Specchi

Specchi

 di Elisabetta Costanzo

Immagini di Street art raffiguranti Sante e Madonne

 

Si erano conosciuti su una corriera diretta verso la montagna. I sedili logori e macchiati; quell’odore di vite consumate in uno spazio compresso, troppo stretto; i finestrini aperti a metà per far entrare l’aria, il rumore del vento.

Lui era già lì, quando lei era salita a bordo. Aveva capelli scompigliati e occhi stanchi da viaggiatore, un volto comune: avrebbe potuto essere chiunque, fare qualsiasi cosa. Aveva iniziato a fissarla dal primo momento, in cui l’aveva vista avanzare e poi fermarsi due sedili avanti a lui. Non si trattava di una decisione casuale: aveva scelto quel posto con attenzione, sperando di non dare nell’occhio. Eppure lui aveva notato una certa esitazione nel suo sguardo, quel lungo istante prima di lasciarsi andare a una posizione precisa, giusta o sbagliata che sia. Non si erano rivolti la parola per tutto il viaggio, solo occhiate fulminee e sorrisi impacciati. Quell’uomo la metteva profondamente a disagio; non si fidava di lui, tuttavia era come se lo conoscesse da un tempo antichissimo. «Ci siamo già visti?», le chiese quando il loro viaggio stava per concludersi. «Non direi, no», gli rispose in modo freddo, un po’ duro. Non si dissero più nulla fino al loro arrivo. Fuori l’aria era fresca, l’autunno aveva spogliato gli alberi e reso i colori del mondo più tenui. Erano giunti a un paese di montagna fatto di sentieri scoscesi e piante che sbucavano dalle rocce. Probabilmente c’erano più animali che persone. La voce di lui risuonò nella piazza grigia: «Ha bisogno di un passaggio?».

   

Fu la prima a sorprendersi nell’attimo in cui le sue labbra formarono un ‘sì’. Andarono a vivere insieme dopo qualche settimana. Ogni volta che prendeva il suo corpo, era come se le rubasse qualcosa; lei non sapeva esattamente di cosa si trattasse, ma si sentiva simile a un guscio vuoto. Le stringeva il mento con le mani e si insinuava dentro di lei mentre gli occhi, ben aperti, non smettevano di guardarla neanche per un istante. Lo amava, eppure non riusciva a capirlo; in verità, da quando erano insieme, non capiva nemmeno se stessa. Il desiderio che lui provava era estremo, pareva fuoriuscire dalle sue membra e spargersi sui tappeti, sui divani, sulle pareti. Ciò che lo eccitava di più era il potere salvifico che associava alle loro unioni: si leccavano le ferite per ore, giornate intere, finché il cielo si infittiva con i colori della notte.

 

Lui amava vedere film sulla fine del mondo, i cataclismi naturali, gli schianti dei meteoriti; in quei momenti lei si ritrovava a tremare nel buio della stanza, illuminata soltanto dalla luce dello schermo. Spesso immaginava di conservare parti del suo corpo: un dito affusolato, la lingua protetta come una reliquia. Tuttavia interrompeva presto quelle fantasie per non spaventarla.

 «Stavo solo scherzando», le mormorava sorridendo.

Passarono alcuni mesi prima che lui decise di riempire la casa di specchi. Erano ovunque; al posto dei quadri o degli orologi, lei vedeva il proprio riflesso. Era come guardarsi vivere, ogni angolazione rimandava una proiezione diversa di se stessa. Avrebbe voluto perdersi in un paesaggio, in un universo lontano, invece si ritrovava sempre a un palmo dal suo naso. La camera da letto era tappezzata da ritratti in movimento. Per lui era vitale non perdersi nulla, accedere a ogni frammento di lei. Spingeva con forza all’interno delle sue fessure, mentre osservava le loro immagini riflesse sui muri. Lei aveva lunghi capelli biondi che lui si divertiva ad annodare attorno al suo collo. Ogni ciocca era un contenitore di audacia e femminilità, illuminavano la sua figura spesso troppo fioca.

«Se fossi un pittore, ti dipingerei», le sussurrava quando erano avvinghiati a letto.

