Spazi in migrazione.

Spazi in migrazione.

Dialogo tra Ester Sparatore

e Federica Sossi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questi giorni, pensando alla nostra conversazione per questo articolo, ho riflettuto molto sull’importanza di cambiare angolazione in un racconto, soprattutto quando si tratta di argomenti inflazionati e molto discussi. Ci riflettevo anche riguardo al mio nuovo film, ma in realtà è sempre stato il punto di partenza di tutti miei progetti. In Celles qui restent il cambio di prospettiva è proprio il fulcro principale: raccontare la migrazione attraverso le esperienze di chi resta e non di chi parte, raccontare come la vita dei familiari dei migranti viene stravolta dalle loro partenze. Tutto è nato grazie al tuo libro Spazi in migrazione. Cartoline di una rivoluzione.

All’epoca cosa ti ha spinto a raccontare queste storie?

In realtà io non sono andata in Tunisia perché volevo scrivere un libro, ma alla fine l’ho scritto proprio perché andando in Tunisia ho incontrato tante persone con le loro storie. Ero andata lì subito dopo la rivoluzione perché era in corso un movimento migratorio verso l’Italia e l’Europa a sua volta rivoluzionario per come si stavano strutturando, dal momento che riusciva a contestare dall’altra parte del Mediterraneo le politiche migratorie dell’Unione Europea. Questo mi interessava e allo stesso tempo mi affascinava molto. Poi nel corso di questo viaggio mi sono imbattuta in quell’altro punto di vista rispetto alla morte e alla dispersione, ma è stato un caso perché non lo stavo cercando. Io cercavo delle associazioni, dei militanti che mi potessero introdurre dentro al mondo delle migrazioni tunisine e così ho conosciuto questa realtà delle famiglie dei migranti tunisini dispersi e con loro sono poi rimasta in contatto. Era impossibile non partecipare a quel dolore, a quel pianto, a quell’attesa, a quella vita completamente altra rispetto a come si vivono le migrazioni osservandole dall’Italia o a come le pensi incontrando le persone che sono arrivate, che siano uomini, donne di diversi luoghi con diverse esperienze. Erano le storie di quelle che restano, ma anche di quelli che restano, perché tra di loro non ci sono solo madri e mogli ma anche i padri, fratelli, figli, e vedere come questa mancanza fosse così determinante e destabilizzante per la vita dell’intera famiglia, e per così tante famiglie perché i dispersi nel 2011 erano tantissimi, mi ha colpito molto.

Anche se non avessi voluto essere coinvolta, loro ci sono riusciti perché mi hanno travolta con un dolore urlato, un dolore che, come tu dici, ti si attacca addosso.

Quando sono tornata a casa le telefonate erano continue perché la loro era un’impellenza, un’urgenza. Diversa da quella abituale di noi attivisti da questa parte del Mediterraneo nell’organizzare manifestazioni, azioni, sit-in, perché non permetteva pause, dal momento che derivava da un vissuto e da un dolore troppo forte, da cui è impossibile uscire.

In quel periodo, a Milano, io facevo parte di un collettivo femminista (Le Venticinqueundici, https://leventicinqueundici.noblogs.org/) che ha capito l’importanza delle rivendicazioni delle famiglie tunisine, mentre nel caso di molti altri soggetti politici italiani ed europei con cui avevo a che fare a quel tempo questo non avveniva. E in parte, secondo me, non viene capita neanche adesso, nel senso che ora, certo, tutti parlano dei morti dei migranti nel Mediterraneo, ma lo fanno perché le morti ci sono da tanti anni ed, essendo diventate sempre più numerose, bisogna registrarle, bisogna trovare il modo di far trovare alle famiglie i propri cari, fare in modo che i morti non rimangano privi di identificazione. E per poter fare tutto questo si è messa in moto una sorta di gigantesca macchina amministrativa della morte. All’epoca questo ancora non esisteva. C’era solo la rivendicazione del proprio dolore, con un effetto dirompente sulle modalità di lotta abituali in Europa rispetto alle migrazioni e rispetto anche ai morti nel Mediterraneo, che non erano solo quelli del 2011, poiché i naufragi accadevano già da più di un decennio.

