Il farmacòn . Un’indagine tra scienza e arti visive

Il farmacòn . Un’indagine tra scienza e arti visive

di Monica Mazzolini

(a cura di Ivana Margarese)

 

 

Cariti, Erinni, Forcidi, Moire e Gorgoni sono triadi di figure femminili tipiche della mitologia greca e romana. Una teogonia del femmineo con caratteristiche contrastanti che vengono descritte non solo nei poemi ed in molta della letteratura ma rappresentate anche mediante le arti visive. Elementi antitetici che, fin dall’antichità, sono spesso legati alla donna. Madre o femme fatale. Vita o morte. Avvenenza o mostruosità. Bellezza o intelligenza.
Uno dei miti simbolo di tale dicotomia è quello di Medusa. Donna che, come descritta da Ovidio, per le sue caratteristiche estetiche fa invaghire il dio del mare ed ingelosire Atena, ma all’opposto è Gorgone rappresentata con testa anguicrinita e sguardo pietrificante. Un mostro che nel corso del rinnovamento iconografico classico passerà da una rappresentazione come essere ripugnante a donna dall’aspetto attraente seppur, per le sue principali caratteristiche fisionomiche, sempre insidioso.
Tra le molte opere pittoriche – tra cui la famosissima “Testa di Medusa” dipinta su rotella per mano di Caravaggio – anche Gustav Klimt propone la rivisitazione del mito in una delle tre parti che compongono la sequenza narrativa del “Fregio di Beethoven” (1902), il dipinto su intonaco ottenuto ispirandosi alla IX sinfonia, l’ultima e da cui il titolo, del famoso compositore tedesco considerato “l’incarnazione del genio”.

Nella parte centrale dell’opera il tema è dedicato al percorso che l’uomo, nelle vesti di un cavaliere dall’armatura dorata, deve affrontare per raggiungere la felicità. Una vita piena di ostacoli. Tifeo, ibrido e feroce gigante dalle sembianze di scimmia con la coda fatta di serpenti, è circondato da figure femminili maligne personificazione di malattia, follia, morte, ma anche dissolutezza, voluttà e lussuria. In disparte l’angoscia, donna ossuta, è avvolta da spire di serpenti. Dalla chioma si possono riconosce le Gorgoni – Euriale, Steno e Medusa – sorelle che rappresentano rispettivamente le tre perversioni: sessuale, morale ed intellettuale. Una narrazione metaforica a rappresentare la contrapposizione tra bene e male. L’artista, il cavaliere, si spoglierà della corazza dorata e dopo la lotta contro le “forze ostili” raggiungerà il regno ideale caratterizzato da pace, felicità e amore attraverso un abbraccio con la figura femminile che rappresenta la poesia. Il riscatto da parte dell’arte.

Medusa è figura mitologica portatrice di vita e di morte e tale dicotomia suscita interesse nell’analisi dei vari elementi che la contraddistinguono: potere creativo e distruttivo allo stesso tempo. Il sangue sgorgato dalle vene del collo, decapitato per mano di Perseo, è veleno letale ma anche rimedio per risuscitare i defunti. Lo sguardo pietrificante rende inanimati gli esseri viventi ma al contempo dalla temibile Gorgone nascono il cavallo alato Pegaso ed il gigante Crisaore. Medusa è simbolo legato al tema della metamorfosi associabile al serpente noto per essere un animale che cambia la pelle rinnovando se stesso. Questo rettile ha molte caratteristiche importanti e significati metaforici spesso antitetici. Nella cultura egizia e greca era associato alla rigenerazione, alla ciclicità della vita, ben rappresentata dallo stesso animale che si mangia la coda formando un cerchio senza inizio ne fine. L’uroboro, simbolo di culture e credenze antiche. Nella tradizione romana è protettore della casa e dei suoi abitanti. Al contrario, nel racconto biblico, astuto, tentatore e simbolo di conoscenza, è causa della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre poiché insinua il dubbio e la consapevolezza. Il suo veleno è potente ed in ambito farmacologico ha potere di guarire o uccidere in base al dosaggio somministrato.
Il serpente, oltre che essere un attributo della figura di Medusa, è collegato alla medicina. Per questa ragione viene associato anche ad Igea. Sorella di Panacea, è figlia di Esculapio il capostipite di una stirpe che aveva come missione la cura e lo studio della medicina. Dalla stessa famiglia nasce Ippocrate di cui è ben noto il giuramento, rito iniziatico necessario ancor oggi, per esercitare la professione di medico.