Ma lui non era un pittore, quindi si concentrava sulle proiezioni generate dagli specchi. Lei, invece, tutte le volte in cui fissava il proprio riflesso, sentiva di perdersi. Le capitava di trascorrere anche un’ora davanti a uno specchio e scivolarvi attraverso. A quel punto guardava se stessa da fuori e aspettava. Era come essere intrappolati in una gabbia esterna al corpo, senza riuscire ad accedervi. Si trasformava in una farfalla dietro un vetro, con le ali che spingevano impazzite e premevano simili a delle ventose. Si osservava e non si riconosceva. Chi c’era sotto quella massa di capelli? Quei filini dorati la proteggevano, dirottando l’attenzione su di sé. In quei momenti non distingueva i propri desideri da quelli che le erano stati imboccati dalle posate di qualcun altro. Si era ritrovata su quell’autobus, quasi senza sapere come, e adesso era dentro uno specchio, a casa di un uomo che l’aveva trascinata via con sé.

Accadeva che oltrepassasse gli specchi anche quando consumavano il loro piacere.

Lui l’afferrava da dietro, con una mano sui suoi fianchi e l’altra che le stringeva i capelli. Lei, però, non era piegata in due sul letto: era dietro una parete, urlando e dimenandosi per uscire o anche solo per essere ascoltata. Vedeva se stessa con gli occhi chiusi e i pugni stretti, il piacere si confondeva al dolore: non vi erano confini precisi, ma solo distese annodate di arbusti. Alla fine, nell’attimo in cui lui si sganciava da lei lasciandola distesa e inerme, scorgeva piccole gocce d’acqua scivolare sulle proprie guance fino a raggiungere le lenzuola calde. Le sarebbe piaciuto frenare quelle lacrime con un dito, persino assaggiarle per capire di cosa fossero fatte, quali segreti e verità custodissero. Tuttavia, poco dopo, lui la richiamava a sé, avvolgendola con le sue grandi braccia, allora lei ritornava dentro il proprio corpo. Sentiva i polpastrelli di lui annidarsi fra i capelli, quasi con l’intento di prelevarne la magia.

Poco a poco iniziò a non scorgere più il proprio riflesso. Camminava in giro per la casa e, inevitabilmente, dirottava lo sguardo verso le pareti. La sua figura non era mai la stessa: talvolta era sbiadita, come se qualcuno avesse provato a cancellarla con una spugna, e altre volte svaniva del tutto. In quei casi fissava uno specchio muto, inerte, pregando affinché le rimandasse un’immagine di qualsiasi genere. Strizzava gli occhi, aggrottava le sopracciglia, ma ciò che vedeva era solo un grande vuoto. Era simile a una bambina, le cui domande restavano punti interrogativi.

Dopo il vuoto subentrarono l’istinto, la voglia di toccare con mano quelle creature pulsanti che ricoprivano i muri. Avvicinò le dita alle pareti con l’intento di scivolare nel corpo, di insinuarsi nelle proprie viscere.

Nell’attimo in cui entrava in contatto con gli specchi, questi assumevano forme diverse: rimpicciolivano o allargavano l’immagine riflessa, alterandone la prospettiva, oppure si suddividevano in piccoli pezzi rimandandole un ritratto frammentato. Si ritrovava davanti varie proiezioni di se stessa; la casa ricordava i labirinti di specchi dei parchi divertimenti, in cui era possibile osservare la propria figura cambiare a ogni angolo.

Il suo volto appariva distorto, pieno di crepe, e questo bastava a farla tremare.

Iniziò a colpire gli specchi, talvolta con degli arnesi e talvolta con le sue stesse mani. A ogni pugno la casa si sgretolava lentamente, pareva restringersi laddove lei si mescolava a quei vetri ormai infranti.

Respirò profondamente e attese di oltrepassare lo specchio ridotto a un cumulo di schegge. La trasformazione era vicina. Chiuse gli occhi.

Biografia

Elisabetta Costanzo

Nasce a Catania nel 1992 dove attualmente vive. Si è laureata in Lettere Moderne a Catania e ha conseguito un Master di specializzazione nei mestieri dell’editoria a Milano. Le sue poesie sono apparse in diverse antologie. Più di ogni altra cosa, ama l’odore dei libri e dei fiori.

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