Contusioni

Contusioni

di Valentina Di Cesare

 

Quante volte le avrò detto di smetterla? Non le conto più ed è questo il segreto. Mi ricordo ancora la prima, a quei tempi eravamo fidanzati e allora resistevo a lungo. Avevamo un appuntamento alla Galleria Tap Seac, sulla Conselheiro Ferreira de Almeida, per bere qualcosa prima di cena. Avevo già organizzato tutto e prenotato in un ristorantino nei dintorni, zuppa Lacassà e pollo all’africana, poi di corsa verso la notte. Lei cosa fa? Arriva alle nove passate, io come un tonto ad aspettare, troppo nervoso per chiamarla e non offenderla, troppo orgoglioso per chiamarla e offenderla. Arriva dopo un’ora e mezzo, mi dice che ha avuto un malore, un giramento di testa e che si è dovuta distendere un attimo ma che l’attimo è diventato mezzora. E poi corri a prendere il bus per arrivare a Tap Seac, ma è fine settimana e ci sono meno corse. Avvertirmi? L’idea di comporre il mio numero e informarmi? No, non pervenuta. -Potevi chiamarmi- mi dice risentita e si aggiusta il foulard nero attorno al collo. Arriviamo al ristorante ed è tutto pieno. Parlo con il caposala, gli dico della mia prenotazione, mi risponde che non hanno tempo da perdere , che quando un cliente tarda loro dopo dieci minuti danno il tavolo a chi prima arriva. -Tra mezzora dovrebbe liberarsi quel tavolo in fondo, se volete potete farvi un giro e tornare- mi dice, io accetto senza chiedere conferma a lei, tanto non mi ascolta, si sta mettendo il rossetto nel bel mezzo della sala. Usciamo, non voglio parlarle ma devo. Le chiedo se ora si sente meglio e mi accendo una sigaretta, mi guarda sorpresa e fa – Certo che no!- La mezzora in attesa si tramuta in un tormento, la mia tensione è tanto estrema quanto inutile: lei si lamenta e dice che ha freddo, poi si controlla più volte i denti sullo specchietto e fa strane smorfie con la lingua. – I miei capelli sono indecenti- dice e fa per spostarne qualcuno dalla fronte. –La genetica è ingiusta, noi non abbiamo i ricci, questi capelli non hanno forma, cadono come spaghetti scotti –. Fumo un’altra sigaretta, mi chiede di spostarmi un po’ ché ha lavato i capelli da poco e perderebbero il profumo. I suoi capelli non le piacciono, non hanno forma, cadono però si preoccupa di continuo che puzzino. Torniamo verso il ristorante, fare qualcosa che abbia un fine mi distrae dalla tensione. Il resto della serata non serve raccontarlo, è di facile immaginazione e pensare che lo spreco di tempo, dunque di vita, è tutto ciò contro cui combatto da sempre. E questa è solo la prima volta, poi ce ne sono state così tante che non le conto più. La storia del malore, per esempio, si è ripetuta in molte altre occasioni, alcune indelebili: una volta alla festa di laurea di mio cugino, eravamo lì in Largo do Senado: cena ottima, compagnia altrettanto, solo qualche lamentela di mio zio per il servizio, secondo lui impreciso. Stava andando tutto alla grande quando lei, dopo un bel porridge di arachidi ancora sul groppone, inizia a lamentare dolori al piede sinistro –. Sono crampi, sono crampi! – latra e sbatte ovunque, iniziando a tendere le gambe come un canottiere prima di vogare. Mi avvicino, le accarezzo le spalle, provo a chiederle cos’ha, si volta feroce e urla accusandomi di non capire, di non sapere, di non sentire. Mi tiro indietro, non dico una parola e mi allontano, mentre tutti si alzano e le vanno intorno, mia zia tira fuori uno spray puzzolente e glielo sparge sulla scarpa, lei grida e fa per prendere il contenitore – Non vedi che le scarpe sono chiare? Le hai macchiate con questo coso, potevi stare attenta invece di metterti a fare il vigile del fuoco con i miei sandali -. Gli occhi di mia zia precipitano in basso, come biglie a caduta libera, le grida la immobilizzano così rimette lo spray nella borsetta e sta zitta. – Il piede è rotto, non si muove, è rotto! – piange e si graffia il viso che si contorce. Tutto il ristorante ci guarda, mio zio è l’unico che continua a mangiare senza curarsi di lei; col gomito tocca mio cugino e fa –Mangia!