Gesualdo Bufalino: Il ritorno di Euridice

Gesualdo Bufalino: Il ritorno di Euridice

di Ivana Margarese e Rossella Riccobono

Immagine di copertina di Valeria Di Ponio (@valeriadiponio)

 

“Era stanca. Poiché c’era da aspettare, sedette su una gomma dell’argine, in vista del palo dove il barcaiolo avrebbe legato l’alzaia. L’aria era del solito colore sulfureo, come di un vapore di marna o di pozzolana, ma sulle sponde sì incanutiva in fiocchi laschi e sudici di bambagia. Si vedeva poco, faceva freddo, lo stesso fiume non pare scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, come una pigrizia di serpe. Un guizzo dall’inatteso, un lampo nero, sorse sul pelo dell’acqua e scomparve. L’acqua gli si richiuse sopra all’istante, lo inghiotti come una gola. Chissà, il volatile, com’era finito quaggiù, doveva essersi imbucato sottoterra dietro i passi e la musica del poeta”.

 

Questo l’incipit del racconto “Il ritorno di Euridice”, contenuto nella raccolta L’uomo invaso, in cui Gesualdo Bufalino tralasciando il protagonista consueto, l’incomparabile Orfeo, la cui musica ammansisce le bestie e piega persino la volontà degli Inferi, dà voce a un personaggio tradizionalmente silente, Euridice. Stanca, seduta vicino a un fiume che “non pare scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, come una pigrizia di serpe”, Euridice attende di tornare nel regno sotteraneo di Ade. Delusa dall’avere appena perso e per sempre quel guizzo, quell’illusione di volo, che aveva creduto Orfeo, il poeta, fosse tornato a ridarle. Orfeo, quel marito che già in vita aveva percepito distante nel suo darsi tante arie, indifferente a ogni gesto quotidiano: un “adorabile buonannulla”.

Il mito greco diviene nel racconto repertorio di immagini e significanti polivalenti capace di attivare interrogativi sulle storie e sulle zone emozionali sommerse. In un misterioso gioco di specchi Bufalino – Orfeo fa riferimento a quel muein che indica il chiudere gli occhi e il serrare le labbra per vedere meglio e rivolge il suo sguardo a Euridice, la donna che rappresenta il simulacro d’amore, la promessa di un volto passato, l’immagine di colei che gli è cara. Il mito narra che per riaverla e ricondurla a sé, Orfeo si inoltra nel labirinto degli inferi, ma si volta a guardarla prima del tempo accordatogli e la perde per sempre. Al poeta resta la perdita assoluta, il pianto che non avrà mai fine. Seppure, come ipotizzato da Foucault, sotto quel pianto potrebbe splendere «la gloria d’aver visto, per un solo istante, il volto inaccessibile nel momento stesso in cui si voltava e rientrava nella notte». Orfeo forse è sceso negli Inferi non per riportare alla luce Euridice, ma il miraggio di lei, la magia del gesto di chiamarla.

Possiamo così immaginare un parallelismo fra la solitudine della Gorgone Medusa, il cui sguardo pietrifica chiunque la osservi, e quella della delicata Euridice, pietrificata a sua volta dallo sguardo di Orfeo. Entrambe sono figure di metamorfosi, raccontano un passaggio, una esperienza di morte-rigenerazione. Bufalino con estrema cura ci accompagna in un viaggio, finora non raccontato, fatto intimamente e senza gloria da Euridice stessa, un viaggio anche questo iniziatico che conduce la donna a una consapevolezza, a un dolore che tuttavia nell’atto di comprendere scioglie il risentimento, l’ingorgo dolente che porta nel petto. Un percorso che Euridice, in questo perfetto contraltare di Orfeo, compie in silenzio, senza pubblico, battimani o riflettori della ribalta. Euridice non si avvicina al bivacco di anime raccolte sulla sponda del fiume Lete, impazienti e starnazzanti, preferisce restale sola a pensare e ricapitolare la sua storia:

 

Poiché un disagio, lo stesso che lascia un cibo sbagliato, le faceva male sotto una costola, e lei sapeva che non era il cruccio della vita riversa, della risurrezione andata male, era un altro e curioso agrume, un rincrescimento, incapace per ora di farsi pensiero, ma ostinato a premere dentro in confuso, come preme un bambino non nato, putrefatto nelle viscere, senza nome né sorte. E lei non sapeva Come chiamarlo, se presagio, sospetto, vergogna…

Stimolata da un pungolo del suo corpo, nel regno sotterrano della conoscenza e del destino, ripercorre la sua storia e ricorda, anche se le sarebbe più facile dimenticare: si era innamorata controvoglia perché all’inizio quell’uomo le pareva un mago, un seduttore di cui non fidarsi. Tuttavia il suo fare trasognato da ninfa a poco a poco si era lasciato attirare dalla musica, dalle parole di Orfeo e lo aveva amato, nonostante lui avesse cominciato presto a eclissarsi, “stregato lui stesso dalle cantilene che gli nascevano”, a lasciarla sola ” a corto di provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato”. Gesualdo Bufalino racconta così la celebre storia amore tra Euridice e Orfeo e sottolinea, come del resto aveva già fatto Platone nel Fedro ponendo Orfeo tra i sofisti, interessati più alla seduzione della parola che alla verità, la vanità del poeta.

La parola, come scrive Cristina Campo, è un tremendo pericolo, soprattutto per chi la adopera, tanto che di ogni parola bisognerà dare conto.

Seduta accanto a Caronte, nell’unico posto rimasto vuoto, la giovane ninfa cerca di comprendere le ragioni del suo dolore, del peso al costato, seppure buona parte di lei desideri la calma di un oblio totale, una completa dimenticanza di tutto e per sempre. Euridice ha coraggio, un coraggio tenue, senza clamore: osserva ciò che le è accaduto, senza il riparo delle illusioni. Capisce che Orfeo si è voltato e si è voltato apposta:

La barca era tornata ad andare, già l’attracco s’intravedeva fra fiocchi laschi e sporchi di bruma (…). Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell’acqua. Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta.

Questo è il ritratto che attraverso di lei lo scrittore siciliano fa di Orfeo, un uomo incapace di crescere, di preferire il tranquillo mutare delle cose all’eternità della poesia e della musica, di rinunciare alle lusinghe della fama. Anche Cesare Pavese considera l’azione di Orfeo un gesto volontario:

L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla”

Ma Orfeo in Bufalino è un personaggio ancora più umano, troppo umano, che si lega alla vanità del durare e alla immaginazione data dall’assenza poiché teme il graduale scolorire della presenza quotidiana. In Diceria dell’untore Gesualdo Bufalino scrive del protagonista innamorato di Marta:

Mentre era appena alle prime battute il grande andante d’oro del mio innamoramento per lei, già dentro di me la desideravo refrattaria se non indegna, per prepararmi a disporre in anticipo i pretesti e gli svincoli della fuga di domani.

E ancora in un passo de Il malpensante descrive l’amore come un sentimento inventato, che nasce più come rituale di seduzione e  piacere.  Perché non c’è gesto o azione che non deluda, che non nasconda il pericolo della perdita: ogni cosa nell’atto stesso di illuminare acceca.

Euridice nel racconto di Bufalino sceglie anche lei, come Orfeo. Tuttavia differentemente da lui il suo trionfo non cerca il clamore ma il silenzio che attraverso l’accettazione sommessa del dolore scioglie  l’ingorgo delle illusioni per rinascere a nuova consapevolezza.

 

 

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