Palermo di carta. Dialogo con Salvatore Ferlita

“Palermo di carta”. Dialogo con Salvatore Ferlita”

a cura di Giovanna Di Marco

“Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre – rispose Marco – è una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente”.

Italo Calvino da Le città invisibili

 

Palermo è una città che esiste nelle sue abnormità ed eccezioni, oltrepassando il principio stesso della verosimiglianza, in qualche modo. Anche se, nella verosimiglianza, è spesso scenografia delle narrazioni di molti scrittori, a volte anche sceneggiatura. Da qui l’idea di una guida letteraria della città che ne scandisse i luoghi e, in modo più ampio, ne decodificasse i simboli: un’operazione interessante della casa editrice Il Palindromo e dei direttori della collana Città di carta, Salvatore Ferlita e Fabio La Mantia. Oltre a quella palermitana, sono infatti già edite le guide letterarie di Torino, Milano, Roma, Genova e Catania. Salvatore Ferlita, autore di Palermo di carta, ha in mente l’idea di un lavoro in itinere sulla mappatura letteraria della Città, una sorta di cattedrale in perenne costruzione.  La Palermo degli scrittori è come la Sagrada Familia di Barcellona: un continuo cantiere.

 

Nel tuo libro, Palermo viene raccontata dagli scrittori. Ovviamente ne esce fuori per ognuno una versione personalissima che esprime però impressioni che ognuno di noi ha provato. In me ha solleticato particolarmente due curiosità: quella di figurarmi i luoghi conosciuti in epoche passate (ed è lo stesso approccio che ho quando mi imbatto in qualsiasi semplice guida dei monumenti di una città, più o meno conosciuta); quella di cercare parole di altri che cristallizzassero i miei pensieri rispetto al degrado e allo scempio a cui ogni giorno si assiste a Palermo. Era nei tuoi intenti inziali sollecitare questi aspetti?

«Il mio intento, quando mi sono messo all’opera, è stato proprio quello di solleticare curiosità: gli aspetti accennati appartengono a una fenomenologia più vasta, quanto meno nelle mie intenzioni, che prende le mosse dal rapporto che ciascuno riesce a intrattenere con la sua città. Un rapporto viscerale, che ti porta a considerare Palermo come l’unica città possibile, pur con le sue laceranti contraddizioni; oppure che te la fa osservare come la città da obliterare, da contraddire, da esorcizzare perché invasiva, troppo capillare, in grado di possederti con l’inesorabilità di un esercito di metastasi. C’è chi ha letto il mio libro alla stregua di una guida impossibile, chi invece l’ha compulsato per riscoprire l’unica Palermo possibile. A pensarci bene, forse la mia vera intenzione era quella di sollecitare lo sguardo di chi leggesse, di renderlo mobile e prendile. Insomma, dalla mia “Palermo di carta” viene fuori una sorta di trattato sul punto di vista degli scrittori, sulla loro capacità di prendere le mosse da un luogo reale e poi di alterarlo, esasperandolo spesso sino all’inverosimile. Insomma, le mie pagine provano a dimostrare in che modo una città possa essere, sostanzialmente, una gigantesca potenzialità narrativa».

Il tesoro nascosto dei Beati Paoli è una sorta di mito, l’Eldorado per autori ispiratisi a Luigi Natoli (Fulvio Abbate, Giorgio Vasta, Giuseppe Schillaci). In loro però il sogno si scontra con la disillusione. Puoi parlare ai nostri lettori dell’aspetto simbolico di questo tesoro?

«È in pratica il tesoro agognato ma evanescente, concupito ma fuggevole e serpentesco. È il correlativo oggettivo di una leggenda metropolitana, il precipitato di dicerie e segreti mal taciuti. Ma, soprattutto ai miei occhi, il tesoro dei beati paoli è una specie di motore mobile dell’immaginario picaresco. Senza di esso Palermo sarebbe una città senz’anima: un’anima, però, lurida e canagliesca insieme».

“Il ventre di Palermo”. Citando Enrico Onufrio e ispirandosi ad altri famosi titoli, si potrebbe utilizzare anche questo per la guida letteraria della città. Questo ventre è un rimando all’idea della Città intesa come organismo vivente, ma anche al suo opposto complementare: una dimensione fantasmatica parallela, un labirinto tentacolare, un sotterraneo fondo dell’anima. L’archetipo è un po’ il sotterraneo di Natoli?

Luigi Natoli

«Proprio così: egli ha avuto una straordinaria intuizione, da rabdomante della scrittura quale era. Pensare a una Palermo delle viscere, alle interiora della sua città, gli ha permesso di arricchirne la topografia notturna, nascosta, tenebrosa. C’è dunque la città che vive alla luce del sole o della luna, ma c’è pure il suo sottofondo, una specie di gigantesca botola che può risucchiare malevolmente. Da qui l’altra metafora della città come organismo vivente, una specie di gigantesca e affamata pianta carnivora».

Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Vincenzo Consolo sono testimoni diversi delle macerie di Palermo. Nel primo scrutiamo una malinconia compiaciuta e voluttuosa, nel secondo troviamo ancora la rabbia e la denuncia. Senza troppa oscurità credi che Palermo avrebbe la stessa luce?

«Palermo è il risultato di questo cortocircuito tra luce abbagliante e tenebra perturbante (che è poi la sintesi della Sicilia tutta, come hanno raccontato prima Brancati e poi Bufalino). Essa è la sintesi di questa dimensione quasi caravaggesca. Da qui il suo fascino sinistro e la sua natura irredimibile».

Questo numero di Morel, voci dall’isola è dedicato a Medusa. Potrebbe risultare pretestuoso, ma Palermo come città di carta – e dunque narrata da vari autori – ci appare davvero un po’ come Medusa: era bellissima, venne stuprata e fu trasformata in mostro; se la guardi, ti pietrifica ma è inesorabile fare i conti con lei. Leggendo il tuo libro, credo che il livello massimo di narrazione dell’orrore di cui questa città è capace sia stato descritto da Giuseppe Rizzo e Giosuè Calaciura. Puoi dirci in che termini lo abbiano fatto?

«Sono, Giuseppe Rizzo e Giosuè Calaciura, due scrittori fortemente visionari, in grado di sfruttare un sorprendente grandangolo. Dalle loro pagine viene fuori una Palermo orrorifica appunto, in preda a una metamorfosi degenerativa. La città si espande per escrescenze immonde, che sono insieme estetiche e morali. Non è un caso che tutti e due gli autori citati siano animati da una forte propulsione civile».

Quali autori e quali libri che raccontano Palermo non sono stati inseriti, tuo malgrado, in Palermo di carta? E quali si sono aggiunti in questi  anni dalla pubblicazione del libro?

«Glisso sulla prima parte della domanda (non ho inserito quelli che ritenevo non meritassero di essere qui allineati, ma pure certe assenze si devono solo alla mia negligenza) per dire invece qualcosa sugli aggiornamenti: a cinque anni dall’uscita della prima edizione ne è passata di acqua (di inchiostro verrebbe da dire) sotto i ponti. Faccio riferimento ai libri della Auci e della Bazzi ad esempio, che hanno portato alla ribalta la città industriosa, tutta fermenti e brividi alla spina dorsale. Ma ti accorgi anche, col tempo, di lacune imbarazzanti: non mi ero occupato, ad esempio, della Palermo di Leonardo Sciascia. Da qui la necessità di rimettere mano al libro: confesso che, da un lato, mi sono divertito ad attraversarlo in lungo e in largo, dall’altro ho misurato le cadute di stile, le dimenticanze, le approssimazioni. Per me è stato croce e delizia insieme aggiornare “Palermo di carta”, consapevole del fatto che la città letteraria non potrà che col tempo modificarsi, dilatarsi, sorprendersi di se stessa e quindi sfuggire alle classificazioni, evadere dalle prigioni ermeneutiche. Il romanzo di Palermo, che queste mie pagine cercano disperatamente di aggiogare, è compulsivo e inarrestabile».

Biografia

Salvatore Ferlita, nato a Palermo nel 1974, è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna Kore, dove insegna Letteratura italiana, Letteratura italiana contemporanea per la scuola primaria e dell’infanzia e Composizione in lingua italiana. Critico letterario e saggista, è responsabile di diverse collane editoriali e ha partecipato in Italia e all’estero a convegni, tavole rotonde, seminari; ha fatto parte di giurie di premi letterari nazionali e internazionali (da ultimo, il Mondello, nel 2014). Da anni collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana) e al mensile “Segno”. Ha scritto, tra l’altro, I soliti ignoti (Dario Flaccovio, 2005), con la prefazione di Andrea Camilleri, Sperimentalismo e avanguardia (Sellerio, 2008), Novecento futuro anteriore (Di Girolamo, 2009), Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione (Liguori, 2011), Le arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento (Palumbo, 2011), Alla corte di Federico (Bonanno, 2012), Non per viltade. Papi sull’orlo di  una crisi (Mimesis, 2013), Palermo di carta plus. Guida letteraria della città (Il Palindromo 20019), La fine del tempo. Apocalisse e post-apcalisse nella narrativa novecentesca (FrancoAngeli 2015), con prefazione di Fabio La Mantia, Il libro è una strana trottola. Genesi e trasformazione della parola letteraria (Il Palindromo 2018), Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie (Il Palindromo, 2016). Sempre per la casa editrice Il Palindromo, ha firmato la curatela di Pinocchio. La prima e oscura edizione di Carlo Collodi, con illustrazioni di Simone Stuto. Con Giuseppe Maurizio Piscopo ha curato il volume Merica Merica. Viaggio verso il nuovo mondo (Sciascia 2015).

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