Dio dietro le sbarre

Dio dietro le sbarre

Intervista a Federica Tourn a cura di Ivana Margarese

(Le immagini fotografiche sono di Fabrizio Esposito che ha accompagnato Federica Tourn in un precedente reportage nel carcere delle Vallette di Torino).

 

Dio dietro le sbarre è un reportage di Federica Tourn, giornalista italiana da sempre attenta alle condizioni delle minoranze, pubblicato sulla rivista Jesus nel luglio 2019, che ha appena vinto la prima edizione del Piazza Grande Religion Journalism Award 2020. Il reportage, con le foto di Isabella di Maddalena, racconta come viene vissuta la fede all’interno delle carceri, in particolar modo dai non cattolici a cui in Italia, seppure venga riconosciuta la libertà di culto, non viene garantita alcuna assistenza religiosa. Un tema complesso e attuale che permette di osservare realtà che rimangono precluse, persino alla nostra capacità di immaginazione. La religione infatti, oltre a essere una cartina di tornasole delle discriminazioni fra le persone, in carcere e nella società, permette una riflessione sulle libertà in senso più ampio: perché chi è “libero” può in realtà essere imprigionato un una prigione senza sbarre.

 

Come è nata l’idea di un reportage sulla discriminazione religiosa all’interno delle carceri italiane?

Nel mio lavoro cerco di dare voce a chi vive ai margini e per questo motivo mi interessa la realtà delle persone che vivono in reclusione, una realtà difficile di per sé, troppo spesso aggravata dal sovraffollamento degli istituti di pena e da condizioni non rispettose dei diritti umani. Mi ero già occupata di carcere in passato e in particolare avevo raccontato le difficoltà e la sofferenza delle famiglie dei detenuti, soprattutto madri, compagne e figli piccoli, sovente trattate con arroganza dalle guardie carcerarie, quasi avessero una colpa da scontare anche loro, per il solo fatto di avere una persona cara dietro le sbarre. Ho provato quindi a capire come veniva vissuta la fede in prigione, soprattutto dai non cattolici, a cui in Italia non viene garantita assistenza religiosa, visto che per legge soltanto ai preti è garantito l’accesso nelle carceri. Infatti, nonostante la legge 354 sull’ordinamento penitenziario del 26 luglio 1975 riconosca la libertà di culto e la possibilità di esercitarla dietro le sbarre, resta una discriminazione fra i cappellani, presenti in ogni istituto, e i rappresentanti delle altre confessioni. Ho voluto indagare come questa discriminazione veniva vissuta nella quotidianità, quali problemi portava e che cosa ne pensavano i diretti interessati – sia i fedeli che i ministri di culto. È stato interessante, e per molti versi confortante, constatare che anche i sacerdoti cattolici denunciano il loro privilegio come un’ingiustizia fuori dal tempo, da sanare al più presto per il benessere dei detenuti e della società intera: infatti, garantire un’adeguata vita spirituale a chi lo desidera aiuta il percorso di rieducazione personale e previene anche il rischio di radicalizzazione.

 

Mi piacerebbe domandarti del tuo personale rapporto con la religione.

Sono valdese, quindi faccio parte di una minoranza protestante in un paese fortemente cattolico, una condizione che ha segnato la mia formazione e la mia visione del mondo. D’altronde non potrebbe essere diversamente: essere parte di una minoranza, soprattutto negli anni ’70 e ’80, significava muoversi in un mondo dove a te era estraneo quello che per gli altri era l’“incontrastata normalità” – i riti, il linguaggio, l’immaginario cattolico in cui tutti si muovevano – e dove la laicità era una parola sconosciuta: cosa ancora vera adesso, per molti versi, basta pensare all’infinita battaglia per togliere il crocefisso dai luoghi pubblici. Quando ero ragazza, se eri parte di una minoranza eri considerata un po’ una cosa curiosa; oggi in Italia il mondo religioso è decisamente più variegato e la percezione dell’altro è cambiata molto, in bene e in male. Io già a cinque anni avevo chiaro che non dovevo farmi il segno della croce e recitare l’Ave Maria al mattino a scuola, prima di iniziare le lezioni (ed andavo in una scuola non religiosa!) e sono innumerevoli le volte che ho dovuto spiegare “le differenze” fra cattolici e protestanti prima della fine del liceo. Dico “dovevo”, perché quel senso di fierezza ereditato dalla storia dei miei antenati che avevano resistito alla repressione della Chiesa cattolica mi costringeva a non tirarmi indietro almeno nello spiegare chi eravamo. A dare qualche informazione spicciola di storia e teologia ma soprattutto a rendere conto di quella fede dei padri (e delle madri) che ci aveva permesso di essere lì, a dire che per noi protestanti contano la libertà e la responsabilità: non siamo asceti, viviamo nel mondo ed è nel mondo che spendiamo la nostra fede, se credenti, così come viviamo un rapporto con Dio che non ammette mediazioni se non la lettura condivisa della Bibbia.

