Le imperfette

Le imperfette

Dialogo con Emanuela Chiriacò e Paola Del Zoppo

a cura di Ivana Margarese

 

Le Imperfette. Storie di donne nell’Inghilterra vittoriana e post vittoriana è il risultato di un progetto corale che recupera e valorizza dieci racconti, nove dei quali mai tradotti in lingua italiana, pubblicati su periodici inglesi tra il 1894 e il 1922, per riflettere sul contributo della narrazione nella comprensione delle questioni di genere, attraverso interrogativi personali e sociali nati in un momento storico in cui si assisteva alla ridefinizione dei ruoli e al consolidamento dei diritti femminili. In questo periodo in Inghilterra fioriva un mercato di riviste femminili che documentavano la visione del ruolo della donna in società. In ambito letterario i racconti venivano preferiti ai romanzi, i cui tempi di completamento apparivano troppo lunghi.  Gli scritti della raccolta sono di George Moore, Ella D’Arcy, George Egerton, Netta Syrett, Arthur George Morrison, George Gissing, Virginia Woolf, May Sinclair, Elinor Mordaunt, e L. Parry Truscott, e sono tradotti da Emanuela Chiriacò e curati in collaborazione con Paola Del Zoppo e Antonia Santopietro (ZEST/Literaria) per PE Editore. Si tratta di un lavoro complesso e attento, che offre spunti storici e teorici. Questo dialogo dedicato al racconto L’associazione di Virginia Woolf è il primo di un percorso di approfondimento con le curatrici, Emanuela Chiriacò e Paola Del Zoppo, che coinvolgerà l’intera redazione di Morel, nell’ascoltare voci di donne, le cui domande e speranze appaiono ancora oggi significative.

Inizio col chiedervi come nasce il titolo.

EC: Il titolo nasce dal verso iniziale di una delle più celebri poesie di Sylvia Plath Edge: The woman is perfected, scritta solo pochi giorni prima che ponesse fine alla sua vita nel febbraio del 1963. Come ha scritto, nella sua nota a margine, Antonia Santopietro, coordinatrice del Progetto, questa poesia della Plath è il suo congedo, l’esordio di una sintesi. La compiutezza raggiunta sull’orlo della morte che determina l’intuizione lirica: soltanto il culmine della vita può segnare il momento della definizione della “donna”, la sua “perfezione”. Le “imperfette” sono le donne confinate in ruoli o ambiti di irrilevanza, ritenute folli o moderatamente atte alla vita, inette o ripudiate, invisibili nei secoli, nei molti luoghi e nelle diverse culture.
Una condizione che accomuna tutte le donne, per questo ho dedicato il libro a tutte noi “donne imperfette”.

PDZ: Il titolo, scelto da Emanuela, nel suo limpido dialogo con i versi di una poetessa-simbolo quale è Sylvia Plath, gioca sulla figura retorica dell’ironia. Decostruisce immediatamente sia il giudizio sulle donne non “omologate”, sia l’idea stessa che esista una perfezione che la società possa riconoscere per data. È un titolo non provocatorio, come può apparire, ma, come il percorso delle donne nei testi, illuminante.

«Ho venerato mia madre per averne fatti dieci; ancora di più mia nonna che ne ha fatti quindici; lo confesso, la mia ambizione era di farne venti. Siamo andate avanti per tutti questi anni pensando che gli uomini si dessero altrettanto da fare, che, laddove noi partorivamo bambini, loro davano vita a libri e dipinti. Abbiamo ipotizzato se noi abbiamo partorito bambini, loro hanno prodotto libri e dipinti. Noi popolavamo il mondo. Loro lo stavano civilizzando. Ma adesso che sappiamo leggere, cosa ci impedisce di giudicare il risultato? Prima di mettere al mondo un solo altro bambino dobbiamo giurare che scopriremo come è fatto il mondo».
Viene sottolineato nel racconto di Woolf il valore delle letture, della partecipazione attiva alla cultura e delle domande per conoscere un mondo che non è sempre come ci viene presentato.

