Momenti di non essere

Momenti di non essere

di Viola Di Grado

 

In questo istante, sul divano, mentre la primavera si oppone tenacemente alla pandemia e sul mio salotto si abbattono sciami di risate infantili (le loro teste si sporgono da qualche finestra: questo possono fare adesso le teste, sporgersi, per ridefinire i confini della clausura, sperando lo facciano anche in senso metaforico) non ho finalmente niente da dire sulla mia vita, sulle intricate relazioni umane, sull’universo, su quanto è complicato abitare il mio cervello o la società umana occidentale. Da quando sono al mondo aspetto momenti così: non gli splendidi moments of being woolfiani, tutto il contrario: momenti di non essere, anti-epifanie, cesure gloriose del pensarsi.
Li aspetto, ma non arrivano quasi mai.
Non devono avere un significato mistico: quello del taoismo, che rintracciava nel vuoto un’opportunità fantasiosa di diluire se stessi nel creato, nè quello del buddhismo, che voleva vincere la vita e i suoi mortificanti desideri con l’innalzamento a un regno senza pene nè definizioni. Non devono insomma portare a un’illuminazione su di sè o sul mondo, altrimenti sarebbero appunto delle epifanie, io invece bramo il vuoto sterile, brullo, impossibile da colonizzare con il pensiero.
Non cerco nemmeno l’assenza, che invece è la cifra della nostra epoca, che ha sostituito la contemplazione del contenuto con il consumo della superficie. Non cerco desolazioni instagrammabili con paesaggio ipersaturato. I momenti che cerco forse non si possono spiegare: dimentica il linguaggio, diceva Zhuangzi il grande filosofo cinese, principale teorico del NON (non azione, ma anche non dolore, non intromissione nei meccanismi nella vita). Li desidero perché non ne ho il talento: sono un’iper-pensante, una che riempie tutti gli spazi della vita raccontandola febbrilmente a se stessa.
Forse questi momenti di non essere si possono raggiungere con il corpo: usarlo (esercizio fisico, rapporti sessuali, etc) può annullare il rimestio rovinoso della mente. Almeno da adolescenti può funzionare. Da adulti ci si distanzia da tutto, perfino dal misterioso nido d’ossa e tessuti che abitiamo con stupefatta ingenuità. Cosa fare, dunque, quando in quarantena si è costretti a stare in un habitat di social media e divano, per raggiungere il vuoto cosmico?
Una cosa utile, per me, sono le serie TV. Avete visto The bold type? Probabilmente no. In Italia non ne ha parlato nessuno, e questa è una buona ragione per guardare almeno la prima stagione. Racconta con brio e un ottimo ritmo di tre ragazze che lavorano nella redazione di una rivista femminile (che si professa femminista, ma pubblica per lo più indagini su cerette e kamasutra). E’ una commedia sentimentale senza pretese intellettuali, ma l’oggetto del desiderio delle protagonisteè la carriera. Infatti le storie d’amore, al contrario, sono disastrose e sfasate, piene di parole sbagliate e tempismi sbagliati, sentimenti contorti e dialoghi stonati. La biondissima Sutton è in fissa con uno con cui lavora, ma teme che stare insieme diffonderebbe voci sbagliate sulla ragione che l’ha portata ad essere assunta, così rinuncia a lui. La campagnola Jenny sceglie uomini superficiali e narcisisti e si affatica senza successo a decodificare le loro mosse. La mulatta Kat si innamora di un’artista musulmana senza permesso di soggiorno, Adena, salvo poi scoprire che da quando stanno insieme Adena ha perso l’ispirazione. Guardavo questa serie a Graz, in Austria, in una casetta nel bosco, durante una residenza per scrittori, e guardarlo dava al mio isolamento creativo e iper-introspettivo uno slancio di leggerezza. La leggerezza per me è un lusso. Vivo in una nube tossica di pensieri. Per fortuna la maggior parte di questi pensieri sono creativi, ma gli altri sono solo un eccesso, una proliferazione senza utilità. Codifico il mondo incessantemente in funzione di una narrazione, di un romanzo eventuale, ma gli scarti dove vanno? Tutto quello che non rientra nei miei libri va a formare una trincea indistruttibile che mi scherma dalla serenità. Quando mi chiedono a cosa penso, rispondo onestamente che penso a tutto, ma da poco ho scoperto che anche David Foster Wallace rispondeva così, dunque in attesa di un rimpiazzo inedito non rispondo affatto, sostituisco la dichiarazione di affastellamento psichico con uno sguardo fitto, forse simile a quello degli animali in difficoltà. Mi viene in mente la moglie di mio nonno, che un giorno di tanti anni fa, raccontandomi del nipotino di cinque anni, disse con le lacrime agli occhi: “Dice frasi così complicate, non sta mai zitto…Ho paura che si uccida.”
