Riscritture di Arianna attraversando Dürrenmatt e Borges

 

Riscritture di Arianna attraversando Dürrenmatt e Borges

di Giovanna Di Marco

“La discontinua Arianna rinnega la divinità animale che porta in sé, fornendo all’eroe la continuità, dandosi essa stessa alla continuità, per far trionfare l’individuo permanente”.
Giorgio Colli

Nell’isola dell’abbandono piango di amore umano, ma i racconti si sovrappongono, diventano intercambiabili. Non sono una, sono molteplice come il Labirinto in cui rinchiusero nostro fratello. Posso averlo invidiato perché nostro padre a lui, solo a lui, aveva dedicato la più ragionata follia, ciò che la mente lucida di Dedalo aveva declinato in infinità incontrollabili. Oppure era un’altra la mia necessità: dovevo cancellare la colpa di nostra madre, ripulire il suo ventre deturpato dalla bestia. Chi è feroce, Fedra? Il dio o l’uomo che mi sta straziando, che mi ha abbandonata? Tu sei ancora troppo giovane, ma devi sapere che nostro fratello, metà uomo e metà bestia, venne rinchiuso in questo recinto infinito che, scoperchiato, si offriva al cielo. La sua immagine replicata dagli specchi lo convinceva a guidare una mandria di esseri come lui. “Vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti come era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui. Si trovava in un mondo pieno di esseri accovacciati senza sapere che quell’essere era lui”.

Inconsapevole, privo di parola, ogni nove anni, quando fanciulli e fanciulle gli venivano esposti, tentava una danza imitato dalle immagini riflesse. Non potevano gli altri, non potevano seguirlo: innumerevoli ragazze muovevano i loro passi, il loro ritmo, il loro ballo; la sua natura ferina e voluttuosa allora tentava goffamente l’amore, uccidendo, non mangiando ché mangiare i corpi era altra cosa e non apparteneva a quella bestia che si cibava di erba. Arrivavano gli uccelli dal cielo, scendevano loro a straziare quei brandelli. Così fu per anni. Fino a quando non lo decisi. Ero invidiosa di quella bestia e gelosa di nostro padre o dovevo ripulire la vergogna di nostra madre? Fedra, lo saprai mai? Oppure puoi pensare come tutti che fu l’amore a cogliermi, a sconquassarmi senza più pensiero ai legami di sangue o al nostro stigma. Danzando e replicandomi a mia volta negli specchi, entrai. Lui dormiva e lo adornai del filo rosso come il sangue che avrebbe versato. Lieve e solenne entrai. Fui io a ordinare a Teseo il suo travestimento: un Minotauro, un altro, un gemello che però non avrebbe ripetuto ogni gesto di nostro fratello negli specchi, ma i suoi. “Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore”. Poi il colpo fatale. Quel travestimento, quella maschera era forse il mio volto, era forse il tuo volto? L’animale che ci portiamo nel fondo. O l’inganno del raziocinio.

Adesso non sono più nell’isola, ma in uno spazio siderale da cui contemplo il mondo e ti parlo di un’altra versione possibile del racconto di nostro fratello: “E la regina dette alla luce un figlio che si chiamò Asterione”. Forse ti ho mentito: egli parlava, rifletteva, era anche superbo. Come un iniziato ai misteri eleusini che vede per un attimo il bagliore della verità, raccontava a se stesso la sua casa e si sentiva un individuo unico, forse quello che aveva inventato tutto. Ma non lo ricordava. Avrebbe potuto imparare a leggere, ma lo annoiava perché riteneva che la scrittura non trasmettesse nulla. Ammazzava il tempo con i suoi giochi. Io sapevo leggere i suoi sogni replicati come le stanze della sua casa. I cadaveri gettati a terra di chi uccideva ogni nove anni gli servivano a distinguere i corridoi. Egli liberava quelle anime dai corpi che gli venivano offerti. Sapevo che aspettasse il suo salvatore, lo immaginava in tanti modi, anche come un toro dall’aspetto di uomo. Aveva capito che dovesse liberarsi anch’egli. «Lo crederesti, Arianna? – mi disse Teseo – Il Minotauro non s’è quasi difeso». In quell’isola dove piangevo d’amore umano, non conoscevo ancora la potenza deflagrante del dio micidiale che squassa e il suo mistero di dolore. C’è chi dice che scelsi il dio, chi dice che scelsi l’uomo e per questo venni punita da Dioniso. Non bastarono le lacrime, non basteranno le tue. Scoprirai come il dio mi abbia lanciato qui nel cielo. E sono una costellazione, sono una dea. Ma forse anche questo non è così. Saprai la verità solo nel momento in cui anche tu, Fedra, affronterai il tuo Labirinto, credendo forse di vendicarmi. Dioniso fece sbranare Orfeo dalle sue Baccanti. Come Orfeo ricordo e canto queste storie intrecciate, inconciliabili.

 

Giovanna Di Marco

Nasce a Palermo nel 1978. Laureata in Lettere con una tesi in Estetica e specializzata in Storia dell’Arte medievale e moderna con una tesi sulla pittura medievale, vive e lavora a Palermo dove insegna materie letterarie nella scuola secondaria. È autrice di articoli pubblicati su riviste scientifiche (Tecla, BTA), afferenti a temi di critica e letteratura artistica e della rubrica di approfondimento culturale dal titolo Come se fosse Antani sul quotidiano online ilSicilia.it. Per Morel cura la rubrica Nuvole, dedicata alla letteratura ecfrastica.

 

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