- Il cameriere osserva la scena dalla cucina, il piede è al centro del tavolo tra piatti e bicchieri; mi metto la giacca, prendo la borsa, il foulard e la aiuto ad alzarsi, ce ne andiamo, lei non saluta, loro sì. Il traffico del venerdì mi fa impiegare un’ora per riaccompagnarla, e poi io filo dritto a dormire esausto. La settimana successiva un’altra volta: è sabato, con gli amici ceniamo sull’Avenida Dr. Sun Yat-sen in un nuovo lounge bar. Cena a posto, compagnia ben calibrata, rapporto qualità-prezzo abbordabile, a parte le tortine all’uovo finali. Decidiamo di andare a ballare, c’è troppo traffico per rimetterci in macchina, la discoteca è vicina e andiamo a piedi. Arriviamo nel locale, è tardi, non c’è fila. Entriamo, va tutto bene, non mi sembra vero. Balliamo un po’, poi mi avvicino per chiederle cosa vuole da bere, risponde – Quello che vuoi – e fruga nella borsetta. Torno da lei con un cocktail, mi avvicino per darle un bacio, si volta, prende il bicchiere, tentenna e poi lo fa cadere a terra. Inizia a gridare, con la mano sinistra si tiene il polso destro, dice di sentire un dolore fitto, forse è un infarto, dice. Le dico che no, non è possibile, lei urla, la musica è altissima ma io sento le sue grida, alza il braccio e nel frattempo lo trattiene con la mano opposta poi fa- Io sto morendo e tu resti immobile!- Offende e immancabilmente piange. Arriva una nostra amica, mi chiede cosa accade, io sto per rispondere ma lei scalcia e mi aggredisce di nuovo, accusandomi di volerla fa sfigurare. – Ti piace quella, eh?- Non ascolto più, vedo solo il movimento delle sue labbra, il viso deformato dall’angoscia. Vado a riprendere la mia giacca, prendo anche il suo foulard nero, è lunghissimo. Perdo gli amici tra la folla, non si accorgono che andiamo via. Mentre usciamo prova a tirarmi un calcio – Ora dobbiamo tornare a piedi fino alla macchina, io ti aspetto qui- No-faccio io- e lei mi accusa, tenta di rincorrermi, sputa. Poi si ferma, appoggiata a un muretto e piange. Mi intenerisce, mi avvicino e lei urla, urla forte e inizia di nuovo con i calci. Mi guardo intorno, non c’è nessuno. Il muretto dove siamo appoggiati dà su un dirupo non più alto di cinque o sei metri. Mi annodo il suo foulard al collo, stringo forte, fortissimo, ancora più forte, voglio farle credere che sono pronto a uccidermi e lei mi fissa, ride, mentre il trucco le riga la faccia.

Siamo sposati da un anno ormai e stiamo bene, solo qualche contusione.

Biografia

 

Nata a Sulmona , ha studiato a Chieti e a Siena e ora vive a Milano,dove insegna Lettere a scuola e lingua italiana all’università ai richiedenti asilo ed è esaminatrice linguistica per coloro che richiedono la cittadinanza italiana. Giornalista dal 2012, si occupa prevalentemente di cultura e di sociale (con attenzione particolare a emigrazione e immigrazione) . Su riviste specializzate scrive di letteratura moderna e contemporanea.Ha pubblicato due romanzi “Marta la sarta” (Tabula Fati, 2014) , “L’anno che Bartolo decise di morire” (Arkadia, 2019) e un racconto lungo intitolato “Le strane combinazioni che fa il tempo” (Urban Apnea Edizioni, 2018).

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