 

Considero la fede una esperienza interiore, un intimo rapporto con il sacro, che non necessita necessariamente di luoghi di culto. Vorrei pertanto mi spiegassi meglio ciò che può trovare spazio e espressione attraverso una pluralità di ministri di culto nelle carceri. Qual è il filo rosso della tua indagine?

Il rapporto con Dio è sicuramente un percorso interiore, come dici, e in qualche modo l’esperienza di uomini e donne credenti che sono stati imprigionati o deportati e hanno continuato, se non addirittura rafforzato la fede, ne sono una testimonianza. Penso – per dire i primi due che mi vengono in mente – al teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza contro il nazismo, o alla scrittrice olandese Etty Hillesum, che rifiuta di salvarsi per condividere il destino del suo popolo e viene deportata ad Auschwitz; e così molti altri, uomini e donne, che in carcere sopravvivono leggendo e commentando la Bibbia. Non bisogna dimenticare però che in Italia essere messi nelle condizioni di praticare la propria fede è un diritto costituzionale: questo significa avere la possibilità di rispettare, anche in carcere, regole e riti religiosi – pensiamo alle abluzioni rituali prima della preghiera per i musulmani – o di incontrare un ministro della propria confessione, e non un prete, per quanto questi possa essere ben disposto. In generale direi che anche dietro le sbarre dovrebbe essere garantito uno spazio dignitoso per pregare, cosa difficile da immaginare in cella, fra rumore, indifferenza e sovraffollamento. Si tratta di riconoscere che non esistono cittadini di serie a e di serie b: un musulmano, un ebreo o un buddista hanno lo stesso diritto di professare la propria fede di un cattolico. Purtroppo la religione è una cartina di tornasole delle discriminazioni che ancora sussistono fra le persone, in carcere e nella società, che appunto si vorrebbe laica e rispettosa delle differenze, ma così non è.

Che ruolo hanno avuto le immagini nella realizzazione del progetto e che cosa ha significato per te?

(Risponde la fotografa Isabella De Maddalena, autrice delle immagini del reportage premiato, “Dio dietro le sbarre”).

Lavorare a questo reportage è stato per me importante: dal lato visivo è stata una “sfida” trovarsi a rappresentare un tema concettuale come quello del pluralismo religioso, mentre dal punto di vista conoscitivo trattare questo tema è stato interessante perché ha aperto delle riflessioni sulla libertà in senso più ampio.
In occasione di uno dei seminari di Simurgh,progetto di sensibilizzazione sul tema della diversità religiosa, che prevedeva la docenza dei rappresentanti di diverse fedi – musulmana, cattolica, buddhista – sia ai detenuti che agli operatori, psicologi e volontari che lavorano al carcere di Monza, sono stata molto colpita dalle parole del Monaco buddhista Tenzin Khentse che ha definito il suo lavoro con i detenuti/e un percorso di “meditazione”. In questo percorso li accompagna a riflettere e se necessario modificare l’emozionalità e le dinamiche con cui affrontano questioni quotidiane: problemi con il compagno/a di cella, con i familiari distanti o con l’avvocato. Secondo il Monaco il carcere è un’opportunità di confrontarsi con i grandi valori della vita e di avvicinarsi gli uni con gli altri, e se si riesce ad affrontare bene il carcere allora si vivrà bene anche fuori, perché chi è “libero” può in realtà essere imprigionato/a un una prigione senza sbarre.
Queste sue parole mi hanno accompagnata spesso nel lavoro e ho cercato di pormi sempre con un atteggiamento di apertura e neutralità rispetto ai detenuti/e che incontravo, pensando di potere imparare da loro, che stavano attraversando questo ‘spazio’ con un potenziale di cambiamento spirituale così forte.
Entrando in un carcere si è inizialmente molto condizionati dal contesto, si ha la sensazione di entrare in un altro mondo, altre regole, gli orari e i percorsi limitati, ma poi è stato proprio l’incontro con i detenuti/e, con i loro volti, il fotografarli e l’interrogarli sul senso della spiritualità per loro che mi ha permesso di aprire una piccola breccia nelle loro vite e creare tra noi uno spazio di contatto in cui quello che mi interessava era rappresentare la loro dignità di persone insieme alla loro dignità di fedeli, qualsiasi fosse la loro religione.

 

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