vi si confonde.
Ecco perché sei asciutto.
E tu dove stai andando, che ci facevi sotto la pioggia?
Non lo so, stavo camminando e ha iniziato a piovere.
Stavi tornado a casa?
No. Non lo so, camminavo e basta. Ora che ci penso, non so che ci faccio qui.
Da dove vieni?
Dalla campagna che c’è laggiù, prima del sentiero.
Perché sei uscito di casa con la pioggia?
Non sono uscito, ero già fuori quando a iniziato a piovere.
Tu sei uno stupido che non vuole vedere le cose del passato, e vieni qui per rubarti il mio albero. Non c’è posto per te.
Il bambino comincia a prendermi a calci sugli stinchi e cessa di parlare.
Fermo, mi fai male, nessuno ti vuole rubare niente. Appena smette, me ne vado.
Lui è sordo e continua a darmi calci, ora sono più forti. Provo a schivarli senza mai uscire da sotto le fronde ma lui riesce sempre a colpirmi, mentre dal cielo continua a rovesciarsi una fiumana di pioggia aguzza.
Basta, smettila.
Bambino disgraziato, vorrei tanto dargli un ceffone e insegnargli un po’ di educazione. Calcia i miei stinchi, prova a calpestarmi i piedi nudi con quelle sue scarpe da calcetto con dei tacchetti come spilli.
Finiscila, bastardello!
Giuro che adesso ti afferro per quei capelli a scodella e ti lancio nel fango. I suoi calci continuano, piccoli martelli che mi fanno diventare matto.
Sai che c’è, Gioele? Fai quello che vuoi!
Gli do uno spintone e lui ruzzola per tre metri sull’asfalto ruvido, perde una scarpa, il suo corpo bambino diventa ragazzo e il suo casco rotola scorticato lontano da me, e mi sveglio.

 

Ho la faccia colata di pianto, mi tampono le guance con il lenzuolo e poi osservo mia moglie dormire beata. Provo una pena indescrivibile per il male che, come me, ha dovuto subire. Vorrei darle una carezza, ma non ce la faccio e mi metto seduto sul bordo del materasso.
Melo, tutto bene?, mi chiede con la voce che sa di letargo interrotto.
Sì, dormi, tranquilla. Vado in bagno e torno, lei non risponde, neanche il tempo di finire la frase nel buio della camera, che già i suoi occhi sono tornati chiusi al sonno.
Mi alzo e percorro il corridoio un po’ a tentoni, qualcosa mi dice di non camminare oltre. Vedo la porta del bagno, da fuori entra arancione la luce della strada. E prima di questa una porta chiusa da tre anni, non a chiave, ma chiusa per sempre. La stanza non è più di Gioele, è di nessuno. Una camera segreta in bella vista per far mostra dell’assenza e del dolore che tiene imprigionati al suo interno. Eppure, continua a uscire come gas lacrimogeno da sotto la porta e invade tutta la mia vita nel sonno e pure nella veglia. È da quando non c’è più che faccio sempre lo stesso sogno.
Avevamo litigato perché quel pomeriggio non voleva studiare. Allora l’ho sgridato, ho battuto la mano sul tavolo e lui è saltato dalla sedia. Era sabato e voleva andare alla partita di calcetto. Mi ha detto che sono uno stronzo assolutista e che non ho mai saputo divertirmi. Mi ha detto che non si poteva sempre studiare. Io, più arrabbiato di prima per il suo disprezzo da adolescente, scatto in piedi e gli sto per mollare uno schiaffo, la mano mi trema per i nervi, ma la tengo ferma dentro la tasca e gli dico: «Sai che c’è, Gioele? Fai quello che vuoi!». Lui afferra le chiavi e il casco della sua Vespa ed esce fuori di casa quasi correndo.
Diciassette minuti dopo, diciassette come gli anni che avrai sempre, i carabinieri bussano alla porta di casa e mi accompagnano a quell’incrocio nero, dove tu, Gioele, hai smesso di essere mio figlio e sei diventato del cielo, come la pioggia del mio sogno.

 

Biografia

Giorgio B. Scalia

Nato a Palermo nel 1991, da tre anni vive a Torino. Diplomato in Sceneggiatura all’Accademia del Cinema di Bologna, lo scorso anno ha conseguito il diploma alla Scuola Holden e ha fondato la rivista Voce del Verbo. Ha vinto una menzione al Premio InediTO 2019 con la sceneggiatura del cortometraggio Garage e una menzione al Concorso letterario Tre colori 2020 con la sceneggiatura del corto Cella. Ha pubblicato su Neutopia, Lunario, Spazinclusi, L’irrequieto, Critica Impura, Blam, Corriere della Sera, Fillide, La nuova carne e a breve su Bomarscé. Due suoi racconti sono stati pubblicati su due antologie edite da Historica Edizioni.

 
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