EC: Il racconto, L’associazione, si suppone sia stato scritto da Virginia Woolf quale risposta alla pubblicazione di un articolo – di cui dà notizia la stessa Woolf nei suoi diari ma mai reperito – che denigrava l’intelletto delle donne.
Il racconto parla da una parte di oppressione, dominio e controllo maschile – tutti elementi che troviamo fin dall’inizio concretati nelle volontà del padre di Poll, che nel proprio testamento la obbliga alla lettura di tutti i libri contenuti nella Biblioteca di Londra, quale condizione per ottenere l’eredità – e dall’altra di determinazione femminile. Le donne del racconto, infatti, consapevoli di essere calate in un mondo culturale a dominanza maschile, costituiranno un’associazione per investigare sull’operato degli uomini e stringeranno un patto che le impegna a non generare figli prima di aver concluso la ricerca, ricerca che le porterà a visitare istituzioni prestigiose, a porre sempre domande, al fine di conoscere il mondo.
Nonostante la voce narrante sia quella di Cassandra (nome forse scelto in omaggio alla profetessa condannata da Apollo a non essere mai creduta da nessuno), L’Associazione è un racconto corale, e attraverso ogni singola donna emergono aspetti delle discriminazioni subite.
Woolf attraverso il dialogo conclusivo tra Cassandra e Castalia vuole farci credere che tutti gli sforzi dell’Associazione siano stati vani e che la lettura di quanto hanno prodotto sia più adatta ad una bambina – nello specifico Ann, la figlia di Castalia, l’unica del gruppo a non aver tenuto fede al patto di non filiazione – e che Cassandra e le azioni di Castalia abbiano una valenza maggiore dell’atto di ricerca in sé. In realtà, l’autrice permettendo ad Ann di perseguire lo scopo dell’Associazione, afferma con forza che le donne di quel tempo per quanto costrette ad accettare lo status quo della loro condizione possono investire sulla generazione futura per il raggiungimento della parità e di un reale cambiamento. È un messaggio di maturità, di reale comprensione del tempo in cui Woolf viveva e di grande speranza per ciò che sarebbe venuto dopo la fine della prima guerra mondiale salutata con fuochi d’artificio nella parte finale del racconto.

Una delle donne protagoniste della storia afferma che la castità non è altro che ignoranza. Mi è parsa una frase che apre, accogliente e un po’ beffarda verso i pregiudizi del tempo.

EC: Rispondo citando Ernest Sackville Turner in Roads to Ruin (1950) che cita Caroline Norton e il suo English Laws for Women in the Nineteenth Century, (1854): «Il Common Law of England, all’inizio del diciannovesimo secolo, garantiva ad una moglie meno diritti di quelli concessi nel diritto romano e solo qualcosa in più di uno schiavo africano prima dell’emancipazione … il marito … possedeva il corpo, le proprietà, i risparmi, i gioielli personali e le entrate della moglie sia che vivessero insieme o separati – e il marito – poteva legalmente sostenere l’amante con i guadagni della moglie».
Il racconto di Virginia Woolf si colloca dopo, lo scrive tra il 1921 e 1922, e pur credendo che la libertà sia un ideale pressoché irraggiungibile, in Orlando e Una stanza tutta per sé ci propone due visioni di libertà diverse: nel primo caso personale, nel secondo artistica, ma con un denominatore comune: l’androginia.
Woolf non considera il genere come un principio cognitivo, organizzativo, e propone la personalità androgina che coniuga maschile e femminile non come semplice mescolamento per rigettare le caratteristiche standardizzate e normalizzate dalla società, rifiutando una soggettività coerente e ordinata, regolata dal gender. Quindi il fatto che parli di castità come ignoranza non stupisce, che abbia un approccio beffardo verso la morale del suo tempo nemmeno, se si pensa al suo vissuto personale.

PDZ: Come ho cercato di evidenziare nel breve saggio, il senso del testo di Woolf è tutto nella sua dimensione letteraria, che struttura il tessuto della tematica spingendosi, con l’ironia, il gioco e la dimensione tragica (quante cose in un testo così breve!) a statuire una forma di rifiuto che non sia una condanna aprioristica. La sua è una mise en abyme del ragionamento critico, e del suo concretizzarsi nella quotidianità di donne e uomini, che tiene appunto all’apertura, all’accoglienza, alla presentazione di una possibilità di rinnovamento presentata con evidenza con gli strumenti testuali e metatestuali della scrittura.

La Woolf svolge una analisi ironica e amara della cultura e della educazione del suo tempo e della incapacità di un confronto sereno e pienamente sincero tra i due sessi. A un certo punto si legge in riferimento agli uomini: “Presto non sarà in grado di entrare in una stanza senza far sentire una donna a disagio; tratterà con sufficienza tutte quelle che incontrerà, e non oserà dire la verità nemmeno alla sua stessa moglie; invece di deliziarci lo sguardo, saremo costrette a chiudere gli occhi per stringerlo tra le braccia”.

EC: Più che ironica, la definirei un’analisi consapevole: una fotografia lucida e consolidata del tempo che dimostra tutta la sua tensione progressiva verso il femminismo, non uno status definito da subito; il suo è un lavoro di costruzione pragmatica. Il brano che citi si inserisce proprio nel dialogo tra Castalia e Cassandra sulla superiorità dell’intelletto maschile e parla del momento in cui un ragazzo diventando uomo raggiunge e impone il suo status di superiorità nei confronti di una donna.