Anche Igea, come Medusa, è un soggetto ampiamente rappresentato in pittura. Ancora una volta il padre della Secessione viennese ne trae spunto ed ispirazione per uno dei suoi “Quadri delle facoltà” in particolare per Medicina evidenziando come la cultura artistica e quella scientifica siano fortemente legate tra loro.

Tale tematica è alla base del mio nuovo libro, un saggio dal titolo “Uno scienziato la museo” pubblicato a settembre 2020 da LINEA edizioni.

Nel capitolo dal titolo la “Relazione tra arte e medicina: l’ospedale dell’arte” tra le varie opere ne descrivo una in cui la protagonista è proprio Igea, la dea della salute. Riporto qui di seguito lo scritto relativo (pp.140-142):

[…] Ospedali e Università sono istituzioni che richiedono agli artisti scene raffiguranti l’attività svolta. A tal proposto come dimenticare Gustav Klimt. I “Quadri delle facoltà” (Filosofia, Medicina e Giurisprudenza) sono una serie di allegorie realizzate dal pittore viennese tra il 1899 ed il 1907 per l’aula magna dell’Ateneo di Vienna. La volontà e lo scopo dei committenti era la glorificazione delle materie di studio e dei loro effetti positivi in ambito sociale, ma il padre della Secessione si rifiuta di fornire una visione razionale e propone la sua interpretazione in relazione all’esistenza e alla complessità umana. Influenzato dal pensiero di Schopenhauer e Nietzsche affronta tematiche scomode quali malattia, vecchiaia, povertà, senza esclusione di colpi, senza edulcorare o idealizzare. Per questa ragione le opere hanno destato aspre polemiche.
Solo di “Medicina” (iniziato nel 1901 e distrutto durante l’incendio del castello di Immendorf) rimane una riproduzione fotografica a colori, il resto è andato distrutto nel 1945. Un intreccio di corpi in cui vengono rappresentati tutti gli stadi della vita. Tra le figure emerge uno scheletro, avvolto da un trasparente velo nero, a raffigurare la morte. Da un ammasso composto da bambini, giovani e vecchi si staccano due donne. La prima sulla sinistra, nuda e con atteggiamento sensuale, all’epoca considerato immorale, è collegata al gruppo attraverso un gioco di braccia tese. Un invano tentativo di allontanarsi dal dolore. La seconda, collocata in primo piano, ha una splendida veste rossa che ricorda il colore del sangue ed è abbellita da decori dorati. Si tratta di Igea, la dea della salute e dell’igiene (dal greco hygìeia con il significato di salute, rimedio, medicina) figlia di Esculapio che Omero descriveva come dio della medicina, delle guarigioni e dei serpenti. La dea in posizione altera, mento alto e sguardo verso lo spettatore, tiene alle sue spalle con indifferenza l’intera umanità indebolita e dolente.


Ha in mano la coppa della vita ed il serpente, attorcigliato al suo braccio, a rappresentare la morte per la capacità di secernere sostanze letali. Ma il serpente ha un duplice significato in quanto il veleno da lui secreto attraverso le ghiandole velenifere se assunto in minime dosi è rimedio (farmacòn) per molte malattie. Questo rettile, soggetto alla muta della pelle, è stato spesso rappresentato e descritto e molti sono i significati simbolici che gli vengono conferiti in letteratura, pittura, scultura, mitologia, ma anche nelle religioni e nelle scienze. Da ricordare che il bastone di Esculapio (con un solo animale attorcigliato) ed il Caducèo (un bastone alato con due esemplari avvoltolati) oggi, seppur con un po’ di confusione, sono simboli della professione medica e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il primo mentre dell’ordine dei farmacisti il secondo.
Klimt evidenzia la relazione indissolubile tra vita e morte contro la quale neppure il progresso della medicina, la cura e la prevenzione, possono uscire vittoriose. Non celebra il potere ma l’impotenza della stessa nell’intreccio e nel passaggio dalla vita alla morte. Si comprende a questo punto perché i committenti non abbiano apprezzato l’interpretazione e le idee dell’artista. […]

Questi temi descritti da Monica Mazzolini fanno parte anche del suo recente saggio riguardante il legame tra cultura artistico-umanistica e scientifico-tecnologica. Per comprendere meglio l’argomento del libro ho deciso di fare a Monica qualche domanda.

