L’ASCETA OVVERO IL QUARTIERE DI MARCO PATRONE

L’ASCETA OVVERO IL QUARTIERE
di Marco Patrone

Parlo col quartiere quando sono Marco e allungo il passo per non raggiungere nessun luogo, vestito bene per non andare da nessuna parte, il viso determinato per non prendere nessuna decisione, e parlo col quartiere quando sono l’alcolizzato davanti alla stazione, sia quando mi addormento sulla panchina che quando litigo coi miei simili e quando devo mostrare i documenti alla polizia. Nelle storie banali, la città è indifferente, ma il quartiere non è una città, per questo il quartiere non si mostra indifferente. Che la storia sia forse e comunque banale, va messo in conto.

Il quartiere mi ha accolto e sostenuto quando ero Marco, e mi ha tollerato e sorriso e strizzato l’occhio quando ero l’alcolizzato davanti alla stazione; esso non pretende strade pulite e camminate composte, ma sopporta, anzi quasi esige, la sua dose di pattume e residui organici, di urla e convulsioni, di fughe e contrasti, perfino di incidenti e reati.

Alcune volte avevo parlato col quartiere ed ero stato salvato: quando avevo sbattuto la testa e mi ero addormentato sul pianerottolo e dopo un risveglio confuso avevo cercato di entrare nella casa della vicina, quando quasi ero finito sotto il tram (così mi avevano detto) e quando ero seduto al tavolo con quella ragazza dolce con gli occhiali, due estranei allo stesso tavolo, e io l´accarezzavo e lei lasciava fare, e io non so cosa avevo creduto, finché lei mi aveva fatto cenno di no, ma io continuavo ad accarezzare e lei aveva detto “no, no”. I camerieri mi conoscevano – sospetto che sapessero che io parlo col quartiere – e guadavano, ma non avevano detto nulla. Poi avevo smesso ed ero scoppiato a piangere, prima che lei andasse via e io qualche minuto dopo di lei.

Il centro del quartiere è la piazza alberata. Mi sedevo su una panchina dopo il lavoro e osservavo e lasciavo che il tram-assassino passasse dietro la mia schiena, lo immaginavo deragliare e trascinarmi via, farmi a pezzi. Sarebbero usciti dalla birreria e avrebbero detto “ma è lui, il nostro Cliente Carino che a volte si dimentica di pagare ma è gentilissimo e torna sempre”. Avrebbero pensato che non erano riusciti a proteggermi, ma seduto sulla panchina ero Marco e bevevo acqua a grossi sorsi e non avevo paura di nulla, se non di quella gente seduta sul prato della piazza e del loro modo di esserci e di rapportarsi tra di loro e con la piazza, e con il quartiere.

Un giorno l’alcolizzato della stazione era passato davanti alla Banca, per vedere se c’era spazio per dormire nel vano del Bancomat e degli sportelli automatici. Era marzo, c’era un sole già primaverile, ma la sera sarebbe stata fresca e umida, e l´alcolizzato aveva visto una valigetta, una piccola valigia da lavoro rivestita in pelle, a dieci metri dalla porta del vano. E ci aveva pensato e alla fine aveva deciso di chiamare la polizia, poteva andare al comando della stazione ma cosa gli avrebbero chiesto e come lo avrebbero guardato? Aveva paura che i poliziotti gli chiedessero di dare il suo nome (che aveva dimenticato) e di rimanere lì ad aspettarli (e non poteva, perché doveva comprarsi da bere) ma erano stati frettolosi, e chi aveva preso la chiamata aveva solo detto, seccamente – forse veniamo a controllare.

Boom! Aveva pensato l’alcolizzato della stazione. Ora esplode la bomba e Boom! Un po´di cose cancellate (non io). La banca. Il negozio del parrucchiere. Purtroppo, quel nonno con un bambino di forse due settimane tenuto appoggiato sul busto. Poi era scoppiato a piangere ed era entrato nel mini-market turco a comprare della birra che avrebbe pagato con gli spiccioli.