Tu mi dici che ora si tiene in considerazione questo aspetto e anche se la definisci una macchina burocratica, secondo me alla fine che ben venga rispetto al nulla. Quando ho iniziato a presentare il mio film ai festival, quasi nessuno conosceva questa storia, ma quel che è più grave era che nessuno si era mai chiesto cosa succedesse nell’altra sponda. I migranti sono costantemente de-umanizzati, sono considerati solo un problema o, ancora peggio, sono oggetto di strumentalizzazione politica. Non si considerano come esseri umani, se non quando si parla di grandi naufragi. Siamo dunque ancora lontani dall’umanizzazione, però a questo punto anche la macchina burocratica è almeno un piccolo passo avanti. Ho letto di recente che sono venute delle mamme tunisine ad Agrigento per il confronto del Dna e questo prima non capitava.

Sì sono d’accordo con te, le politiche migratorie sono anche politiche di disumanizzazione, ma non credo che rivendicare l’umanità dei migranti possa avere ancora un significato politico di contestazione. Tu nel tuo film non lo fai, non la rivendichi, non hai bisogno costantemente di sottolinearla, ma mostri semplicemente la quotidianità, e così i migranti dispersi ridiventano degli esseri umani, che hanno una famiglia, che hanno degli affetti, e che mancano a questi affetti, che lasciano un vuoto, costante, denso, non cancellabile. Invece, per quanto riguarda la macchina amministrativa che si è messa in moto rispetto alle morti nel Mediterraneo, secondo me, è parte delle stesse politiche che producono morte e dispersione. Mi spiego meglio: le politiche migratorie dell’Unione europea, con la loro pretesa di governare il movimento degli esseri umani, creando diverse gerarchie di persone proprio in base alle loro possibilità o impossibilità di movimento, sono politiche che provocano morte e dispersione e nel quadro di queste stesse politiche si è venuto a costituire una macchina amministrativa che si occupa dei morti e che quindi inizia a identificarli, a non seppellirli più nelle fosse comuni, comincia a prevedere test del Dna e a costituire degli archivi, di modo che i parenti possano eventualmente identificarli. Per me che invece ho vissuto la fase della lotta con le mamme tunisine, questa cosa è abbastanza destabilizzante. È un passo avanti, ma è come se questo fosse solo un aspetto amministrativo di una macchina che comunque provoca queste stesse morti e in qualche modo è come se le contestazioni fossero catturate, risucchiate. La forza dirompente delle lotte delle famiglie viene neutralizzata.

Questa macchina amministrativa, compresi i libri che sono stati scritti, i convegni accademici che sono stati fatti ecc., vede alcuni attori presenti che sono gli stessi che poi attuano quelle politiche o sono gli stessi che partecipano in quanto parte “umanitaria” a quelle politiche e non soggetti che le contestano. E quindi alla fine si produce una sorta di circolo vizioso, in cui però tutto si tiene: si produce morte e in conseguenza di questo si devono trovare i sacchi dove mettere i corpi, i luoghi dove seppellirli, il modo per identificarli. Insomma, si produce morte, morti, moltissimi morti e sempre più numerosi, e poi bisogna “smaltirli”, si costruisce una macchina che li “tratti”, dentro a questa macchina finisce anche il dolore delle famiglie, e si pensa di “smaltirlo” dando in cambio un’identificazione.

Noi due abbiamo ovviamente parlato tanto di questo argomento, ma effettivamente è la prima volta che facciamo questa riflessione. Non ci avevo mai pensato. Effettivamente quello che intendi dire è che si tratta di una perfetta macchina burocratica: crea la morte e chiude il cerchio con i riconoscimenti dei corpi, senza provare mai a scardinare le cose, trovando un modo per evitare queste morti, ma almeno potremmo considerare questo un piccolo passo avanti per dare un po’ di pace alle famiglie dei dispersi.