PDZ: Questa è un’altra caratteristica interessante del racconto di Woolf, che dialoga infatti in maniera fruttuosa con gli altri racconti della raccolta. I possibili sviluppi del confronto tra uomini e donne sono numerosi, non scontati e di volta in volta rinegoziabili. Nella frase che hai scelto c’è poi tutta la profondità del dilemma. Saremo costrette “controvoglia”? Per natura? Per imposizione sociale? Per scelta? La costruzione del dialogo, come quella del racconto in toto, procede per piccoli abissi, apre voragini inaspettate e pone questioni a ogni passo. Sta qui rimproverando, Woolf? Se immaginiamo all’interno del racconto, come personaggi alternativi, le donne rappresentate negli altri racconti (mi viene in mente ora istintivamente la “donna con le mani in mano”) che esperienze collocherebbero in seno all’indagine dell’associazione? E gli uomini che si confrontano con loro, li abbracceremmo?

 

C’è solo una cosa che si può insegnare davvero a un essere umano: credere in se stesso.

EC: Nel racconto Castalia, parlando della figlia Ann, chiede all’amica Cassandra Come posso crescere mia figlia educandola a non credere in niente? E Cassandra, dopo una lunga conversazione, le risponde: Quando avrà imparato a leggere, ci sarà una sola cosa che potrai insegnarle a credere: credere in sé stessa. Qui Woolf offre un importante suggerimento per la costruzione strutturale dell’autostima di Ann; questa frase racchiude il paradigma di ciò che si è, dell’influenza dell’ambiente circostante e della possibilità di far coincidere il sé reale con quello ideale. Ann in fondo è una bambina che rappresenta la futura generazione di donne e crescere credendo in se stessa, è una possibilità di riscatto e di progressione verso la parità.

Da qualche tempo sto riflettendo sul ruolo della libertà e della dipendenza nella condizione umana e spesso la libertà per quanto cercata sembra, come suggeriva Kierkegaard, avere un peso troppo grande per gli uomini. Vorrei sapere la vostra opinione in proposito.

EC: La mia prima riflessione reale sul concetto di libertà è legata alla lettura dell’omonima novella di Verga. Ero adolescente e mi colpì molto la forza di quel racconto e come quell’ideale da sano e sacrosanto si potesse trasformare in vertigine, sbandamento, e profonda solitudine; perdendo tutta la sua carica semantica e approdando ad una dimensione personale, individuale e anche egoistica. Cosa che ancora penso e che mi sentirei di applicare come riflessione alla contingenza pandemica attuale e, in particolare, al primo e all’attuale lockdown con la locuzione “dittatura sanitaria”.
Forse come dici la libertà è un peso perché non è percepita come un bene comune immateriale, un confine liquido personale che non dovrebbe mai straripare; una forma alta di rispetto dell’alterità che spesso la dipendenza può svilire e manipolare. È un po’come dimenticare che la morale dei singoli costruisce l’etica collettiva.

PDZ: Kiergegaard scriveva in un tempo in cui l’illusione della libertà passava per il riconoscersi non liberi. Noi invece viviamo in un tempo in cui la nostra non-libertà viene sbandierata fin dal primo vagito, spesso opportunisticamente, o funzionalmente ad altre, più profonde costrizioni. Siamo in un’epoca in cui tutto è lecito in nome di una continuo richiamo alla libertà dell’individuo.
Ci possono essere due modalità per gestire, se questo è il termine che vogliamo usare, questa infinita libertà, non solo nel confronto fra i sessi: la tensione all’imitazione e, contrapposta, la responsabilità. Nel testo di Woolf sono entrambe dialogicamente messe in scena. Nei racconti della raccolta, di volta in volta, si punta all’una o all’altra. Talvolta una rinuncia è responsabile, come, in questa raccolta, in Egerton-Dunne Bright o nel testo di Ella D’Arcy, o anche in altre volte per dimostrazione rovesciata, è l’imitazione a essere condannata, come in Un povero diavolo di Morrison e Genio di Mordaunt, per esempio. Basta pensare che qui siamo di fronte al credere in se stesse delle donne, che mai dovrebbero sentire il bisogno di imitare gli uomini ed eventualmente creare spazi in cui queste modalità siano assenti, non escludendo gli uomini, ma creando e vivendo spazi al di là delle convenzioni e ricchi di interrogazione. Anche questo, semplicemente, può essere la solidità del credere in sé stessi.

 

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