Durante la quarantena ho rintracciato la nuova stagione di Bold Type: ero contenta di ritrovare una serie che mi sollevava in alto, dalle stalle dell’autoanalisi (“autopsia” significa letteralmente “guardare con i propri occhi”, facile dedurre che ogni tipo di autoanalisi è necrofila, è un esame di superfici morte, come ho raccontato in Cuore Cavo) alle stelle dell’intrattenimento, anche se non posso dire che la quarantena mi stesse pesando eccessivamente (scolpisco, guardo ogni film esistente, mi faccio mordere dalla mia gatta ipovedente, leggo i diari di Susan Sontag e i miei). Comunque la nuova stagione mi ha deluso profondamente: tutto perde la sua qualità intricata e avversa, il suo anti-messaggio e la sua antipatia. Le relazioni delle tre ragazze migliorano, gli amori della vita tornano con dichiarazioni d’amore ineccepibili. La serie diventa fastidiosa, perché improvvisamente è finta, e la finzione può essere leggera solo quando crea degli spiragli per riflettere la nostra realtà. Penso allo specchio dello zen: la metafora della mente pura, incontaminata dai dualismi e dalle speculazioni sul reale. Forse è quello specchio che cerco. Quello di The bold type, invece, è uno specchio non riflettente simile a quelli di plastica delle Barbie. Ve lo ricordate? Li guardavo con frustrazione, da bambina, studiando l’ottusa plastica adesiva che pretendeva di riflettere e invece distorceva.
Nella terza stagione di The bold type, persino l’elementare ma non superflua lezione femminista sul dover puntare sulla realizzazione di sè prima che sui principi (o principesse) azzurri viene sommersa da un’insistenza leziosa sulla passione ritrovata, l’amicizia eterna e i cocktail di New York. La direttrice della rivista è più materna e comprensiva di qualsiasi madre mai esistita, il lavoro non è mai frustrante, ma soprattutto l’amore trionfa sempre. L’amore è più forte di tutto. Anche della sceneggiatura, a quanto pare, e della verosimiglianza: della complessità della vita. Solo una cosa è ancora più forte: la noia, il fastidio di sentirci imbrogliati. Perché the bold type nasce come una commedia fresca e frizzante ma diventa presto un sex and the city un po’ attempato, con meno umorismo e più capi di Gucci. Solo verso la fine della terza stagione la realtà irrompe con qualche delusione e qualche riflessione (“are we fake feminists?” chiede preoccupata Jane alla sua boss, e questo quesito problematizza finalmente un po’ la serie, aggiustando il tiro) ma è troppo tardi: l’eccesso di zucchero ha cariato la nostra visione, lasciandoci apatici e appesantiti.
Perché sto parlando di questo? Perché oggi non voglio parlare di nulla. Il nulla mi seduce: mi innamoro del nulla, del silenzio che brulica sotto il rumore del mondo, e voglio sentirlo fino in fondo. Voglio scriverci una serie tv. Una serie TV sul vuoto assoluto. Sui buchi neri che ingoiano tutto, ogni slancio della mente e del linguaggio: tutto tranne i cuori pietrosi e opachi di chi pensa troppo, che continuano come stelle morte a vagare nella galassia.
(Dicevo dei moments of being woolfiani. Eppure, come scrisse Violet Dickinson a Leonard dopo il suicidio di lei, l’eccelsa Virginia scriveva anche di quanto le piacevano le uova alla scimmietta. Forse voglio questo: appassionarmi alle uova alla scimmietta. Non so nemmeno cosa siano, ma non importa. Difficile dirvi di più sul nulla di cui parlo. Parlandone l’ho già distrutto. E io voglio il mio specchio zen, ma in sua assenza mi accontento di quello del cellulare, e come tutti mi faccio il mio inutile selfie del giorno).

Biografia

Viola Di Grado (Catania, 1987) è l’autrice di Settanta Acrilico Trenta Lana (edizioni e/o 2011, vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima, finalista all’International IMPAC Dublin Literary Award), di Cuore Cavo (edizioni e/o 2013, finalista ai PEN Literary Awards e agli IPTA Awards, nominato al Man Booker Prize 2014), di Bambini di ferro (La Nave di Teseo 2016) e di Fuoco al cielo (La Nave di Teseo 2019, vincitore del Premio Viareggio Selezione della giuria 2019 e finalista al Premio Biblioteche di Roma 2019). Collabora con La Stampa- Tuttolibri e con Linus. I suoi libri sono tradotti in tredici paesi.

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