Se ho visto queste cose, è perché da quando sono diventato l’asceta ausculto il quartiere con una precisione che prima non potevo possedere. Alle sensazioni carnali si è sostituito uno sguardo lucido, che un cattivo scrittore definirebbe chirurgico. Non esisteva più quella commozione, quel momento di rivelazione completa, quando sedevo in un locale a cento metri da casa mia, potevo fare il gioco-provocazione, mentre gli altri andavano al cesso del locale io salivo a casa, pisciavo e magari scendevo con il maglione e con un nuovo libro. In questo, le persone potevano capire meglio il mio rapporto con il quartiere ma se mi avessero detto “il quartiere sei tu” (sarebbe stata un’osservazione da pessimo lettore) credo che mi sarei risentito e soprattutto si sarebbe risentito il quartiere.

Quando certe mattine credevo di star male – era importante uscire prima di aver verificato se fosse vero o meno – andavo a piedi o di corsa fino alla villa di Thomas Mann. Ne aveva mantenuto le forme, ma era ora bianca, lucida, protetta e monitorata da telecamere, sulla sinistra verso la strada c’era la serranda del garage, e davanti erano parcheggiate auto sportive, grandi auto sportive. Arrivavo lì, leggevo la targa commemorativa, e mi pareva di iniziare a star meglio, probabilmente per le endorfine sviluppate durante il movimento.

Quando era arrivata la fase dell’asceta, mi fermavo prima, deviavo verso il fiume oppure risalivo la collina che da esso saliva alla chiesa, entravo nel piccolo cimitero e mi fermavo davanti alla tomba di Fassbinder, ammirando quell’estremismo che non lo aveva reso asceta, e che rendeva me, in sostanza, un mediocre.

Mi piacerebbe custodire un segreto: la ragazza del “No no” e delle carezze è uscita dal locale, io l´ho seguita, lei si è allarmata e ha attraversato la strada, non è pratica del quartiere, con cui io invece sono in combutta, non vede il tram, sento sferragliare e frenare e un urlo, e poi altre urla, non mi fermo, proseguo, nessuno sa o capisce (perché il quartiere mi protegge), ed entro nell´altra birreria, sono la persona gentile, sanno che devono essere pazienti se dimentico di pagare. Ma il giorno dopo mi ero svegliato nel mio letto, la testa ancora ferita, scendendo le scale la vicina mi aveva chiesto se fossi stato io a cercare di forzarle la porta, io avevo detto di no, avevo guardato sui giornali e non si parlava di ragazze finite sotto un tram.

Ero passato davanti agli alcolizzati della stazione (che ero io), poi sudando mi ero seduto su una panchina in piazza (che ero io) e avevo preso a tossire, forse di nausea, forse la gola per quella parte di notte trascorsa sul pianerottolo. La salvezza era vicina ma non lo sapevo, e soprattutto finora, quando certe sere nevrotiche leggo sul divano sentendo le musiche lontane sulla piazza e i vicini che ridono e il rumore di piatti e bicchieri, e muovo gli occhi inquieti pregando, implorando un momento di pace, eine ruhige Stunde, conoscendo quanta foga e brama ancora covino dentro di me, so, lo sento, che nessuno ha ancora mai dimostrato che l´asceta è destinato a salvarsi. Nel frattempo, il quartiere osserva, non interviene, lascia che le cose scorrano.

Biografia

Marco Patrone, nasce nel 1971 a Genova. Nella vita principale si occupa di sviluppo prodotti bancari, finanziari e assicurativi, facendo base e risiede a Monaco di Baviera. Nella vita meno principale cura il blog di libri Recensireilmondo.

Nel 2015 viene pubblicato per Transeuropa il romanzo d’esordio Come in una ballata di Tom Petty.

Nel 2016 il racconto L’estate del pollo uscito nella raccolta ” L´animale umano” di Urban Apnea si è classificato secondo al concorso Zeno. Sempre nel 2016 esce un racconto per la raccolta Monaco d´autore di Morellini Editore.

Nel 2018 esce per Arkadia il secondo romanzo Kaiser, basato su una storia calcistica vera, per quanto incredibile. 

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