Comincerei con il chiederti del titolo del tuo lavoro “Uno scienziato al museo”.
Innanzitutto grazie per l’ospitalità sulle pagine di Morel e per l’opportunità di raccontare qualcosa del mio nuovo libro. Il titolo non è stata la prima cosa che ho scelto ma neppure l’ultima. E’ scaturito da una scintilla. Un giorno, in un raro momento in cui non stavo scrivendo, ho avuto quest’intuizione e subito ho appuntato le quattro parole su un foglio di carta qualunque, per non dimenticarle. Non è un titolo casuale ma frutto della sedimentazione di ciò che via via stavo producendo, pagina dopo pagina, in un momento di pensieri sgomberi dalla scrittura del testo. Da questo momento non ho pensato ad altro possibile titolo perché l’ho immediatamente sentito come idoneo. Semplice da ricordare, curioso e che racchiude in sé il concetto. Partendo da quella che è la mia esperienza lavorativa, e dalla consapevolezza maturata nel corso degli anni, sono in accordo con l’idea che la cultura artistico-umanistica e quella scientifico-tecnologica siano fortemente legate tra loro. Analizzando le opere d’arte, che siano esse dipinti o fotografie, è possibile trovare forti punti di contatto che evidenziano dialogo, influenze reciproche e superamento dei confini tra i diversi ambiti del sapere. Entrambi si pongono quesiti di tipo filosofico che hanno lo scopo di comprendere la vita ed il pensiero dell’uomo e tentano di dare risposte seppur utilizzando strumenti e metodiche spesso differenti. Ciò evidenzia come il mancato superamento del limite, l’assenza di dialogo e la classificazione tassonomica tra materie diverse siano un impedimento alla conoscenza e questo assunto diventa anche una nuova chiave d’accesso alla lettura delle immagini. Vale per uno scienziato che entrando in un museo osserva l’arte analizzandola con i suoi occhi ma altrettanto per l’artista che utilizza, più o meno consapevolmente, elementi collegati alle materie scientifiche. Ci si potrebbe chiedere: Escher era un artista oppure uno scienziato?

Vorrei domandarti di parlarmi in merito al concetto di metamorfosi, comune alla biologia e all’arte.
Per rispondere alla tua domanda mi ricollego proprio all’appena menzionato Escher ma non solo a quest’autore poiché nella storia dell’arte, della fotografia ed in letteratura sono molte le opere in cui viene descritta e rappresentata la metamorfosi che è anche un temine utilizzato in ambito scientifico, in particolare in zoologia e botanica. Indica l’insieme dei cambiamenti morfologici e fisiologici messi in atto soprattutto da anfibi e insetti ma anche le modificazioni, nella conformazione esterna o nella struttura interna, che possono avere luogo nelle piante. Come non associare questa definizione alla “Metamorfosi di Narciso”, opera pittorica del geniale Dalí, oppure alla fotografa Francesca Woodman che si trasforma in radice d’albero assomigliando a Dafne descritta dal Bernini ed ancora prima nelle Metamorfosi di Ovidio. Per non parlare del romanzo di Kafka ed il suo protagonista Gregor Samsa che al risveglio si trova trasformato in un grande insetto.
Ma una metamorfosi è anche il cambiamento che avviene nel corso della storia delle arti visive. Ripercorrendo la storia ci si rende conto che – dopo una fase in cui la ricerca della perfetta riproduzione della realtà è stata la maggiore problematica da affrontare per gli artisti – a partire dalle avanguardie del ‘900 vengono abbandonati il modo migliore per rendere la prospettiva, i colori naturali, l’aspetto esteriore, la fisionomia, insomma il naturalismo e la mimesi. Quest’evoluzione ha portato alla rottura con il passato operando attraverso una traccia, non sempre lineare, di sottrazioni. Nuove frontiere per allontanarsi da qualcosa che sembrava appartenere indissolubilmente al significato di arte fino ad arrivare all’eliminazione dell’oggetto prima e della forma poi, giungendo infine al paradosso di fare a meno dell’opera d’arte. Una trasformazione, una metamorfosi messa in atto attraverso la continua rimozione di elementi figurativi e la nascita di un nuovo linguaggio con una nuova grammatica che ha scardinato l’automatismo di pensiero precedente.