Si ma allo stesso tempo in un certo senso arriva anche a neutralizzare la forza dirompente di quel dolore. Io non dico che queste famiglie debbano continuare a soffrire, ma è come se la capacità che hanno avuto di destabilizzare sia le politiche migratorie sia il modo degli attivisti europei di pensare la migrazione venisse cancellato. Quello che io ho vissuto rispetto, come dici tu, a questa altra narrazione, quello che ho visto e provato, resta non accolto. È un aspetto che secondo me il tuo film fa vedere molto bene, perché fa vedere anche i momenti di lotta nel modo caotico con cui l’hanno sempre portata avanti, nulla era organizzato bene, era tutto spontaneo e pieno anche di conflitti interni, ma nonostante questo le cose si riuscivano a fare, e con una forza sorprendente. E come racconti anche tu però questo è un lato che va insieme alla vita di queste persone. Un lato fortemente politico che ha avuto un effetto dirompente anche nell’ambito dell’antirazzismo. Mi viene in mente la scena nel tuo film della bambina che bacia la foto di suo padre davanti alla telecamera e poi la gira verso di sé perché a lei non importa nulla del fatto che tu la stia riprendendo, e ancora meno degli eventuali spettatori, a lei interessa solo la foto di suo padre che è l’unica cosa di lui che le rimane. Per me è una delle scene più commoventi, ma è anche parte di un racconto estremamente politico.

Tu pensa che quella scena è la primissima cosa che ho girato a Tunisi. Io dico sempre che la telecamera per me è come uno scudo che mi protegge dalle emozioni che però mi travolgono, come in questo caso, quando riguardo quello che ho girato e questa scena mi ha proprio spezzato il cuore. Volendo provare a dare una chiusura alla nostra chiacchierata, quale pensi che sia la direzione da prendere ora rispetto alla lotta dei movimenti antirazzisti?

È una domanda difficile, a cui non saprei proprio rispondere, ma a cui, in fondo, non ha senso che risponda una persona, da sola, con il proprio pensiero e le proprie idee. Le lotte, infatti, sono sempre il frutto della capacità di molti di mettersi insieme, di trovare delle comunanze, modi di stare insieme e di essere dirompenti proprio per questo stare e fare insieme. Ci sono, in questo momento, numerosi luoghi e spazi di “resistenza”, ma quello attuale è un periodo estremamente difficile perché la forza della macchina di produzione di morte si è estremamente espansa e affinata.

Biografie

Federica Sossi insegna Estetica all’Università di Bergamo. Tra le sue pubblicazioni: Nel Crepaccio del tempo. Testimoniare la Shoah (Marcos y Marcos, 1997) e, sul tema delle migrazioni, Autobiografie negate. Immigrati nei Lager del presente Manifestolibri, Roma 2002),  Storie migranti (DeriveApprodi, Roma 2005) e Migrare. Spazi di confinamento e strategie di esistenza (Il Saggiatore 2007).

 

 

Ester Sparatore è nata a Palermo. Si è diplomata all’Accademia di belle arti a Palermo. Dal 1999 al 2007 lavora presso la società di produzione di audiovisivi Clct Broadcasting a Palermo, occupandosi di regia, fotografia e montaggio di numerosi documentari per istituzioni pubbliche, museali e culturali. Nel 2007 ha collaborato con il regista Stefano Savona, per il quale ha realizzato la fotografia dell’archivio audiovisivo sulla civiltà contadina siciliana Il pane di San Giuseppe, dal quale sono tratti i due documentari Spezzacatene e Sulla stessa barca. Nel 2011 dirige con Stefano Savona e Alessia Porto Palazzo delle aquile, selezionato dall’Acid al festival del cinema di Cannes e vincitore di diversi premi internazionali, tra i quali il Gran prix del Cinéma du Réel. Nel 2014 scrive e dirige insieme a Letizia Gullo Mare magnum, che ripercorre la campagna elettorale per il rinnovo del Sindaco del piccolo comune di Lampedusa, isola ormai nota alle cronache per il suo ruolo di approdo dei migranti. Il suo ultimo documentario Celles qui restent è stato presentato nella Compétition Internationale Longs Métrages a Visions du Réel e ha vinto il premio come miglior film del concorso Biografilm Italia al Biografilm.

 

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