Mi interesserebbe mi parlassi del ruolo del silenzio in fotografia e pittura e del valore del togliere e del ridurre nelle arti.
Due aspetti molto importanti e collegati tra loro. Nel corso della storia dell’arte la rimozione di elementi figurativi che ha portato all’Astrattismo possiede un interessante legame con il riduzionismo. Questa semplificazione deriva dal latino “reducere” e si utilizza in ambito scientifico, il riduzionismo scientifico, per spiegare un fenomeno complesso attraverso lo studio dei componenti elementari e la formulazione di leggi che li governano. Nell’Astrattismo gli artisti hanno sviluppato un analogo approccio descrivendo la realtà con i soli elementi essenziali (luce, colore, forma). Si può semplificare utilizzando una frase presa a prestito dal premio Nobel per la medicina Eric Kandel, il quale sostiene che: “Gli scienziati usano il riduzionismo per risolvere un problema complesso, mentre gli artisti lo sfruttano per suscitare una nuova risposta percettiva ed emotiva in chi guarda”. Il sinestetico Kandinsky, padre dell’Astrattismo, associava specifici colori al suono di specifici strumenti musicali oltre che alle forme geometriche permettendo l’unione tra sensi differenti, vista e udito ma anche tra materie differenti. Una combinazione che coinvolge pittura, musica e geometria. Un’ulteriore riduzione dell’Astrattismo di Kandinsky vedrà l’utilizzo di colori come campiture uniformi che porteranno ad opere d’arte radicali, spesso interpretazione del silenzio, un elemento costituente di molti dipinti e fotografie. Il silenzio infatti è importante quanto il suono. Non dimentichiamo l’importanza delle pause tra le note. I vuoti ed i pieni all’interno di un’inquadratura, lo spazio tra le parole nella scrittura e le pause durante la lettura. Non si può parlare di silenzio, che già di per se è un ossimoro, senza definire il suono che purtuttavia non è il suo opposto. Parola ambigua il lemma silenzio che nell’arte assume un significato carico di lirismo.

So che lavori anche come curatrice di mostre, mi parleresti un po’ di questa tua esperienza professionale?
Tra le mie attività, di cui è parte anche la scrittura, dal 2019 ho iniziato a curare mostre sia di fotografia che di arte contemporanea ed attualmente sono tre i progetti importanti ai quali sto lavorando per il prossimo anno. Al di la dei singoli programmi e degli specifici temi, tutti e tre, di cui uno è la continuazione di un progetto che ha visto la sua realizzazione nella difficile estate appena trascorsa, hanno una caratteristica in comune: sono un lavoro di squadra. Soprattutto per i grandi disegni questo è molto importante perché avere a che fare con un pool di professionisti è utile per la buona riuscita. Sempre per rimanere in tema e parlare di unione e di scambio, confermo che mi piace avere a che fare con persone che hanno esperienze diverse, punti di vista che si sommano e completano la visione d’insieme. Il lavoro di squadra comporta mediazioni che sono alla base del dialogo e quando ogni componente fa la sua parte, ed aggiunge un tassello, arricchisce e permette il completamento del progetto. Questo è un caposaldo della mia esperienza professionale legata alla curatela di mostre. In altre attività sono io che decido e propongo alle persone che poi aderiscono e seguono i miei corsi ed i miei seminari, ma in questo caso mi piace pensare ad un gruppo di persone che devono raggiungere un obiettivo e lo fanno insieme, in maniera condivisa. L’ho imparato tanto tempo fa dal lavoro di equipe in laboratorio quando ero ricercatrice.

Immagini: Gaspare Graziano, Medusa, collezione privata, Palermo; Gustave Klimt – Fregio di Beethoven (1902) – “Forze ostili” – Palazzo della Secessione a Vienna – Immagine per gentile concessione di Vienna Secession, Photo: Jorit Aust; Gustave Klimt – Fotografia in b/n di Medicina (serie “Quadri delle facoltà”). Opera originale distrutta da un incendio nel maggio 1945 nel Castello di Immendorf, Bassa Austria. Immagine per gentile concessione di Leopold Museum (Vienna).

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